IL CUORE DEL NONNO Brano tratto dal romanzo Non mi viene in mente niente Emanuele Telesca
Mia madre ha smesso di fare il segno della croce il giorno in cui scaraventò il crocifisso di casa nostra contro il muro, distruggendolo. Accadde in un’afosa sera d’agosto, quando ci chiamarono dall’ospedale per avvisarci che il nonno, suo papà, era morto. Avevamo creduto che potesse guarire, che potesse farcela, ma invano. I ricordi di quel periodo riaffiorano, e vorrei che sparissero. Si sono attaccati alla mia mente a doppio filo e non riesco a scacciarli.
Io odio i ricordi, perché i più vividi sono quelli tristi e tragici.
Le piccole gioie quotidiane svaniscono, e di loro non ne rimane più traccia.
Ricordo tutto del calvario di mio nonno. Ero in vacanza mentre lui veniva colpito dall’infarto. L’ho ritrovato in un reparto di terapia intensiva, con tubi che entravano e uscivano dal suo corpo e mi stupivo di come non gli si aggrovigliassero nella pancia. Respirava grazie ad un tubo e scatarrava in quel tubo.
Noi entravamo vestiti completamente di blu: camice, calzari e cuffia. I muri intorno, verniciati di blu, parevano sottolineare quell’ironia di pessimo gusto, come ad abituare quei disgraziati
al colore del cielo e del paradiso.
Poi arrivò l’operazione, quattro by-pass e la speranza. Ci parlavano di tappe, di miglioramenti, di piccoli peggioramenti, della necessità di fare fisioterapia. Di fronte a tutto questo è bastato un batterio infinitesimale per distruggere i nostri sogni e per sconfiggere lui, imbottito di antibiotici e caduto dormendo.
Andai a salutarlo poco prima del suo ingresso nello stadio finale di coma farmacologico. Gli parlai di calcio, del Napoli, del mare e dei vicoli. Lui sorrideva, la smorfia di chi ha già capito tutto. Lo salutai così.
Penso alle cose che si è perso, agli appuntamenti mancati: i compleanni, i pranzi di Natale, le mie lauree.
Maledetti ricordi, incominciano a darmi sui nervi. Scorrono le frasi idiote che ci siamo sentiti dire nei giorni del lutto. Sembrava così giovane, era sempre in movimento, se non fosse stato per il cuore sarebbe vissuto cent’anni! Fatemi capire un po’, ricordi insulsi: può star bene un uomo attaccato a tubi, macchine e bombole d’ossigeno? Si può star bene se il cuore, il nostro muscolo più importante, è rigonfio, sbotta e non va? Lui sputa sangue, a ogni battito ti maledice e si maledice, ci vorrebbe un cuore nuovo ma nel frattempo il suo sprofondare trascina con sé tutto il resto dell’organismo. È un crollo verticale.
Il suo cuore non ne poteva più. Ottant’anni di lotte, di sofferenze, una guerra, tanti figli, la fatica, case piccole, estati roventi e inverni gelidi, nessun comfort, una moglie e la pensione sociale.
Meccanismo dei ricordi crudele, maledetti ricordi e maledetta pure la mia memoria. Perché ricordo per filo e per segno la morte di mio nonno ma non ricordo tutte le volte nelle quali ho potuto ammirare il corpo nudo di una donna? Perché mi sfuggono quelle battute idiote che mi hanno fatto ridere fino alle lacrime?
Di quel calvario ricordo pure quando vidi mio nonno morto il giorno prima che lo seppellissero. Era sdraiato su un freddo tavolo d’acciaio, vestito di tutto punto e circondato da una platea di parenti. Molti piangevano, alcuni tacevano, troppi parlavano, alcuni ricordavano e creavano nuove memorie da sommare alle altre. A me faceva impressione vederlo fermo, immobile, gonfiato dai farmaci. La morte lo aveva trasformato nell’opposto di ciò che era stato in vita: un uomo dinamico, asciutto, vivo. Le sue mani, in particolare, sembravano zampogne piene d’aria, violacee e tese. Temevo che potesse scoppiare da un momento all’altro.
I ricordi adesso mi fanno sentire pure stupido, che fastidio!
Mi torna alla mente il momento in cui gli sussurrai all’orecchio un addio e gli chiesi di portare i miei saluti a nonna. Quest’immagine è come un tarlo nascosto in un angolo della testa, continua a mordere e rosicchiare e a farmi sentire un completo imbecille.
Che idiozia credere che un uomo morto, dopo aver cagato per un mese in un sacchetto di plastica, pisciato attraverso un tubicino ficcato nel suo pene e respirato con un tubo in gola, vada in cielo, ritrovi sua moglie e le dica: «Sai, amore, ti saluta tuo nipote!»
Di mio nonno mi mancano le storie, i racconti, gli episodi vissuti, le vicende narrate. A pensarci bene avrei potuto farne una raccolta postuma, con il mio nome e la mia personale impronta.
Così, da un brutto ricordo avrei tratto vantaggio, avrei aggirato l’aspetto tragico per concentrarmi sull’aspetto letterario.
Tutti questi ricordi pessimi sono negativi, non mi fanno scrivere e a volte nemmeno mangiare. Non sono buone premesse, assolutamente. Come posso diventare un grande scrittore se ho lo stomaco vuoto e la mente piena di pessime idee e cattivi ricordi? Brano tratto dal romanzo Non mi viene in mente niente; Edizioni La Gru, Padova, 2013. Emanuele Telesca nasce a Milano nel 1985. Giovane marito e padre, scrive da sempre in ogni forma e momento libero. Volontario della Croce Bianca, entra nelle case di sconosciuti, ne ascolta storie e sofferenze, ne trae forza ed esperienza.
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