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Sagarana I POPOLI NATIVI LOTTANO ANCHE PER IL NOSTRO FUTURO


A partire da un invito dalla rivista Sagarana ad ogni nuova edizione uscirà un articolo inedito, su un tema di grande rilevanza in questo momento, suggerito dalla Redazione di Segnali di fumo: www.sdfamnesty.org magazine on line sui diritti umani di Amnesty International. Questo è il secondo articolo di un totale di otto.


Riccardo Facchini


I POPOLI NATIVI LOTTANO ANCHE PER IL NOSTRO FUTURO



Eriberto parla con pacatezza, ma la sua voce è ferma e le sue parole pesano come macigni sulla coscienza di un mondo che, fin dai tempi dei conquistadores spagnoli, non ha mai smesso di porre serie minacce alla sopravvivenza fisica e culturale delle popolazioni native del continente americano. Eriberto Gualinga è un membro della comunità nativa dei Sarayaku, che vive in Ecuador, e ha attraversato la foresta e poi l’Oceano Atlantico per venire in Europa, a Milano, dove, in una grande sala riunioni, numerosi attivisti di Amnesty International, simpatizzanti dell’Associazione e curiosi si sono riuniti per ascoltare il suo racconto.

Eriberto è venuto a dar voce a tutte quelle persone che, in Amazzonia, continuano a combattere per la difesa del proprio ambiente e della propria cultura, contro grandi progetti estrattivi e infrastrutturali condotti in nome di un rassicurante quanto ambiguo concetto di “sviluppo”, proprio come i loro antenati e quelli di tanti popoli nativi ormai definitivamente scomparsi si batterono contro guerrieri venuti da lontano per imporre la propria religione, la propria visione del mondo e il proprio modello di società. Cambiano le motivazioni ufficiali, ma le vere ragioni per le quali i territori in cui risiedono da millenni le popolazioni native continuano a rivestire un elevato interesse per il mondo circostante sono sempre le stesse: le immense ricchezze del sottosuolo, ieri l’oro, oggi il petrolio (il cosiddetto “oro nero”) e altri materiali preziosi per l’industria.

Numerosi rapporti di Amnesty International denunciano il fatto che i governi di quasi tutti i Paesi del continente americano continuano a discriminare le popolazioni tribali, negando il loro diritto a essere consultate nei processi decisionali relativi a interventi che riguardano il loro territorio e che potrebbero comportare conseguenze devastanti per la sopravvivenza della loro cultura. Autostrade, oleodotti, dighe e miniere a cielo aperto sono alcuni esempi di “progetti di sviluppo” che i governi continuano a realizzare all’interno o in prossimità di territori in cui risiedono popolazioni native, senza tenere in adeguata considerazione le ricadute che tali interventi possono avere sulla vita di migliaia di persone.

In Canada la comunità HTG ha in corso dei negoziati ultraventennali con il governo federale e della Columbia Britannica per il riconoscimento dei propri territori tradizionali, che le imprese estrattive continuano a sfruttare, acquistare e vendere. In Messico la comunità nativa dei Wixárika chiede da anni al governo di revocare le concessioni estrattive nella regione di Wirikuta, da loro considerata sacra e meta di pellegrinaggio. In Guatemala le attività di numerose aziende estrattive hanno sconvolto l’esistenza di decine di comunità Maya. In Colombia la comunità Wiwa è stata costretta con la violenza ad abbandonare le proprie terre ancestrali, inondate dalle acque di una diga nel 2010.

Anche in Brasile è la realizzazione in corso di una diga (la diga di Belo Monte) a minacciare l’incolumità di diverse popolazioni native dell’area amazzonica. In Paraguay da oltre vent’anni la comunità degli Yakye Axa è stata privata delle proprie terre ancestrali ed è ora costretta a vivere in difficili condizioni lungo un’autostrada. In Argentina i Toba Qom si stanno battendo da anni contro il progetto governativo di realizzare un campus universitario su un’area del proprio territorio, progetto che, secondo la comunità, avrebbe un impatto rilevante sul loro stile di vita.

Si potrebbe continuare ancora molto a lungo con gli esempi di simili violazioni dei diritti umani. Nella maggioranza dei casi, ai nativi non viene nemmeno riconosciuto giuridicamente il diritto a vivere sulla terra dalla quale dipende la loro sopravvivenza e a utilizzare le risorse che per secoli hanno gestito in maniera sostenibile. Tali risorse sono spesso sfruttate da soggetti stranieri con scarsi vantaggi per la gente locale e con poca attenzione alla tutela dell’ambiente.

Chiediamoci cosa succederebbe nel mondo cristiano se delle compagnie estrattive avviassero le proprie attività in prossimità del Santo Sepolcro, oppure nel mondo islamico se ciò avvenisse a La Mecca. Oppure come reagiremmo noi se, d’improvviso, il nostro giardino o i parchi della nostra città fossero occupati da soldati armati fino ai denti per proteggere le attività di compagnie intente a condurre prospezioni geologiche. È quello che è successo ai Sarayku, il popolo di Eriberto, una comunità nativa di 1.200 persone che vive nell’omonimo villaggio, nella foresta amazzonica dell’Ecuador.

Nel 2002 i Sarayaku hanno visto calare dal cielo elicotteri carichi di soldati che, con i mitra spianati, hanno cominciato a restringere la loro libertà di movimento sul proprio territorio. A loro insaputa, infatti, la compagnia petrolifera argentina CGC (Compañía General de Combustibles) aveva ricevuto dal governo dell’Ecuador l’autorizzazione ad accedere al loro territorio per condurre trivellazioni alla ricerca di petrolio. L’attività della CGC, condotta anche attraverso l’utilizzo di esplosivi e la realizzazione di sette eliporti, ha condotto alla devastazione di ampie porzioni di territorio: sono stati distrutti fiumi sotterranei che rappresentavano indispensabili fonti d’acqua per tutte le necessità quotidiane della comunità; sono stati abbattuti alberi di grande valore ambientale e culturale e fonte di sostentamento per i Sarayaku.

Alcuni dei siti compromessi rivestivano una grande importanza per la cultura e la spiritualità della comunità: è per esempio il caso del bosco sacro chiamato “Pingullu”, l’unica area dove cresceva una varietà di pianta (denominata “Lispungu”) utilizzata dai Sarayaku per la preparazione di rimedi medicali. “Non ho più nulla con cui curare la mia famiglia e la gente del villaggio”, ha affermato il vecchio sciamano Cesar Vargas, dopo che i dipendenti della compagnia petrolifera erano entrati nel bosco sacro, abbattendo tutti gli esemplari di Lispungu. Le attività della CGC hanno causato la sospensione, in alcuni periodi, di incontri culturali e cerimonie ancestrali, come la Uyantsa, la festa più importante che si svolge ogni anno a febbraio, nonché le cerimonie di iniziazione dalla giovinezza all’età adulta, da sempre celebrate in siti di rilevanza spirituale interessati dalle attività di prospezione.

Ma i diritti delle popolazioni locali non sono minacciati soltanto nel continente americano. In Africa il fenomeno del land grabbing sta sottraendo a milioni di persone i terreni dai quali dipendono da sempre per il proprio sostentamento. Nella regione del Delta del Niger, in Nigeria, dove le principali compagnie petrolifere europee estraggono petrolio da circa sessant’anni, l’inadeguata manutenzione degli oleodotti e la violazione costante della legislazione nigeriana, che vieta di bruciare a cielo aperto il gas associato all’estrazione, comportano la sistematica devastazione di un ambiente naturale un tempo tra i più ricchi di biodiversità del mondo, spingendo sempre più le comunità locali nella miseria e nella disperazione e fomentando la violenza.

Anche in Asia decine di milioni di persone sono minacciate da grandi progetti economici. È per esempio il caso della cosiddetta “fascia tribale” dell’India, un’area di foreste che si estende per migliaia di chilometri nell’India centro-orientale (dal Bengala Occidentale, attraverso il Jharkhand e l’Orissa fino al Chhattisgarh), dove i governi degli Stati indiani, nel corso dell’ultimo decennio, hanno già assegnato a grandi compagnie estrattive i territori su cui abitano da migliaia di anni le popolazioni tribali (adivasi).

Nel 2006 a Lanjigarh, un villaggio sito in un’area rurale dello Stato indiano dell’Orissa, è stata avviata l’attività di una raffineria di bauxite (per la produzione di alluminio) operata da una multinazionale estrattiva britannica. L’attività di tale impianto, che è stato realizzato su terreni un tempo utilizzati per attività agricole e forzosamente sottratti alle locali comunità adivasi dei Dongria Kondh, ha causato gravi fenomeni di inquinamento dell’ambiente circostante: periodiche fuoriuscite di sostanze tossiche hanno contaminato il fiume Vamsadhara, principale fonte d’acqua per tutte le necessità quotidiane delle popolazioni locali. L’inquinamento riguarda anche l’aria, con la diffusione della polvere di bauxite dai depositi della raffineria e dai camion carichi di materiale che attraversano i villaggi circostanti.

Nel 2008 il Ministero dello Sviluppo e delle Foreste indiano (MoEF) ha rilasciato l’autorizzazione per la sestuplicazione delle dimensioni della raffineria, nonché per la realizzazione di una miniera di bauxite estesa su un’area di 670 ettari posta sulla sommità delle prospicienti colline di Niyamgiri. La cima boscosa delle colline di Niyamgiri è da sempre territorio sacro per i Dongria Kondh, perché lassù vive il loro dio, Niyam Raja Penu: il taglio degli alberi e l’avvio di attività estrattive su quel territorio sarebbe vissuto dalla comunità come una profanazione.

In base al diritto internazionale, le imprese sono tenute a rispettare i diritti umani, mentre gli Stati devono garantire la protezione dagli abusi che possono essere compiuti da parte di attori non statali. Il venir meno dei governi e di grandi attori economici privati come le aziende multinazionali alle proprie responsabilità conduce alla violazione di un ampio ventaglio di diritti umani: il diritto alla vita, all’integrità fisica e mentale, a un ambiente sano e quindi alla salute, il diritto a una vita dignitosa (che comprende il diritto al cibo e a un alloggio adeguato), il diritto a guadagnarsi da vivere attraverso il lavoro, il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona, il diritto alla difesa della cultura delle minoranze etniche, linguistiche e religiose.

Proprio per prevenire tali violazioni, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2007, afferma il diritto delle popolazioni native alle terre, ai territori e alle risorse che occupano o posseggono per tradizione, nonché il diritto alla conservazione e protezione dell’ambiente, stabilendo che è compito dello Stato garantire il riconoscimento e la tutela legale di tali diritti. Nella Dichiarazione viene sancito anche il diritto dei popoli nativi a non essere spostati con la forza dalle proprie terre o territori e alla restituzione ovvero, quando questa non sia più possibile, a un equo risarcimento per le terre e le risorse che siano state loro confiscate, prese, occupate oppure compromesse. Si afferma inoltre che gli Stati devono consultarsi e cooperare in buona fede con i popoli nativi tramite le loro istituzioni rappresentative, in modo da ottenere il loro consenso libero, preventivo e informato riguardo all’approvazione di qualsiasi progetto che influisca sulle loro terre, sui loro territori o sulle loro risorse, in modo particolare per quanto concerne la valorizzazione, l’uso o lo sfruttamento delle risorse minerarie, idriche o di altro tipo.

Altre disposizioni riconoscono il diritto dei popoli nativi a partecipare attivamente all’elaborazione e alla definizione dei programmi relativi alla salute, all’alloggio e ad altre questioni economiche e sociali che li riguardino, al mantenimento delle proprie istituzioni politiche, giuridiche, economiche, sociali e culturali, a non essere sottoposti all’assimilazione forzata o alla distruzione della loro cultura e a manifestare, praticare, promuovere e insegnare le loro tradizioni spirituali e religiose.

Purtroppo la Dichiarazione, pur rappresentando un’importante manifestazione d’intenti da parte dei Paesi che partecipano alle Nazioni Unite, non ha valore giuridico vincolante. Tuttavia, le violazioni di cui i popoli nativi sono spesso vittime riguardano diritti umani già sanciti da una lunga serie di trattati internazionali (strumenti per loro natura vincolanti nei confronti degli Stati sottoscrittori), a valenza sia globale (come il Patto sui Diritti Civili e Politici e il Patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali del 1966) che regionale, come la Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli e la Convenzione Interamericana dei Diritti dell’Uomo.

È proprio a tali fonti di diritto internazionale che hanno fatto appello i Sarayaku, nel momento in cui hanno deciso di adire a un tribunale internazionale per i diritti umani. Dopo mesi di resistenza pacifica, infatti, la comunità amazzonica è riuscita a costringere la CGC a sospendere le proprie attività e ad abbandonare il loro territorio. La compagnia petrolifera ha tuttavia lasciato dietro di sé ampie porzioni di foresta pluviale devastate e tonnellate di esplosivo sepolto nel terreno. La consapevolezza del fatto che né loro né gli altri popoli nativi dell’Ecuador sarebbero mai stati al sicuro se a quell’esperienza traumatica non fosse seguita una ufficiale condanna nei confronti del loro governo ha spinto i Sarayaku (che si definiscono “discendenti del giaguaro”) ad adire alle istituzioni giudiziarie. Dopo anni di inutili tentativi al riguardo presso i tribunali nazionali, la comunità ha deciso di rivolgersi alla Corte Interamericana per i Diritti Umani. Il caso di questo piccolo ma determinato popolo è stato seguito anche da Amnesty International, che, insieme alla comunità stessa, ha prodotto un documentario che sta facendo il giro del mondo, ottenendo numerosi riconoscimenti.

Nel luglio del 2012 la Corte ha stabilito che l’Ecuador ha violato quattro diritti dei Sarayaku: il diritto a una effettiva e adeguata consultazione; il diritto alla proprietà comune dei terreni; il diritto all’identità culturale; il diritto alla protezione della propria vita e della propria integrità fisica da parte dello Stato. La Corte ha inoltre condannato lo Stato ecuadoriano a provvedere alla rimozione delle cariche esplosive e alla corresponsione di risarcimenti per i danni subiti.

Questa decisione, che giunge al termine di un decennio di battaglie legali, è un messaggio forte per i governi e le comunità native di tutto il continente americano, in quanto ribadisce che gli Stati sono tenuti a condurre adeguati processi di consultazione delle popolazioni native prima di avviare progetti che possano impattare negativamente sull’esistenza delle medesime. Stabilisce inoltre nel dettaglio in che modo tale consultazione debba avvenire: in buona fede e attraverso procedure culturalmente appropriate, volte alla ricerca del consenso, che devono consentire un adeguato accesso alle informazioni da parte delle popolazioni interessate, fatto che richiede, per esempio, la messa a disposizione di informazioni nella lingua da loro parlata. La consultazione non può pertanto consistere – come spesso avviene – nel semplice fatto di portare a conoscenza delle popolazioni interessate da un progetto decisioni che sono già state assunte dal governo. 

Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, anche i Dongria Kondh hanno deciso di intraprendere le vie legali per cercare di ottenere il rispetto dei propri diritti. Nel 2010, per effetto delle pressioni internazionali sul caso (al quale si sono interessate diverse associazioni per la difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International), il Ministero dello Sviluppo e delle Foreste ha ritirato l’autorizzazione precedentemente rilasciata per l’ampliamento della raffineria e per la realizzazione della miniera di bauxite. Dopo una serrata battaglia legale tra la comunità e l’azienda, lo scorso 18 aprile 2013, la Corte Suprema Indiana ha decretato che gli adivasi hanno il diritto di assumere la decisione finale relativamente alla realizzazione della miniera di bauxite sulle colline di Niyamgiri.

I Sarayaku e i Dongria Kondh stanno ora aspettando che le storiche sentenze con le quali vengono riconosciuti i loro diritti trovino adeguata applicazione dai parte dei loro rispettivi governi. Proprio come nel film Avatar, di James Cameron, nel quale è possibile assistere alla trasfigurazione fantascientifica delle vicende di tanti popoli del nostro pianeta che ogni giorno lottano contro grandi poteri politici ed economici per la propria sopravvivenza, le loro storie sembrano destinate a concludersi con un lieto fine. Ma troppe storie simili si stanno ripetendo, oggi come secoli fa, spesso nel più assoluto silenzio mediatico, e si concludono in maniera ben diversa.

Per questo Eriberto Gualinga ha affrontato un viaggio tanto lungo, per testimoniare che il suo popolo continuerà a battersi affinché simili violazioni non si ripetano nel suo Paese, né nei confronti della sua comunità, né nei confronti di altre popolazioni della foresta. “Ma è una battaglia che riguarda anche voi” dice. Improvvisamente nella sala si percepisce un silenzio pensoso. Mi chiedo quanti di noi, prima di allora, avessero riflettuto su questa semplice verità. L’impegno che migliaia di attivisti, in tutto il mondo, stanno profondendo affinché le ingiustizie e gli abusi subiti da popolazioni che abitano remoti angoli del pianeta acquisiscano la dovuta visibilità a livello internazionale non è soltanto dettato da un senso di giustizia e di solidarietà. È un impegno senza il quale il nostro stesso futuro sarebbe ancora più in pericolo di quanto già non sia, perché i popoli nativi sono i custodi degli ultimi angoli incontaminati del nostro pianeta e dal successo della loro lotta per la sopravvivenza dipende anche la possibilità e la qualità della vita di tutte le società umane del mondo.

Dall’Amazzonia all’Africa subsahariana, dalla taiga canadese alla fascia tribale indiana e all’arcipelago indonesiano, milioni di persone vivono da secoli in equilibrio con la natura, utilizzandone le risorse in maniera sostenibile. Se questi popoli saranno in grado di fermare la corsa impazzita allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, garantendo che la valorizzazione di tali risorse avvenga in modo rispettoso dell’ambiente e dei diritti di coloro la cui vita dipende strettamente dal medesimo, forse ci sarà ancora qualche speranza per il mondo in cui vivranno le future generazioni.

 

(La responsabilità per le opinioni e le informazioni presenti in questo articolo è da attribuirsi esclusivamente all'autore)





Riccardo Facchini

Riccardo Facchini è nato a Voghera (PV) nel 1980. Laureato in Economia delle Amministrazioni Pubbliche e delle Istituzioni Internazionali, lavora nel settore bancario. Dal 2009 è attivista di Amnesty International, nell’ambito del Coordinamento per i Diritti Economici, Sociali e Culturali. È inoltre responsabile del gruppo di attivisti di Pavia.





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