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Sagarana IL MALE CHE NON PERDONA


Brano tratto dal racconto L’inizio e la fine


Irčne Némirovsky


IL MALE CHE NON PERDONA



(…) Il dottore Jeanniot abitava distante dal lungofiume, in una casa nuova nel centro della città. Era un uomo timido, dolce, il viso pallido, esitante e sognatore, che tentava di rendere virile e d'inasprire con una barba nera che gli copriva le guance; era ancora giovane. Aveva una bocca piccola e stretta, tirata verso l'alto, simile a quella di alcuni pesci morti che aspirano l'aria che li strazia. Ricevette subito il procuratore Deprez.

– Voi, mio caro amico? Non starete male?
– Ho dei dolori molto forti.

– Diavolo! Diavolo! ciò sarebbe increscioso... Alla vigilia del processo Barret...

– Sì. Alla vigilia del processo Barret...
– Volete che vi prescriva un calmante?

Andò diritto alla sua scrivania e intinse la penna nell'inchiostro. Il procuratore aggrottò le sopracciglia:

– Non mi visitate?
– Visitarvi? Ma, mio caro amico... non cambia nulla...
– No?

– Ma se volete che vi ausculti! Pensavo soltanto... non volevo obbligarvi a svestirvi...

– Non trovate strana la persistenza di questi dolori?
– Ma no...

Il dottore sorrideva sempre con un pizzico di vergo­gna e i suoi occhi avevano assunto la fissità trasparente di tutti quelli che mentono per necessità professionale, non per piacere.

Senza alzare gli occhi il procuratore disse:

– Sentite. Sono venuto a trovarvi perché d'im­provviso ho capito...

Esitò:

–  ... presagito la verità a proposito della mia salu­te.

Il dottore smise di sorridere, chiuse la piccola bocca ermeticamente:

– Svestitevi.

Togliendo piano i vestiti, che per abitudine piegava e poggiava sullo schienale di una sedia, il procuratore mormorò:

– Sono dimagrito ancor di più.

– Credete? – chiese il medico, sollevando molto in alto le sopracciglia, come un attore che mima lo stupore.

Fece scorrere le dita sul punto malato e, con indul­genza:
– Ma io non vedo niente di particolare, mio caro amico...

– No. Ascoltatemi. Non sono venuto a farmi rassi­curare. Desidero sapere se il tumore che mi hanno tolto era di natura benigna, come mi hanno assicurato.

– Vi giuro che v'ingannate. Nulla permette di sospettare che il vostro stato...

Il procuratore si rivestì mentre Jeanniot si distolse.

– Ascoltate, Jeanniot, voi parlate come un amico, un eccellente amico, come un medico il cui dovere è quello di dissimulare fino all'ultimo minuto ai suoi pazienti la gravità del male che se li porterà via, ma io voglio sapere la verità. Ho bisogno di sapere la verità. Questo non soltanto per me ma forse... forse... per altri... Voi non potete capire.

Jeanniot tamburellò sul tavolo con l'aria assorta e oscura:
– In effetti non capisco.

– Per delle ragioni che riguardano soltanto me, delle ragioni professionali, mi è indispensabile sapere con esattezza la verità sul mio stato di salute. Vi credete in diritto di mentire, di nascondermi la verità?

Jeanniot sospirò:

– Domandatemi pure, — dichiarò infine. Il procu­ratore tacque un istante come per riprendere coraggio.

– Desidero sapere se l'operazione che mi hanno fatto subire, era l'asportazione di un tumore maligno?

– Di un cancro?

– Sì. E anche se l'operazione è stata tentata troppo tardi e non è riuscita.

– È stata intrapresa a tempo. Ma il sarcoma, per sfortuna, era così mal posizionato!

– In breve?

– In breve, il tumore non è mai stato asportato. I chirurghi hanno stimato che era impossibile. Hanno dovuto ricucire l'incisione.

Il procuratore mormorò:
– Bene.
– Ma il vostro stato...

– No, Jeanniot, non raccontatemi che avete cura­to, quindici anni fa, un uomo più malato di me e che egli vive ancora!

Il medico si sforzò di sorridere:

– Non dirò nulla di simile. Soltanto, voi dovete credermi quando affermo che non si può predire l'evo­luzione del male.

– Sono dunque a rischio di morire a ogni istante?
– No, no, assolutamente... Finché questo non si aggrava...

– Non rilevate alcun aggravamento da quando mi avete visto l'ultima volta?

– No.
– La verità, Jeanniot.
– Vi giuro di no.
– Non sono all'ultimo stadio del male?
– No. Vi do la mia parola.

– Per quanto tempo potrò esercitare l'attività di uno che vive?... concedermi i sogni, gli errori di uno che vive?...

– Un anno, due anni...
– O due mesi?...
– No. Questo no... Un anno, due anni, forse più...

Il procuratore gli tese in silenzio la mano e se ne andò. Fuori, ebbe un momento di debolezza ed entrò in un piccolo bar deserto. Erano le otto, e la città intera era a cena. Aveva freddo. Ordinò un grog, lo portò alle labbra, respirò l'odore del rum, poi dimenticò il bic­chiere e lo respinse senza averlo bevuto. Pensò: «Ecco, non ho più bisogno di nulla adesso... Che liberazione... Non ho più bisogno di pensare alla mia carriera, alla mia vecchiaia, alla mia riuscita... È tempo di rinunciare a me stesso... Solo che, quando si smette di pensare a sé, si perde di colpo l'unica guida che si ha avuto su questa terra... Il mio avvenire?... Non ho più avvenire... La mia vita si limita ad alcuni mesi che scorrono veloci... Ho quarant'otto anni soltanto, pensò con sorpresa; eppure non posso lamentarmi. Ho vissuto, ho amato... Non ho mai cercato la ricchezza. Mi sono accontentato di una mezza povertà. A vent'anni mi sono augurato di avere per tutta la vita "una camera imbiancata a calce e un letto in ferro". Era una cosa banale, Ma ciò che è più singolare è di accontentarsene ancora a quasi cin­quant'anni. È vero mi ero augurato ancora il dominio sugli uomini... La vita ci offre spesso la caricatura dei nostri sogni», pensava ancora. «Muoio nella pelle di un piccolo magistrato di provincia, non molto cono­sciuto... non molto felice... Tuttavia, per molti uomini, sono stato l'immagine stessa del destino».

Pensò alla sua carriera, sforzandosi di rianimare la freschezza delle prime impressioni, quando l'abitudine non aveva ancora smussato in lui certi sentimenti di timore e di sorpresa. Adesso l'accusato, per lui, non era che un caso patetico o curioso, la posta di una lotta tra l'accusa e la difesa. Così, un medico non vede che la febbre tifoide o la paralisi generale del malato che tratta e un chirurgo non considera che la gloria di quella o quell'altra difficile operazione, tentata in extremis, e cosa gli importa che l'agonizzante soffra alcuni mesi in più per morire... Quell'affare Barret... Quello sfortunato... Agli occhi del procuratore non era altra cosa che il pretesto di una requisitoria crudele, di frasi martellanti, a doppio senso, che al di là dell'accusato sarebbero andate a colpire Adrien Barret, la vera vittima... Bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la propria vita, pensò; bisogna anche affrettarsi a farlo... «Domani sarò forse troppo stanco, troppo malato per pensare ad altra cosa che alla mia debolezza e al mio male! ...».

Si alzò, gettò una moneta sul tavolo, attraversò la piazza, il viale in cui una giostra solitaria ruotava sotto gli alberi in cerchio. Più oltre, la via Victor Hugo era animata: c'erano molti giornalisti, dei parigini venuti per il processo e che prolungavano la serata sulla terrazza dei caffè. A ogni passo sollevava il suo cappello. Veniva seguito dagli sguardi. Lui sentì:

— Il procuratore... è il procuratore...

Comperò un giornale, dove sulla prima pagina si vedeva il ritratto di Barret padre. Si sentì invaso da un pungente sconforto. Quell'uomo aveva vissuto come aveva voluto, come aveva amato vivere...

Rientrò. Rifiutò la cena. Si rinchiuse nella sua came­ra. Si sentiva molto male; il punto che Jeanniot aveva palpato s'era infiammato, senza dubbio. Ogni movi­mento gli strappava un gemito. Nei profondi armadi a muro i topolini correvano con un tumulto di cavalcata che faceva vibrare i vecchi muri. Di nuovo pensò: «Ho tanto desiderato. Ho ottenuto così poco...».

Era nato povero; aveva conosciuto la miseria più orribile, quella della piccola borghesia di provincia biso­gnosa, che ha tuttavia "un rango da sostenere". Aveva una pessima salute. Non aveva mai avuto qualche feli­cità. A quanti ambiziosi la felicità è mancata, all'inizio, quando il destino indugia... E nondimeno sapeva bene che era stato un uomo notevole, che aveva avuto un'ani­ma forte, una mente penetrante, una volontà ardente. Spronato dalla povertà e dalla passione aveva avuto nobili ambizioni, grandi sogni, ma mai aveva incontrato sul suo cammino l'evento che scatena il successo.

Fin dall'infanzia era stato un uomo che conosceva gli uomini, riflessivo e maturo, aveva sacrificato la propria vita, la salute, la possibilità dell'amore a un sogno di godimento e di gloria che era rimasto un sogno. Aveva accumulato le conoscenze, intensificato invano la propria volontà, il desiderio. Nulla gli si era presentato. Gli anni erano passati... Non riusciva a ricordare senza disgusto certi anni della sua gioventù. L'ambizioso che non arriva a divorare il mondo divo­ra se stesso... L'avaro prova piacere ad ammassare il danaro fino all'ultimo giorno e ognuno può ammassare il danaro. Il giocatore guadagna nel soddisfare la pro­pria passione, ma l'ambizioso, con che cosa può illu­dere la propria brama? E ciò nonostante... I sogni della gioventù sono sempre, anche solo a metà, esauditi...

Sono stato l'immagine del destino, rimuginava, in ciò che c'è di più rigoroso, di più implacabile, quasi di così temibile come l'immagine di Dio, per centinaia di uomini... per dei poco di buono, dei malfattori, dei pietosi rifiuti dell'umanità, ma ciò che si chiama ambizio­ne è sempre un brama di potenza?... La mia ambizione può riassumersi nella formula: «Dimostrare a me stes­so, costantemente, la mia eccellenza». L'approvazione altrui è necessaria e nella forma più tangibile: onori, titoli... Li si disprezza ma, malgrado tutto, ciò dona all'uomo un'impressione di pace... Ecco perché ho voluto andare avanti nella carriera, non ristagnare, conoscere tutto il successo, tutta la riuscita che potevo sperare... Per cancellare la sproporzione tra ciò che si è voluto e ciò che si è ottenuto. Non si raccoglieranno mai abbastanza onori, successi tali da poterli buttare nel ricordo di cosa siamo stati. E tanto peggio per quelli che ne soffriranno. Io muoio, sì io muoio, ma devo di più all'uomo che sono stato che all'uomo che sono diventato... Forse che, semplicemente, si rimane fedeli a se stessi?... L'avaro ammasserà fino al letto di morte per degli eredi che odia! E io non posso astenermi da ciò che ho intrapreso, non posso credere che «mi si chiederà l'anima, questa notte stessa... O piuttosto sì, ahimè, lo so, ne sono sicuro, ma!..». (…)







Brano tratto dal racconto L’inizio e la fine, Via del Vento edizioni, Pistoia, 2013. Traduzione di Antonio Castronuovo.




Irčne Némirovsky

Irčne Némirovsky (Kiev, 11 febbraio 1903 – Auschwitz, 17 agosto 1942) č stata una scrittrice francese. Nata in Ucraina, di religione ebraica convertitasi poi al cattolicesimo nel 1939, ha vissuto e lavorato in Francia. Arrestata dai nazisti, in quanto ebrea, Irčne Némirovsky fu deportata nel luglio del 1942 ad Auschwitz, dove morě un mese piů tardi di tifo. Anche il marito, Michel Epstein, che aveva cercato di farla liberare, verrŕ gasato nel novembre dello stesso anno al suo arrivo ad Auschwitz.





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