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Sagarana IL COLORE INDACO


Francesca Ceci


IL COLORE INDACO



♀ Fine turno. Mi lascio indietro quegli sguardi sofferenti e insofferenti accanto ai quali ho combattuto anche questa giornata, e cerco un po’ di tempo per me, da sola.

Senza fatica mi allontano dagli uomini che, senza averlo deciso, sono stati la mia giornata e che lo saranno anche domani, come ogni giorno negli ultimi anni di cui ho ricordo.

Li assisto, li soccorro dove posso, li sostengo a modo mio, a volte non li tollero ma li supporto.

E ogni sera, a fine turno come oggi, mi chiedo chi tra noi, in realtà, abbia più bisogno di tutto questo.

E, per capirlo, devo sforzarmi di mettere da parte le loro storie per concentrarmi sulla mia, che storia non è, e, per farlo, mi ritrovo in bilico su quello che ha tutta l’aria di essere un baratro.

È una parola che non conoscevo fino a poco tempo fa, che tuttavia oggi si è adattata perfettamente al mio corpo e a quella che è divenuta la mia mente. E vedo, in quel suo non permettermi di vedere, ciò che è stato sino a questo momento, senza rammarico, quello che potrebbe essere da domani, senza interrogativi.

Sono quello che intravedo e anche quello che non vedrò più, sono il fondo di questo precipizio che non potrò mai scorgere né decifrare, e sono quello che ancora potrei vedere ma per cui non so se avrò la forza di tenermi a galla. Sono allo stesso tempo il riflesso delle ombre nel buio, quelle confuse e movimentate che non sanno assumere una forma, sono quel che c’è alle sue estremità, che da una parte si piega al ritmo del vento e dall’altra ristagna. Sono stanca.

Mi avvicino al confine di questo cerchio imperfetto e sgretolato e decido di rimanere qui, di sdraiarmi in bilico sulla riva di quest’ulteriore abisso. E di aspettare.

*

♂ È incredibile come cambi la percezione del numero quattro a seconda del contesto in cui mi trovo. Oggi quattro è il numero delle mura che mi circondano, mio malgrado. Senza contare terra e soffitto.

Fino a ieri pensavo che quattro fosse solo il numero dei miei fratelli maschi, delle mogli che avrei potuto avere, dei giorni di viaggio che ho impiegato per raggiungere questo quattro che non mi appartiene.

Quattro sono anche le donne che si occupano di noi e, probabilmente, prenderanno quattro lire di stipendio. È una cosa insolita che siano donne a prestarci assistenza, noi che siamo tutti uomini, e che le apprezziamo solo per questo.

Mi trovo, insieme ad uomini in numero maggiore di quattro, in un centro di accoglienza, che ho imparato ha un significato diverso da ospitalità. È dove ti accolgono perché costretti. Ospitalità è dove ti ricevono perché lo vogliono.

Faccio ogni giorno quattro passi all’aria aperta, dove dovrei effettivamente trovarmi e che invece mi viene concessa come se la avessi meritata. Con i miei modi gentili e insicuri e silenziosi.

Perché, nonostante tutto, aver perso il senso del tempo, continuo a covare felicità, e nessuno capisce perché.

Me la infonde una delle donne di cui non possiamo conoscere i nomi. È la più distante di tutte, è quella che io sento più vicina.

Non so neanche più se trovarla bella, o brutta, o qualcos’altro, ma il bisogno che avverto nei suoi gesti deboli e decisi mi appare ancora maggiore del mio.

*
♀ Notte fonda. Buio pesto.

Apro gli occhi a fatica e intorno avverto, senza realmente vederlo, lo stesso buio confuso che ho lasciato prima di alienarmi in me stessa.

La stessa oscurità fuori e dentro le palpebre.

Eppure sento, da qualche parte, che qualcosa è distante da quella che era e da quella che ero anch’io poco fa, fino a ieri.

Sentire è più forte di vedere. Ci impiego del tempo a capire da dove provenga quella sorta di calore, un sentore che si irradia da un’estremità indefinita del mio corpo e che mi raggiunge in ogni poro della pelle, che lo riempie e che mi fa scoprire, senza spiegarsi, di sapere ancora sorridere.

Potrei muovermi, se lo volessi, precipitare nell’abisso senza capire. Solo una cosa mi tiene inchiodata al suolo, più prepotente di ogni energia, decisiva come io non ho mai saputo essere.

È una mano più forte della mia, è sicura senza essere dura, è salda senza averne motivo, è di chi ha vissuto e vive per poter vivere ancora.

È una mano che mi tiene ferma e ancorata alla sponda, che mi fa capire con la sua stretta che potrei fare un solo lungo passo avanti per non tornare e non pensare, o due brevi passi indietro, impercettibili, per continuare.

E dietro la mano qualcuno, per caso, che non importa chi sia.

*

♂ Mattina presto. Solita ora e solita luce.

Soliti rumori che si risvegliano e i passi lenti di quelle donne che comincio a riconoscere prima che si avvicinino.

Oggi sembra di comprendere anche a me la ragione, lontana e incerta, di quella che si direbbe essere felicità senza perché.

In queste quattro mura, in ognuno di questi quattro mesi, mi sono sentito sempre e solo un sognatore a mani vuote. Che non riescono ad afferrare niente, perché da niente sono sfiorate.

Poi il chiarore del mattino, il primo risveglio a piene mani da quando sono qui.

La figura di quella donna di cui ancora ignoro il nome e il colore degli occhi, per non essermi mai accostato a lei quel tanto che basta per distinguerlo.

È lei che si avvicina senza dire una parola, non ho mai sentito neanche la sua voce, ora che ci penso.

Solo il suo gesto semplice e rapido, sufficiente a farmi sentire che non c’è più nessuna differenza tra dare e ricevere.

Una sola stretta di mano. Una carezza. Qui dentro, un appiglio come un altro.

 
 





Francesca Ceci

Francesca Ceci vive a Roma. Collabora con Cafebabel.com – La Rivista Europea e La Balena Bianca – Rivista di cultura militante. Ha pubblicato racconti e articoli nelle riviste Nazione Indiana e Paese Sera, nonché nelle antologie Parole per strada; Cose a parole (ed. Giulio Perrone); Parole in corsa; 150 strade; Silenzio, parlano i libri; Roma da scrivere; Napoli Cultural Classic. Un suo racconto, “Dieci volte forse”, è risultato terzo classificato nella I edizione del Premio “Io, Massenzio” nell’ambito del Festival delle Letterature di Roma".





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