FARNETA Maurizio Bardoni Quando ero bambino, la villa non era abitata e i suoi enormi portoni rimanevano accostati e invitanti per noi, piccoli teppisti scatenati per la campagna. Era un paradiso di soluzioni possibili e quel bosco attorno pareva fatato, c’erano alberi enormi e rari, che poi, viaggiando per il mondo, non ho più visto altrove. Le ombre e le luci naturali si alternavano, raggi di sole filtravano dalle fronde, escrementi di varie misure e di tanti tipi di animali differenti ci obbligavano a fare attenzione a dove mettevamo i piedi. Se li cercavamo, trovavamo funghi e more, pinoli e ogni sorta di frutti su ciliegi, peri, meli e susini e poi anche riviste di donne nude lasciati dai figli dei padroni. Insomma era lo scenario ideale per i nostri giochi, sempre meno innocenti e per i nostri crescenti atti di vandalismo. A quei tempi, appena tornati da scuola, consumato rapidamente il pranzo, sparivamo dalla vista dei genitori fino a sera. Ritornavamo a buio, stanchi, sporchi e a volte con i nostri indumenti un po’stracciati. Mia madre non lesinava gli schiaffi, per metterci sul giusto cammino e a fare i compiti per casa, ma il giorno dopo le cose non cambiavano. Oltre il laghetto il prato si allungava a lato del bosco e poi si allargava e saliva e scendeva per le colline, senza che nessuno lo calpestasse, senza incontrare nessuno in giro se non vacche, maiali, oche, anatre, galline e animali, a volte, anche un po’ più selvatici come grossi topi di campagna, fagiani e volpi. Dopo il bosco e la villa, nel prato più grande, c’era una casa di pietra, che una volta era stata dei contadini del signore della villa. Nonostante i prolungati sforzi, non riuscimmo a distruggerla completamente, ma anche così fu una faticata, eravamo ragazzini energici e vivaci, ma quei muri erano larghi e forti. Davanti al portone d’ingresso della villa, si apriva una radura circolare con al centro una grande fontana secca, d’estate era l’habitat preferito delle lucertole, che noi potevamo massacrare con le nostre carabine ad aria compressa. Lì gli alberi formavano due cerchi, uno che costeggiava internamente la strada di ghiaia e quello grande esterno che poi diventava il bosco attorno. Al tempo della seconda guerra mondiale, la villa era stata quartier generale dei soldati tedeschi della zona, perciò dentro c’erano da vedere le prigioni e gli affreschi inneggianti alla guerra. Bruschi deliri di svastiche, appena abbozzati, dipinti di giovani militari biondi e puri di una Razza Ariana che era stata presa come modello da Hitler, ma che non aveva niente a che fare con i tedeschi. Gli Ariani erano stati un popolo indoeuropeo che aveva invaso migliaia di anni prima l’India e dal quale avevano copiato, invertendone il senso dei ganci, la svastica, simbolo di terrore, che invece ai tempi antichi, dall’Ucraina all’India, aveva simbolizzato energia positiva. Tutte queste cose non le sapevamo, ma fecero in maniera che io m’incuriosissi e le andassi a cercare sui libri per capirle meglio, in futuro. I vetri delle finestre della villa glieli rompemmo noi, un po’ alla volta, con le fionde. Eravamo stupidamente determinati, non ce ne restò uno intero. Il giorno in cui completammo la nostra opera, mossi da sentimenti, dal nostro punto di vista, superiori ai nostri meriti e al loro autocontrollo, tre giovinotti minacciosi c’inseguirono fin sotto casa. I danni chiesti in pagamento a mio padre, non furono mai pretesi, in seguito, ma lo scampato pericolo ci spinse a cominciare ad uscire dal mondo delle fiabe, per entrare nel mondo degli adulti, dove la fantasia e i sogni lasciano posto al lavoro e alla razionalità. Questo episodio non diminuì la quantità né la qualità dei nostri atti di distruzione, tanto che, proprio in quei tempi di transizione del nostro senno di poi, cominciammo ad essere accusati di ogni atto di piccola delinquenza avvenuto nei dintorni, sia che ne fossimo colpevoli, sia che ce ne sapessimo innocenti. In seguito a queste nuove e parzialmente false accuse, iniziammo a rifletterci su, in maniera più o meno inconscia, ma alla lunga, efficace. Tra le ultime manifestazioni di dispetto giovanile, ricordo il lancio di grappoli di uva acerba sui parabrezza di automobili che passavano dentro un boschetto in salita, prima del dritto viale alberato di altissimi cipressi, dell’antica Certosa. In quella nostra competizione, contavamo i punti a partire dall’auspicabile fermata dell’automobilista, dal suo scendere o meno dalla macchina e dalle sue relative imprecazioni ad alta voce, a nostro indirizzo, spesso distorto e bestemmiato. Un buon punteggio si raggiungeva se venivamo inseguiti a piedi nel boschetto e poi giù nei campi sottostanti, di solito accompagnando la corsa con parolacce e minacce. Il massimo ottenuto fu grazie a una donna grassoccia dal profilo dantesco, che c’insolentì e c’inseguì tanto da farci temere il peggio, ma alla fine la sua mole generosa ebbe la meglio su di lei e la stanchezza e il sudore che ne sortirono ci risparmiarono una scena imbarazzante non prevista dalle nostre tabelle dei punteggi. In questa epoca ricordo una notte di vento in cui andai in giro per il bosco, da solo, immedesimandomi in una specie di film di terrore. A scuola scrissi la cronaca di quell’avventura solitaria in un tema, che fu usato come esempio e di conseguenza letto ad alta voce alla classe. Dovevo essere in quinta elementare, perciò avevo circa dieci anni. Un giorno, all’interno di una larga loggia aperta posteriore, della vecchia villa, un portone accostato, uno che era sempre stata chiuso a chiave, ci invitò ad entrare in una strana cappella. Dietro all’altare di marmo, una figura maschile barbuta e dalle zampe di capra, affrescata sul muro, ci fece pensare all’adorazione del diavolo, alla quale non avevamo mai pensato, né sentito parlare di qualcosa del genere. E poi quella subdola specie di fauno non aveva nemmeno le corna… Trovammo anche un vassoio metallico con sopra due autentiche zampe di capra, la cui utilità ci sfuggiva, ma la nostra fantasia ne rimase impressionata. Il ritmo della nostra giovane vita non ci permetteva di stare a riflettere, non capivamo ancora che il pensiero poteva dirigerci, ma intanto cominciavamo ad osservare il mondo. Più di venti anni dopo, leggendo un libro che parlava dei Templari, capii di che cosa si trattava: quella era la divinità denominata Baffometto e le zampe si adoperavano, tra i seguaci, per le relative cerimonie. Il mito dei Templari mi accompagnò da quel momento, attraverso una serie di coincidenze, come quella di abitare a Berlino in un appartamento della Tempelherren Strasse, (strada dei Templari, in tedesco), di vivere, ora, in Brasile, terra scoperta dai portoghesi in seguito alla fuga dei cavalieri in Portogallo, dopo la scomunica e l’arrivo dalla Francia e all’assumere, attraverso i resti delle loro immense ricchezze, la relativa epoca d’oro dei navigatori lusitani e le conseguenti esplorazioni del mondo. La scoperta di quel giorno mi aiutò ad intravedere, qualche tempo dopo, l’importanza della verità. Anche se a volte fa male, averne paura e tapparsi gli occhi è una delle peggiori cose che possono succedere ad un essere umano, oggi assai comune e sempre più di moda. Gli uomini fanno esplorazioni simili a quelle dei bambini, le proporzioni sono differenti e anche gli scopi, ma certo questa è una tendenza umana: la curiosità. Gli psicologi dicono che i desideri degli adulti sono gli stessi dei bambini. Il denaro e il potere non realizzano i sogni di un essere umano, perché non facevano parte di quello che desiderava da bambino. Maurizio Bardoni è un professore d'italiano che vive e lavora, il meno possibile, a Porto Alegre, nel sud del Brasile. Nato a Lucca, nel giugno del 1959, se ne è scappato appena se ne è accorto. Padre neuro-psichiatra, morto d’infarto nel 1996, madre insegnante elementare in pensione, un fratello designer, l’altro commercialista, entrambi più giovani di lui. Ha viaggiato abbastanza per convincersi che vuole viaggiare ancora. Conosce diverse lingue, ma alcune solo di vista. Secondo una delle sue bizzarre teorie, la lingua sarebbe uno dei modi più usati dagli umani per comunicare. Vive dal novembre del 1994 nel Rio Grande do Sul, e anche qui ha percorso in lungo e in largo lo stato per dare lezioni della sua prima lingua. La sua storia è stata densa di spostamenti e viaggi, pendolarismi di vario tipo, con ogni mezzo di trasporto, ma raramente in elicottero. Ha vissuto due anni a Berlino, gli ultimi del Muro, il quale poi è crollato, magari per caso, ma proprio quando lui se n'è tornato in Italia. Insomma la sua storia è quella di un emigrante alternativo, cioè uno di quelli usciti dall'Italia non solo per mancanza di soldi, forse più per rendersi conto di quello che c’era fuori.
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