LE NOZZE Brano tratto dal romanzo Una lettera così lunga, inedito in italiano Mariama Bâ Il mio dramma avvenne tre anni dopo il tuo. Ma contrariamente al tuo caso, il punto di partenza non fu la famiglia di mio marito. Il dramma si radicò in Modou stesso, mio marito. Mia figlia Daba, che stava preparando la maturità, portava spesso a casa delle compagne di classe. Più spesso di tutte veniva la stessa ragazza, un po’ timida, fragile, visibilmente a disagio nei confronti del nostro tenore di vita. Eppure come era bella all’uscita dell’infanzia, con gli abiti scoloriti ma puliti! La sua bellezza risplendeva, pura. Le curve armoniose del suo corpo non potevano passare inosservate. Vedevo, a volte, Modou interessarsi al tandem. Non mi preoccupavo minimamente quando lo sentivo offrirsi di accompagnare Binetou in macchina, “perché si è fatto tardi”, diceva. Binetou, nel frattempo, si stava metamorfizzando. Portava ora dei vestiti firmati, molto cari. Spiegò a mia figlia ridendo: “I soldi per pagarli li prendo dalla tasca di un vecchio.” Poi, un giorno, tornando da scuola, Daba mi confidò che Binetou aveva un grave problema: “Il vecchio dei vestiti firmati vuole sposare Binetou. Pensa un po’. I suoi genitori vogliono farla ritirare da scuola qualche mese prima della maturità, per farla sposare al vecchio.” “Consigliale di rifiutare.” Dissi. “E se l’uomo in questione le propone una villa, un viaggio alla Mecca per i suoi genitori, un’automobile, una rendita mensile, gioielli?” “Tutto questo non vale quanto il capitale giovinezza.” “La penso anch’io come te, mamma. Dirò a Binetou di non cedere, ma sua madre è una donna che vuole talmente uscire dalla sua condizione mediocre e che rimpiange così tanto la sua bellezza rinsecchita al fumo dei fuochi di legna, che guarda con indivia tutto quello che indosso io; si lamenta tutto il giorno.” “L’essenziale è Binetou. Che non ceda.” E poi, qualche giorno dopo, Daba riprese il dialogo con una sorprendente conclusione. “Mamma, Binetou, disperata, sposa il vecchio. Sua madre ha talmente pianto. Ha supplicato sua figlia di darle una fine felice, in una vera casa, che l’uomo ha promesso loro. Allora ha ceduto.” “A quando il matrimonio?” “Questa domenica, ma non ci sarà ricevimento. Binetou non sopporterebbe le prese in giro delle amiche.” E, al tramonto della stessa domenica in cui Binetou si sposava, vidi arrivare a casa mia, in tenuta solenne e pomposa, Tamsir, il fratello di Modou, tra Mawdo Bâ e l’Imam del suo quartiere. Da dove uscivano con i loro abiti tradizionali inamidati? Venivano sicuramente a cercare Modou per una missione importante di cui era stato incaricato uno di loro. Dissi che Modou era fuori casa dal mattino. Entrarono ridendo, annusando con forza l’odore sensuale dell’incenso che fuoriusciva dappertutto. Mi sedetti davanti a loro, ridendo allo stesso modo. L’Imam attaccò: “Quando Allah onnipotente mette fianco a fianco due esseri, nessuno può opporsi.” “Sì, sì”, confermarono gli altri due. Pausa. Prese fiato e continuò: “In questo mondo, niente è nuovo.” “Sì, sì”, aggiunsero ancora Tamsir e Mawdo. “Un fatto che qualcuno trova triste lo è molto meno di altri…” Seguivo la mimica delle labbra sdegnose da cui uscivano questi assiomi che potevano precedere l’annuncio di un evento felice o infelice. Dove volevano dunque arrivare con quel preambolo che annunciava piuttosto un temporale? Quindi la loro venuta non era affatto casuale. Annunciavano una disgrazia vestita con gli abiti della domenica? O volevano ispirare fiducia con i loro abiti impeccabili? Pensavo all’assente. Chiesi con un grido di bestia inseguita: “Modou?”
E l’Imam, che comunque teneva un filo conduttore, non lo lasciò più. Scagliò rapidamente le parole, come se fossero braci nella sua bocca: “Sì, si tratta di Modou Fall, che è vivo, fortunatamente per te, per noi tutti, grazie a Dio. Non ha fatto che sposare una seconda moglie, oggi. Veniamo dalla moschea di Grand-Dakar dove ha avuto luogo il matrimonio. Tolte così le spine grazie al cammino dell’Imam, Tamsir osò: “Modou ti ringrazia. Dice che la fatalità decide degli esseri umani e delle cose: Dio gli ha destinato una seconda moglie e lui non può opporsi. Ti porge gli auguri per il vostro quarto di secolo di matrimonio in cui tu gli hai dato tutta la felicità che una donna deve a suo marito. La sua famiglia, in particolare io, suo fratello maggiore, ti ringraziamo. Ci hai venerati. Sai che noi siamo il sangue di Modou.” E poi le eterne parole che dovevano alleggerire l’avvenimento: “Per quanto sia cara la vita, per quanto grande sia la tua casa, questa spetta a te, e a nessun’altra. Tu sei la prima moglie, una madre per Modou, un’amica per Modou.” Il pomo d’Adamo di Tamsir gli danzava in gola. Scuoteva la gamba sinistra incrociata sulla destra, piegata. Le sue scarpe, delle babbucce bianche, avevano un leggero strato di polvere rossa, il colore della terra dove avevano camminato. Quella stessa polvere era attaccata alle scarpe di Mawdo e a quelle dell’Imam. Mawdo taceva. Riviveva il suo dramma. Pensava alla tua lettera, alla tua reazione, e io ero così simile a te. Si vergognava. Manteneva la testa abbassata, l’atteggiamento si chi si crede vinto prima di combattere. Annuii sotto le gocce di veleno che mi facevano sciogliere dal calore: “Quarto di secolo di matrimonio”, “donna incomparabile”. Tornai con la mente al passato per trovare la rottura del filo, a partire della quale tutto si svolse. Mi vennero in mente le parole di mia madre: “Troppo bello, troppo perfetto” e completavo infine il suo pensiero con la fine del detto: “Per essere onesto.” Pensavo ai primi due incisivi, largamente separati tra loro, segno della predominanza dell’amore nell’individuo. Pensavo alla sua assenza, tutta la giornata. Aveva semplicemente detto: “Non aspettatemi per pranzo.” Pensavo alle altre assenze, ultimamente frequenti, crudelmente chiarite oggi e abilmente dissimulate ieri sotto la copertura di riunioni sindacali. Seguiva anche una dieta drastica per nascondere l’uovo della pancia, diceva ridendo, quell’uovo che annunciava la vecchiaia. Quando usciva, ogni sera, si tormentava e provava numerosi vestiti prima di sceglierne uno. Il resto, nervosamente respinto, giaceva a terra. Dovevo ripiegare, mettere a posto, e scoprii che questo lavoro supplementare non lo facevo per nient’altro che per una ricerca d’eleganza destinata alla seduzione di un’altra. Mi impegnai a soffocare i miei malesseri interiori. Soprattutto a non dare ai miei visitatori la soddisfazione di manifestare il mio dramma interiore. Sorridere, prendere l’evento alla leggera, come lo hanno annunciato loro. Ringraziarli dell’umanità con cui hanno compiuto la loro missione. Rinviare dei ringraziamenti a Modou, “il buon padre e sposo, un marito divenuto amico”. Ringraziare la famiglia di mio marito, l’Imam, Mawdo. Sorridere. Servire loro da bere. Riaccompagnarli sotto le volute dell’incenso che annusavano ancora. Stringere loro la mano. Come erano contenti, tranne Mawdo, che dava all’evento il giusto valore. Finalmente sola, per dare libero corso alla sorpresa e misurare la disperazione. Ah, sì, ho dimenticato di chiedere il nome della mia rivale e dare così una forma umana al mio male. La mia domanda non restò a lungo senza risposta. Alcune donne del Grand-Dakar che conoscevo accorsero alla mia dimora, portando tutti i dettagli della cerimonia, alcune per reale amicizia verso di me, altre disgustate e gelose della promozione che la madre di Binetou traeva dal matrimonio. “Non capisco.” Nemmeno loro capivano l’entrata di Modou, una “celebrità”, in una famiglia di ndool, di una povertà estrema. Binetou, una bambina dell’età di mia figlia Daba, promossa al rango di mia co-sposa, con cui dovevo fronteggiare. La timida Binetou! Il vecchio che le comprava gli abiti firmati, che rimpiazzavano quelli scoloriti, era Modou. Aveva innocentemente confidato i suoi segreti alla figlia della sua rivale perché credeva che quel sogno, uscito repentinamente da un cervello ormai invecchiato, non si sarebbe mai realizzato. Aveva raccontato tutto: la villa, la rendita mensile, il futuro viaggio alla Mecca offerto ai suoi genitori. Credeva di essere più forte dell’uomo con cui si misurava. Non conosceva la volontà potente di Modou, la sua tenacia di fronte all’ostacolo, il suo orgoglio di vincere, la resistenza ispirata dai nuovi attacchi a ogni fallimento. Daba era rabbiosa, ferita nell’orgoglio. Ripeteva tutti i soprannomi che Binetou aveva dato a suo padre: “Anziano! Ciccione! Vecchio!” L’autore della sua vita era quotidianamente beffato e lo accettava. Una collera spaventosa albergava in lei. Sapeva che le parole della sua migliore amica erano sincere. Ma cosa può fare una bambina davanti a una madre infuriata, che urla la sua fame e sete di vivere? Binetou è un agnello immolato come molti altri sull’altare del “materiale”. La rabbia di Daba aumentava man mano che analizzava la situazione: “Rompi, mamma! Caccia quell’uomo! Non ci ha rispettate, né te, né me. Fa’ come zia Aïssatou, rompi. Dimmi che romperai. Non ti ci vedo a contenderti un uomo con una ragazza della mia età.” Mi dicevo quello che si dicono tutte le donne tradite: se Modou era latte, ero io che ne avevo avuto tutta la crema. Quello che restava, bah! Acqua con un vago odore di latte. Ma la decisione finale spettava a me. Modou fu assente tutta la notte (consumava già il matrimonio?), e la solitudine che porta consiglio mi permise di analizzare bene il problema. Partire? Ricominciare da zero, dopo aver vissuto venticinque anni con un uomo, dopo aver messo al mondo dodici bambini? Avevo abbastanza forza per sopportare da sola il peso di questa responsabilità morale e materiale al tempo stesso? Partire! Tirare una riga netta sul passato. Girare una pagina dove non c’era più nulla di rosa, certo, ma era tutto chiaro. Quello che ormai vi sarà scritto non conterrà più né amore, né fiducia, né grandezza, né speranza. Non ho mai conosciuto i risvolti negativi del matrimonio. Non conoscerli! Fuggirli! Quando si inizia a perdonare, c’è una valanga di errori che cadono e non resta che perdonare ancora, perdonare sempre. Partire, allontanarmi dal tradimento! Traduzione di Chiara Candeloro. Mariama Bâ, scrittrice senegalese, nasce nel 1929 in una famiglia tradizionale musulmana. Moglie del deputato Obèye Diop da cui poi divorzierà, e madre di nove figli, nel 1947 ottiene il diploma per l’insegnamento e nel 1980 pubblica il suo primo romanzo, Une si longue lettre. Muore l’anno seguente, e il suo secondo romanzo, Un chant écarlant, sarà pubblicato postumo. Une si longue lettre racconta, in forma epistolare, i destini di due amiche, entrambe abbandonate dai loro mariti per una donna più giovane. Ognuna reagisce in modo diverso ma le due amiche sono accomunate dalla volontà di rivendicare la propria libertà in una società fortemente maschilista dove la donna non ha modo di esprimersi ma può solo sottostare al volere maschile, prima del padre e poi del marito. Une si longue lettre ha vinto nel 1980 il Prix Noma ed è stato tradotto in 17 lingue. È considerato il terzo tra i cento migliori libri africani del ventesimo secolo. La traduzione italiana è apparsa nel 1980 dall’Editrice Sei con il titolo di Cuore africano.
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