POPULISMO E ISOLAMENTO NEL PARTITO NAZISTA Brano tratto dal saggio Il Nazionalsocialismo: Storia di un’ideologia Nicolao Merker (…) Il Mein Kampf disprezzava i raduni völkisch dei finti veterogermanici — dove «si portano pelli di orso finte, grandi barbe, corna di toro in testa, e spadoni di latta» (Hitler, 1941, p. 396). La concezione völkisch del nazionalsocialismo, di contro, è anzitutto politica. Essa bada ai «primordiali elementi razziali dell'umanità», pertanto considera «lo Stato soltanto un mezzo per quel fine che è la conservazione dell'essere razziale degli uomini»; occorre dunque «promuovere la vittoria del più forte e migliore, e la sottomissione del più debole e meno efficiente, come lo vuole l'eterna Volontà che domina questo universo» (ivi, pp. 420-1). L'ottica assomigliava a quella di Chamberlain. Per il quale era la razza, amalgamatrice come lo è il «campo di forza di un magnete», a far distinguere «una nazione in senso vero da un semplice agglomerato di gente» (Chamberlain, 1899, p. 311). Una volta fondata, è poi «la nazione come compagine politica», come Stato etnico, a «plasmare ulteriormente la razza», a «condurla alle supreme individualissime sue imprese» (ivi, p. 29o). Nel Mein Kampf c'era, in più, che la concezione völkisch vera doveva dotarsi di strumenti politici. Dovevano essere radicalmente antidemocratici. Primeggiavano soltanto diritti in favore della razza superiore: lo Stato völkisch «non può riconoscere diritto di esistenza a un'idea etica che costituisca un pericolo per la vita razziale dei portatori di un'etica superiore» (Hitler, 1941, p. 421). Già il programma dell'NSDAP (Partito Nazista) del 1910, sappiamo, statuiva che «cittadino dello Stato (Staatsbürger) può essere solo chi è membro della comunità popolare (Volksgenosse)» e «Volksgenosse solo chi è di sangue tedesco» (in Hofer, 1957/1964, p. Z5). Il diritto razzista, nel senso del privilegio di razza fondato sullo jus sanguinis, verrà puntualmente messo in opera dalla legislazione del Terzo Reich: i non-ariani non accederanno al pubblico impiego (1933), sarà "cittadino del Reich" soltanto "chi ha sangue tedesco" (1935), la "Legge per la tutela del sangue e dell'onore tedeschi" (1935) vieterà matrimoni misti con ebrei oltre a introdurre altre minuziose norme antiebraiche prodrome della "soluzione finale" (cfr. CAP. 10). Lo Stato, monorazziale per legge, ha una struttura autoritaria modellata sulla gerarchia militare. Ovvero il principio basilare che a suo tempo «fece dell'esercito prussiano il più meraviglioso strumento del popolo tedesco, deve venir trasferito come principio basilare nella costruzione dell'intero nostro assetto statale: Autorità di ogni condottiero verso il basso, e responsabilità sua verso l'alto» (Hitler, 1941, p. 501). Nella catena di comando le decisioni per l'intero Reich spetteranno al Führer massimo, a Hitler il quale, appena morto il presidente del Reich Paul von Hindenburg, si autoproclamò "capo supremo del Reich tedesco" il 2 agosto 1934, immediatamente istituì il giuramento a lui della Wehrmacht, e di questa diventò anche comandante supremo con legge del maggio 1935. Le decisioni più settoriali il Führer del Reich le demandava ai Führer delle aree di comando inferiori. Già il Mein Kampf aveva spiegato che lo "Stato völkisch" non ha istituzioni deliberative sotto forma di «corpi rappresentativi abilitati a decidere con voto a maggioranza», ma esclusivamente «corpi consultivi» ai quali i Führer dei vari settori ricorrono per pareri tecnici (ivi, pp. 501-2). Assomigliava a una riedizione dei Consigli feudali di vassalli e valvassori nelle monarchie assolute, i "Consigli del re". L'autorità del Führer supremo derivava – così il dogma – dalla specialissima fonte di potere costituita dall'unione mistica sua con tutti i tedeschi, sicché la sua era "responsabilità suprema" verso il popolo. Quanto ciò fosse vuota retorica lo sveleranno, a chi voleva vedere, i sei anni di guerra e il cataclisma del 1945 (cfr. PAR. 13.1). L'essere Hitler all'apice della scala gerarchica obbediva a una legge di natura, secondo l'ideologia. Cioè è stata sempre «l'evoluzione naturale ad aver portato alla fin fine l'individuo migliore al posto che gli spetta» (Hitler, 1941, p. 573). Biologismo e populismo, cesarismo e razzismo, con sotteso un equivoco darwinismo sociale si davano la mano. Il loro connubio forniva ottime frasi di propaganda in cui vigeva sempre la primazia degli "elementi razziali primordiali": E secondo una formula dello scrittore Hermann Burte, del 1936, pure «sulla musa dell'arte l'elemento popolare, razziale, quello della stirpe, agisce più fortemente dell'elemento dello Stato» (in WuIf,1966', p.183). Pertanto chiunque, purché di sangue puro, poteva aspirare a essere un giorno, senza altro requisito aggiuntivo, un qualche Führer in un qualche gradino di una qualche scala gerarchica. Un tale assetto produsse un labirinto di concorrenze e lotte tra centri di potere, minimi o massimi che fossero. Ciò diventò uno dei connotati permanenti del Terzo Reich (cfr. PAR. 13.2.). In secondo luogo la promessa che uno Stato siffatto avrebbe dischiuso impensabile benessere alla "comunità del popolo-stirpe" generò sogni di nazionalismo ed espansionismo a livello di massa (cfr. CAP. 11). Il postulato era – nel Mein Kampf – che «uno Stato il quale nell'epoca dell'inquinamento delle razze si dedica alla cura dei suoi propri elementi razziali migliori, deve necessariamente diventare, un giorno, il padrone del pianeta» (Hitler, 1941, p. 782.). Chi poteva restare insensibile? La comunità d'impronta tribale non solo doveva essere fortemente coesa, ma anche rimanere separata da quelle straniere e possibilmente dominarle. Lo Stato diventa il braccio armato della dinamica di "coesione-isolamento-dominio". È la metafisicizzazione ad aiutarlo. La espresse ad esempio così il giurista Gustav Walz, dal 1933 all'università di Breslavia: Lo Stato völkisch è una forma dell'apparire del popolo, e il popolo nella sua immediatezza esiste come un vivente organismo di comunità dentro lo Stato; e continua a sussistergli accanto come fondamento, sostanza e punto finale di ogni configurazione politica (Walz, 194z, p. 63). Come corollari, il partito garantisce «il tipo di legame, su base völkisch, tra il condottiero (Führer) e il suo seguito (Gefolgschaft)» (ivi, p. 64); e il Terzo Reich si libera dal principio del diritto internazionale che pacta sunt servanda. L'idea conflittualistica del rapporto fra gli Stati, connaturata a ogni populismo, sfocia nella teoria che «non esiste alcuna costituzione politica della comunità internazionale» (ivi, p. 71), nessuna normativa per conciliare attriti e conflitti. Uno dei primi atti del Terzo Reich fu l'uscita dalla Società delle Nazioni. (…) Brano tratto da “Il nazionalsocialismo”, Carocci editore, Roma, 2013. Nicolao Merker, storico della filosofia, è professore emerito della Facoltà di Filosofia della Sapienza Università di Roma. È curatore di edizione italiane di classici dell’illuminismo e dell’idealismo tedeschi, nonché di Marx, Engels e Otto Bauer.
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