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Sagarana MI FA MALE TUTTO


Brano tratto dal romanzo Che parlino le pietre


David Machado


MI FA MALE TUTTO



(…) Mio nonno è venuto a vivere con noi poco dopo che io avevo compiuto sei anni. È stata la prima volta che l’ho visto. Fino ad allora mio padre ne parlava raramente, come se fosse solo una specie di fantasma antico, e tutto quello che sapevo era che viveva in un paesino sperduto in montagna, che mio padre a volte chiamava Lagares e altre Fini Del Mondo. Il piano di mio padre non è mai stato di portare il nonno a passare il resto della sua vecchiaia nella nostra casa. Negli ultimi dieci anni si erano visti un’unica volta, per il funerale di mio zio Olegário, e il loro rapporto si riassumeva a due o tre telefonate l’anno. Solo che una notte qualcuno telefonò da Lagares e disse che il pavimento della casa di mio nonno era caduto, tanto era marcio, e lui se ne era rimasto a vivere tra le macerie di quel che un tempo era stato una merceria. Mia madre disse: Devi andare a prenderlo. Mi sa che se non avesse detto niente, mio padre non si sarebbe mai messo in macchina una mattina presto per andarlo a prendere, forse non avrei mai saputo nessuna delle sue storie, forse ora non starei qui a scrivere.

Io lo vidi entrare trascinando una gamba, con lo sguardo affilato e i denti serrati, con una valigia di cartone sotto il braccio. Era un toro selvaggio stretto dentro a un corpo troppo castigato. Respirava così lentamente che sembrava avere i polmoni dentro a un buco molto profondo nel petto. Ostentava sul lato sinistro del collo l’arabesco di una cicatrice lunga mezzo palmo, aveva una mappa di minuscole cicatrici incise sulle gambe, gli mancavano tre dita della mano destra ed era completamente sordo. Dall’altro lato, portava intatte tutte le sue memorie ed era chiaro, per il suo modo di guardare tutto, che era disposto a lottare fino all’ultimo respiro pur di mantenerle.

Era molto distante da me. Lui stesso se ne accorse. Non appena mi vide, esclamò: Cazzo. Sembra così felice.

Mio padre chiese: Papà, per favore non dire parolacce davanti a Valdemar. Pronunciò bene ogni sillaba perché il nonno potesse leggergli le parole sulle labbra.

Mio nonno sospirò.

Fai uno sforzo. Se vuoi vivere qui in casa, fai uno sforzo.

Io non voglio vivere qui in casa.

Mio padre si mise le mani sulla testa, ma non disse nient’altro.

Io indicai la mano di mio nonno, quella che non aveva tre dita.

Chiesi: Ti fa male?

Lui scosse la testa in un modo strano. Disse: Cazzo, c’è qualcosa che non mi fa male?

Papà!
È vero, cazzo, mi fa male tutto.

Ma non dire parolacce. Valdemar è troppo piccolo per sentire parolacce.

Mio nonno scosse la testa nello stesso strano modo. Poi tossì per circa un minuto e, quando finì, annunciò che si voleva riposare.

Mio padre gli chiese di seguirlo nello studio. C’era tristezza sulla faccia di mio padre. Perché lo studio era il posto in cui lui viveva davvero. Lo spazio non era grande, solo che lui lo aveva fatto diventare grande. C’erano librerie da terra al soffitto ed erano tutte occupate. C’erano libri, centinaia, ordina-

ti secondo criteri multipli che mio padre non condivideva con noi. C’erano cartelline che contenevano vaste collezioni, collezioni di monete, di lettere, di francobolli, tutto etichettato e registrato in lunghi indici all’inizio di ogni cartellina. C’era un armadio con le porte a vetri, chiuso a chiave, dove conservava oggetti, anche se lui non li chiamava oggetti ma reliquie, statuette, anelli, pietre, piatti, un calice di bronzo, una penna

d’oca con la punta sporca di inchiostro, un pugnale, fazzoletti ricamati. Sopra alla scrivania c’erano delle carte, scritte con la calligrafia minuta di mio padre e quelle carte lui le chiamava

La Ricerca. E fra la parete e la scrivania c’era un divano letto, ancora da montare.

Mio padre disse: Questa sarà la tua stanza. Si guardò intorno, curvo, come se il soffitto gli stesse toccando la testa. E poi aggiunse, con lo stesso tono che usava per parlare con me: Ti chiedo di non toccare nulla. Gli indicò due cassetti vuoti in cui poteva mettere le sue cose.

Dal canto suo mio nonno indicò dentro l’armadio e chiese:

Perché tieni quel coltello là dentro?

Mio padre spiegò: Non è un coltello, è una daga. È una copia, chiaro. Apparteneva ai Templari.

Erano amici tuoi?

No, papà. Erano un ordine militare. Lottarono nelle Crociate.

Novecento anni fa.
L’hai già usata qualche volta?
Io non la voglio usare. La voglio solo avere.
E perché cazzo?
Perché ha un grande valore storico, papà.

Se non l’hai mai usata, e se pensi di non usarla mai, allora non ha nessun valore.

Mio padre scosse la testa, voleva dire qualcos’altro, ma preferì il silenzio. Mio padre ha sempre preferito il silenzio. In un secondo aprì il divano e lo avvicinò alla libreria di sinistra. Le molle cigolarono stonate. Nessuno di noi parlò. Subito dopo mia madre portò lenzuola e coperte e lei e mio padre fecero il letto. Prima di uscire, mio padre chiese di nuovo: Per favore non toccare nulla.

Mio nonno aprì la valigia di cartone sopra il divano. Mi disse di aprire i cassetti e di mettere via le cose che mi passava.

Tre camicie, un maglione di lana rosso, dei jeans, qualche mutanda, quattro paia di calzini. (Quelli erano tutti i vestiti che possedeva, eccetto il vestito blu che aveva addosso e la cravatta con le cornucopie verdi e gialle sulla quale di tanto in tanto passava la mano come se fosse un essere vivente). Una busta con delle fotografie. (Ne prese una decina e mi chiese di metterle, allineate, su un ripiano della libreria. Erano ingiallite dal tempo, la carta consumata, gli angoli disfatti. In tutte le foto c’era mio nonno, a molte età differenti, in tutte teneva un fucile con la canna puntata verso terra, in tutte c’erano animali morti ai suoi piedi. La busta con le fotografie rimanenti restò fra due libri. Un dente di cinque centimetri (come un dente di vampiro) appeso a un laccio da scarpe che rimase sopra il maglione di lana. Un sacchetto di plastica con le medicine per tutti i dolori di mio nonno. Per tutti no. Per certi dolori non ci sono medicine, mi spiegò lui, mentre disponeva sulla

scrivania le compresse, le boccette col contagocce e i tubetti deformati delle pomate. Un coltellino che si mise in tasca. Un astuccio con il necessario per farsi la barba che io misi accanto ai calzini. Una borsa con banconote da cinquemila escudos che io misi accanto all’astuccio. Una pistola nera, arrugginita sulle punte. Io non toccai la pistola. Mio nonno si allungò dalla sedia su cui era seduto e lui stesso mise l’arma nel cassetto fra due camicie. Poi si pentì e prese di nuovo la pistola. La guardò per un momento e poi la mise sul divano. Allora si voltò verso di me.

Disse: Guarda qua. Allo stesso tempo si tolse la camicia dai pantaloni e la alzò fino al petto. Indicò il lato sinistro della pancia. Aveva una piccola cicatrice, un vortice biancastro di due centimetri sulla pelle, come se qualcuno gli avesse sputato sulla pancia. Poi si contorse e mi fece vedere la schiena. Alla stessa altezza aveva una cicatrice identica, leggermente più grande. Alzò la pistola in aria, con la canna puntata al soffitto.

Disse: Ora ti racconterò com’è successo che quella puttana di pallottola è uscita da questa pistola per entrare qui nella mia schiena e uscire qui dalla mia pancia.

E raccontò.
(Io penso: La storia non è ancora finita). (…)







Brano tratto dal romanzo Che parlino le pietre, Cavallo di Ferro editrice, Roma, 2013. Traduzione di Federico Bertolazzi.




David Machado

David Machado (1978) è considerato una delle voci più promettenti della letteratura portoghese. È stato vincitore del premio Branquinho da Fonseca 2005 della Fondazione Calouste Gulbenkian con il libro «La notte degli animali inventati». Recentemente ha pubblicato un libro di racconti, «Storie possibili» (2008). «Il favoloso teatro del gigante» è la sua prima opera pubblicata in Italia, seguita dal romanzo «Che parlino le pietre».





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