MARTA ATRAM Gianluca Bologna
Sono le tre
Il ticchettio cadenzato dell'orologio appeso, scarno, sbiadito di vecchiaia e di spugne intrise di detersivo spezza il silenzio tra le stanze, nella casa. L'eredità di sua madre e di suo padre, la coda miserabile della loro esistenza passata. Una casa piccola dai mobili puzzolenti di legno vecchio e il pavimento scuro che dà un aspetto lugubre a tutto l'ambiente. È per questo motivo che Marta non vi ha mai portato nessuno, se ne vergogna.
La borsa della palestra è pronta, il letto lasciato disfatto per correre a lavoro l'ha sistemato appena tornata a casa, ha fatto la doccia per rinfrescarsi prima di affrontare la gente della palestra e ora non le resta che darsi una sistemata ai capelli ed è pronta.
Il pettine è dentro il mobile del bagno e lo sportello è chiuso. Marta è immobile come il pettine davanti il lavandino. Ha le mani poggiate sui bordi ingialliti, le cosce sfiorano il lavandino, attraverso la tuta sente il freddo della vecchia ceramica irradiarsi ai muscoli sottili e alle ossa. Il suo fisico asciutto è teso, attraversato da una scossa di rabbia. Nel volto piccole increspature le disegnano le trame dei pensieri, ma i suoi occhi gli occhi scuri, tetri dentro quella casa tetra, sono fissi.
Contro di lei, seduta in una sedia di legno nero, legata mani allo schienale e piedi alle barre della sedia, c'è una donna. La bocca è piegata in un sorriso cattivo ed è tutto dedicato a Marta, al tumulto che le si sta scatenando dentro.
Marta sembra una statua di ossa e fibre, la donna legata uno spirito maligno. L'orologio continua a battere la propria marcia infinita, inascoltato, finché un suono spezza il silenzio. Una moneta, lasciata in bilico sul tavolo da pranzo accanto al disordine di pacchi di patatine vuoti, confezioni di biscotti dimezzate, agglomerati di involucri di cioccolatini schiusi, cade a terra tintinnando sui mattoni. Marta scatta via dal lavandino per andare a sprofondare la testa nel cesso e vomitare.
Mentre il fiotto di acido sporca le pareti del water, Marta la comincia a sentire. Dapprima sommessa indistinta dal ticchettio, poi svelta cresce d'intensità, diventa inequivocabile, e cresce ancora e ancora fino a superare il rumore dello sciacquone. Marta corre allo specchio, alla fonte di quel suono cantilenante e cattivo è ha la conferma, sta ridendo. La donna dietro lo specchio si è liberata, si è sbavagliata e ora è a filo di specchio. La sua bocca è talmente aperta che copre la metà inferiore della faccia, la testa è piegata un poco all'indietro, gli occhi sono leggermente socchiusi e fissi.
Marta lo sa perché ride, perché ha sgarrato ha ceduto a pranzo; compiendo quel gesto in modo premeditato perché è andata questa mattina presto, quando il discount aveva appena aperto ed era deserto, per cui non si è trattato di un impulso, di una debolezza del momento. Nella busta è rimasto dentro anche il resto che è caduto sul tavolo quando vi ha rovesciato il sacchetto.
E ora lei ride, ride maligna Atram. Marta la ignora, si lava i denti concentrandosi sul rumore dell'acqua e poi prende il pettine, ma Atram continua, aumenta a ondate il tono della risata.
Quel suono riempie tutta la casa si insinua fra le stanze, Marta ha paura raggiunga anche sua madre che dorme sola nella stanza senza finestre.
Il pettine che le è rimasto in mano, lo stringe con tutta la forza, fino a sentire il contatto delle ossa con la plastica dura, poi getta fuori un urlo soffocato e lo lancia allo specchio. Il cristallo si incrina. Dal punto di impatto si diramano vene di incrinature a formare una ragnatela sghemba, Atram smette di ridere.
Mancano quindici minuti alle cinque.
Sul rullo veloce del tapis roulant Marta spinge i piedi energicamente ad un ritmo intenso. Ha trascorso quaranta minuti lì sopra, gliene restano ancora cinquanta, un'ora e mezza di sofferenza tutti i giorni per scongiurare la paura di trovarsi inadeguata. Le gocce di sudore scendono sincopate, morendo ora su di lei, ora sul tapis.
Novanta minuti a correre è un tempo lunghissimo che la costringe a pensare, nonostante lei si sforzi a non farlo. Allo stesso modo di Atram nello specchio, Marta sul tapis è incastrata dai minuti che si posano lenti uno accanto all'altro come sbarre, e tutte le volte si ritrova bloccata dentro una fase ben precisa della sua vita.
Alle dieci e trenta l'intervallo è quasi terminato. Ora l'aspetta un tour de force di due ore di letteratura. Marta ha appena finito il succo di frutta, butta la scatola nel solito cestino.
Appena prima che sua madre, insegnante di latino di quello stesso liceo ma non della sua classe la veda e le si avvicini. Per prima cosa le chiede se ha mangiato, Marta le mente, poi le ricorda di passare nel pomeriggio a riprendere gli abiti dalla lavanderia. Marta ha la macchina, sua madre no, si fa dare un passaggio dalla sua collega di matematica. Le risponde con un si distaccato e freddo, sua madre resta un momento in silenzio, poi la saluta raccomandandole di ricordarsi dei vestiti, molto importanti per suo padre.
Non le chiede niente del succo di frutta, perché nel cestino c'è solo quella confezione dentro, perché non ha neanche un poco nelle mani residui di pane, una traccia qualsiasi di cibo, perché passa sempre la seconda metà della ricreazione da sola alle macchinette e la prima in bagno. Sua madre non le fa nessuna di queste domande.
Marta raggiunge la sua classe, si sistema al proprio posto. Antonio seduto accanto a lei la osserva, non le fa le domande, conosce già tutte le risposte. La lezione comincia, Marta è attenta, si sistema il quaderno per gli appunti.
Antonio la chiama dopo poco.
«Non mi piace quello che fai.»
«Non sono affari tuoi.»
«Invece lo sono.»
Marta si gira verso di lui, aggancia i suoi occhi profondi su quelli di Antonio, scivola velocemente sulle sue guance un poco tonde, poi torna alla lezione.
Tornata a casa posa tutti gli strumenti della scuola e va in lavanderia, la trova ancora aperta e sbriga la faccenda. Sulla via del ritorno incontra Antonio.
«Che fai in giro a quest'ora?»
«Dovevo prendere della roba.»
Marta accenna con la testa alle buste stese dietro.
«E tu?»
«Tornavo a casa.»
Marta resta in silenzio, scivola con la mano sulla leva del cambio, sta per ripartire Antonio si avvicina al finestrino accanto a lei.
«Marta»
«Dimmi.»
«Hai pranzato?»
«No. Vado ora, lo vuoi un passaggio a casa?»
«Posso venire a pranzo da te?»
«No.»
«Voglio mangiare con te. Poi studiamo un paio d'ore e ce ne usciamo…»
«No. Ci sentiamo dopo, magari. Sali, ti do uno strappo.»
Alle quattro e mezza del pomeriggio, c’è ancora una buona luce, il Sole ci metterà almeno altre due ore prima di tramontare. Marta guarda il mare seduta sugli scogli dove va sempre con Antonio. Lui le sta accanto, sorseggia una lattina di coca cola.
«Che ore sono?»
Antonio poggia la lattina, le dice l’ora.
«Tra poco devo andare in palestra.»
«Restiamo qua.»
«No, non se ne parla»
«Dai, che te ne frega della palestra, per una volta.»
«No, no anzi, è meglio andare via ora.»
Marta si alza in piedi repentina.
«Fammi almeno finire.»
«Finisci in macchina.»
Marta supera gli scogli e posa entrambi i piedi sulla sabbia, riesce a compiere pochi passi, poi è costretta a fermarsi. Antonio la guarda dagli scogli. Marta vede le onde del mare cominciare a muoversi a girare in modo innaturale attorno a lei assieme alla spiaggia e alle sdraio chiuse dei lidi distanti. Si sente mancare le forze all’improvviso, cade a terra, una piccola quantità di sabbia le si impasta sulle labbra con un filo sottile di saliva che le scende da un lato.
Antonio la soccorre l'istante dopo, Marta lo vede arrivare, vede la sua testa rotonda incombere su di lei.
Marta non perde mai del tutto i sensi, ma all’apice di quel malessere la sua parte interna prende il sopravvento giungendo in superficie e cacciando lei nel profondo al suo posto. Le parole le soffia via veloci senza rispettare le pause tra l’una e l’altra, come non avesse tempo, con una forza minima, superata dal frastuono del mare ad ogni onda.
«Sonoascittamamma manonfanientenonimporta davveroepoièunproblemainmeno no? Menopannidacompraremenoasciugamanida sporcare»
Mentre Antonio prova e riprova a chiamarla a farla tornare, il mare urla diverse ondate di fila senza rifiatare, quando finalmente termina, Marta sta ancora soffiando via le parole.
«Ilmiodoloredasopportare.»
Antonio riesce a sentire quelle ultime parole. Marta si riprende il suo corpo e torna in superficie. Lasciandosi aiutare, si mette a sedere.
«Come stai? Che è successo?»
«Non lo so, niente di importante. Sto bene ora.»
«No, non stai bene.»
«Si, si non ti preoccupare, andiamocene.»
Marta si scosta da Antonio, si rimette in piedi.
«Cos’era quella storia di prima?»
Marta si volta verso di lui, ancora in ginocchio.
«Cosa?»
«Prima hai detto qualcosa sul dolore.»
«Non ho detto nulla.»
Marta si incammina alla macchina. Antonio la affianca, uno a fianco all’altra raggiungono la macchina.
«Non andare in palestra oggi, non stai bene.»
«Non dire stupidaggini sto benissimo, ho bisogno di un thè e sono apposto.»
«Un thè? Che te ne fai di un thè? Quello era un calo di zuccheri, andiamo a prendere un gelato, un panino, quello che vuoi, e mandiamo a fare in culo la palestra.»
«Io devo andare in palestra. Tu fai quello che ti pare.»
Marta tira fuori un tono sferzante, Antonio non lo sopporta, viene preso da un impulso d’ira fulmineo. Le afferra i polsi, la costringe con forza a sbattere la schiena contro la macchina. Marta si lamenta per il dolore, contrae i muscoli per cercare di divincolarsi, Antonio stringe la presa.
«Mi fai male, lasciami!»
«Lo senti adesso?»
«Che cosa?»
«Il dolore.»
«Sei impazzito, lasciami, mi fai male.»
«Ti faccio male, bene. Voglio che tu lo senta, questo è il dolore, quello fisico, quello vero.»
«Lasciami! Io non cerco proprio niente.»
«Se continui a fare cosi, a fare finta di mangiare. Lo trovi, stai tranquilla.»
«Vaffanculo. Che cosa vuoi? Non hai il diritto di parlarmi, tu non sai niente, non sei niente.»
Le sue ultime parole riescono a colpirlo, Antonio la lascia. Marta entra subito in macchina, Antonio prova a dirle qualcosa ma lei chiude lo sportello. Riparte un secondo dopo, da sola, lasciandosi Antonio alle spalle senza più voltarsi.
Alle cinque e mezza
Marta è quasi attivata alla fine, ha la fronte increspata da rivoli di sudore. La sua mente torna all'oggi.
Nella piccola palestra, illuminata dalla luce delle finestre grandi a favore del sole, gli unici tre tappeti rullanti sono di fronte ad uno specchio. Marta può così guardare tutta la gente che passa alle sue spalle. Lei non vorrebbe, lei odia quegli specchi.
La palestra le è comoda perché è piccola e frequentata da poca gente, ma quello che non sopporta, quello che le fa ribrezzo, quello che la costringe a portarsi al limite tutte le volte correndo sempre più veloce, è che è frequentata solo da ciccioni.
Ciccioni con la barba disordinata soli disperati. Ciccioni in gruppo, puntellati di brufoli, ridenti e urlanti. Ciccioni con la tuta rosa o gialla, osceni. Ciccioni che ovunque camminano strusciano, sempre più grossi dello spazio che occupano.
Anche ciccioni innamorati, che camminano tenendosi per mano oppure che si passano la scheda degli esercizi o l'asciugamani.
Nelle docce, Marta si sente soffocare dalla loro massa, non ha mai parlato con nessuno, non ha mai ascoltato i loro discorsi, anche se sempre vertono sul cibo, come mangiarlo, masticarlo, strabbuffarlo.
Il timer segna un minuto alla fine dell'allenamento, lei lo guarda attraverso le gocce che le scendono dalle ciglia. Si sente soddisfatta ce l'ha fatta anche oggi, tutto il resto può lasciarselo sommerso, ha superato il momento più difficile della giornata.
Intanto dietro di lei scorrono ciccioni in giro fra gli attrezzi, fra cui una coppia che tenendosi per mano, le sta passando alle spalle. Esattamente nell'istante in cui Marta poggia gli occhi sulle loro mani carnose, i due ciccioni si scambiano la bottiglia dell'acqua, con un gesto tanto affettuoso quanto naturale. Per Marta è un attimo.
Il tapis roullant scompare, lo specchio le sembra scivolare in basso e il tetto caderle sopra la testa, ma tutto resta fermo al suo posto, è lei che perde coscienza, cade a terra svenuta. Prima di abbandonarsi, vede molte pance incombere su di lei per soccorrerla, fra queste, per un istante, una ha il viso angolato di Atram col suo ghigno.
Alle dieci di sera.
Marta si trascina per casa. Le imposte chiuse, le luci spente tranne che l'abatjuor di finto vetro in camera di sua madre compongono il quadro decadente.
L’orologio sbiadito ha smesso di ticchettare il giorno in cui l’hanno portata di forza in ospedale, sei mesi fa. Da allora ha smesso anche di andare in palestra.
In ospedale è rimasta cinque mesi, l’hanno costretta i servizi sociali per imporle di mangiare.
Sono sei mesi che non ha più guardato sé stessa, non ha bisogno di guardarsi per sapere che ora è lo scheletro di quella che era un tempo.
Quando è uscita dalla camera asettica due dottoresse le hanno parlato in un ufficio, insieme all’assistente sociale. uQqqqqqqLe hanno detto che non ha più massa grassa e che non ha più massa magra. Lei qualche mese prima forse avrebbe capito, ora quelle parole sono suoni e nient’altro, le lasciano solo una sensazione opaca.
Marta sente che il corpo le sta mangiando lentamente ogni fibra. È cominciato dai muscoli tonici, sono spariti per primi, dove c’era una massa compatta ora ci sono sporgenze ossee. Poi la pelle, ha perso subito le freschezza e ha cambiato colore seccandosi in un giallo orrendo e poi ha cominciato a restringersi ad infossarsi tra le ossa. Adesso è un velo sottile adagiato al suo scheletro.
Dentro la sua testa si è innalzata una nebbia che le impedisce di arrivare ai pensieri di un tempo, ma che l’aiuta a ricacciare dentro ogni dolore.
Marta ora è arrivata in camera sua, si è seduta sul letto rifatto male. Sua mamma la chiama dalla stanza senza finestre. Marta la lascia chiamare per tanto tempo, tanto sa che non la sta realmente chiamando, è solo un riflesso involontario del suo cervello deteriorato. Ma quando si alza, la sente. Per la prima volta dopo mesi, il suono della sua risata le arriva travolgente e le scuote tutto il corpo, tanto che deve puntare le braccia sul muro per non cadere. È Atram, è ricomparsa.
Marta si sostiene con tutte e due la braccia alle pareti e striscia un piede davanti a l’altro con fatica, per uscire dalla sua camera da letto. Circondata dal suono stridulo di Atram, Marta si avvicina al bagno, per la prima volta dopo tutti quei mesi, guarda lo specchio.
L’incrinatura che aveva provocato col pettine, si è aggravata sempre di più formando trame più fitte. Da dietro quella rete deforme, Marta si vede ripetuta in molti spicchi, Atram le ride in faccia forte. Marta caccia fuori un urlo strozzato con la forza minima rimastale, l’immagine di Atram è terrificante. Non ha più capelli, la pelle è trasparente e non la si distingue più dalle vene viola che si diramano lungo tutta la sua estensione. Le risa mostrano i denti che non ci sono più, lasciando vedere una bocca nera dentro.
Marta non riesce a sostenere quella visione da incubo, vorrebbe farla tacere, farla sparire ma forze non ne ha più. Si avvicina tremando allo specchio, prova ad appoggiare le dita sulla superficie tramata ma sfiora una parte affilata, si taglia. Dalle sue dita, dopo alcuni secondi escono fuori gocce di sangue.
Atram ride di Marta; Marta è sopraffatta da Atram.
La nebbia nella sua mente cresce di intensità, Marta si trascina spostandosi a tentoni verso la camera di sua madre che ha smesso di chiamarla ed ha cominciato a cantare una ninna nanna. Atram continua a ridere spaventosa. Marta raggiunge il letto dove è sdraiata sua madre. Non ci sono mobili né sedie dentro la camera, l’abatjour, l’unica fonte di luce di tutta la casa, è appoggiata a terra. Marta abbandonata da tutte le forze si lascia cadere a terra. Sua madre è girata verso il muro le dà le spalle ed accarezza il lenzuolo, continua a cantare la ninna nanna mescolando la sua voce alla risata di Atram che si diffonde in tutta la casa. Marta è dentro il suo incubo, chiude gli occhi abbandonandosi al pavimento, lasciando che la nebbia a poco a poco si compatti sempre di più e la sottragga. Gianluca Bologna ha trent’anni, vive a Calenzano in provincia di Firenze. Toscano d’adozione, proviene dalla Sicilia. Č nato ad Alcamo, un paese della provincia di Trapani. Si č trasferito nel 2002 a Firenze, nel 2006 ha ottenuto la laurea in Fisioterapia. Un po’ presuntuosamente, a Gianluca piace definirsi figlio d’Arte. Il nonno, Mariano Melito, č un Poeta dialettale conosciuto e apprezzato a livello regionale. Come autore Gianluca ha pubblicato sempre per Sagarana il racconto Rullo e Oliviero. Ha compiuto anche lavori da sceneggiatore, per il cortometraggio Lusso, di cui č autore, e per l’episodio pilota di una webserie Double.
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