IL BRACCIALETTO Premio Walk On Rights, di Amnesty International. il secondo arrivato nella categoria Prosa e Poesia Sara Simoni
Ti osservavo di nascosto.
Non mi era difficile, io sono invisibile.
Ti vedevo parcheggiare il motorino (toglievi il casco, scuotevi i capelli, aggiustavi il maglione o la giacca). Guardavo mentre attraversavi la strada con lo zaino sulle spalle (ripetevi sottovoce qualcosa nei giorni d’esame, tutte le altre volte le tue dita volavano sui tasti del cellulare, agili come gazzelle nella prateria, ogni tanto salutavi un’amica). Facevo finta di non seguirti con gli occhi quando varcavi le porte dell’università (studentessa in mezzo a tante altre, ma solo tu con questa luce intorno).
Sparivi in questo posto dove la gente come me non poteva entrare; le aule, le biblioteche, le mense dell’università ti inghiottivano per ore, ti tenevano prigioniera e non c’era nulla che potessi fare per liberarti.
Allora pensavo. Mentre tentavo di abbordare tra un “ciao miss” e “ehi boss” gli altri studenti di passaggio, e ogni tanto mi capitava pure di assegnare a qualcuno un braccialetto di cuoio o un pacchetto di fazzoletti, non smettevo mai di pensare.
A ciò che avresti potuto fare in quel momento; al modo in cui ti tormentavi le mani durante l’esame, alle dita che giocherellavano con i capelli mentre studiavi, alla penna che scorreva sul quaderno durante le lezioni. Lo so, erano fantasie, magari non accadeva nulla di tutto questo, però io non lo potevo sapere ed era così che ti ricostruivo nella mia immaginazione.
Ragazzi e professori mi passano accanto ogni giorno, e per loro io sono un fantasma un po’ fastidioso; non mi vedono, né mi sentono. Le mie fantasie erano al sicuro, perché nessuno pensa che quelli come me abbiano sogni o fantasie.
Anche tu eri così.
Ma non te ne facevo una colpa. Si nasce dove si nasce, da una parte o dall’altra della barricata, e ci sono quelli che ignorano e quelli che vengono ignorati. Non pretendevo nulla di diverso da te. Eri una studentessa universitaria, e gli studenti ignorano queste creature scure, con berretti tutti uguali, che vendono oggetti tutti uguali, e alla fine diventano anche loro tutte uguali.
Mi sei passata accanto per anni.
Li ho contati. Sono stati cinque.
Di solito non faccio caso agli studenti. Viviamo in mondi diversi, quasi sovrapposti nello spazio, ma separati da una barriera elastica che ci impedisce di toccarci. Capita di scambiarsi qualche parola, chiedere il nome, talvolta ridere insieme, noi e voi. Ma è incanto di una manciata di istanti, illusione mobile e vana come una duna nel deserto.
Con te non speravo di spezzare le barriere. Non pretendevo di andare contro il mondo, di cambiare le regole non scritte della nostra (vostra?) società.
Solo i miei occhi, lo sguardo attento, ci hanno legati.
Uno sguardo non può essere una colpa. Gli occhi vanno dove vogliono; i nodi che stringono tra le persone sono esili e traballanti, non sono funi per scalare muraglie, né lacci per legare due anime.
Ma può bastare un’occhiata per lenire la solitudine di un cuore.
Forse non te ne sei mai accorta, ma avevamo quasi la stessa età. Perché parlo al passato? Non so dove sei, ma da qualche parte, in questo mondo strano, sarai. Dovrei dire che abbiamo quasi la stessa età. Il fatto è che, da quando sei uscita dal piccolo regno dei miei occhi, da quando non ti posso più vedere, l’impercettibile intersezione tra la tua esistenza e la mia è scomparsa. Tu sei scomparsa, per me.
Non te ne sarai nemmeno accorta.
Nessuno se n’è accorto. Non parlavo di te con nessuno, nemmeno con gli altri come me attorno all’università, anche se mi dava un po’ fastidio quando loro si precipitavano da te, quando entravi o uscivi dall’università, per piazzarti un oggettino. Vedevo come questa cosa ti innervosisse, e come poi cercassi sempre di evitarci tutti, anche me.
Non ti rendevi conto che me ne stavo in disparte. Non osavo avvicinarmi a te come facevo con tutti gli altri, perché non avrei sopportato le tue espressioni infastidite, le risposte secche che da parte degli altri studenti sono la routine. Non facevo mai un tentativo, anche se mi sarebbe piaciuto sentire la tua voce, per non sprecare il sogno.
Perché forse, se ti avessi visto arrabbiata, sarebbe finito tutto: la breve magia delle tue apparizioni nel mio campo visivo, te che prendevi vita nella mia fantasia, la ricerca di ogni dettaglio di te nei brevi istanti di vicinanza che ci erano concessi.
Era un gioco, perché non avevo il coraggio di chiamare l’amore con il suo nome.
Ti farebbe ridere, scommetto, se venissi io, con l’armamentario di gingilli e ombrelli da vendere e la mia faccia nera, uguale a quella di tutti gli altri come me, a parlare d’amore. Per voi, noi siamo uomini appiccicosi, magari sfruttati, poveri clandestini degni di pietà. Ma uomini innamorati?
Chissà la tua faccia se te l’avessi detto. Provo a figurarmela nelle albe assonnate di Milano, mentre giovani incappottati mi marciano accanto preceduti dalla condensa dei loro respiri.
Sono uno che viaggia troppo con l’immaginazione.
Ma, vedi, l’immaginazione è quella cosa che può scavalcare le muraglie e le barriere tra le persone; può fare quello che alla realtà, così goffa e dura, non riesce. Lei corre agile da un cuore all’altro, parla tutte le lingue del mondo; è forte come un leone e svelta come un ghepardo, e niente la può sconfiggere, nemmeno le vostre convenzioni, la vostra indifferenza.
E a me piace immaginare che quel braccialetto che hai comprato l’ultima volta che ti ho vista sia sempre con te, legato al tuo braccio come me al tuo ricordo. Ho stretto io il nodo vicino al tuo polso bianco, pregando sottovoce nella mia lingua che non si sciogliesse mai.
Tu mi hai sorriso distratta, mi hai lasciato l’euro e te ne sei andata; trionfante con la corona d’alloro e i fiori della tua laurea, e il mio braccialetto legato stretto. Sara Simoni è nata nel 1992. Frequenta la facoltà di Lettere all’Università degli Studi di Milano. Segue i corsi di scrittura creativa di Raul Montanari. Da sempre ama leggere e inventare storie; nonostante tutto quello che si dice in giro sul mestiere, da grande vuole ancora fare la scrittrice. Osserva la realtà che la circonda per trarne racconti, come è accaduto per “Il braccialetto”. Nel 2011 è tra i semifinalisti del Premio Campiello Giovani, mentre nel 2012 una suo racconto viene pubblicato tra i trentadue finalisti del Premio Chiara Giovani. Un suo racconto breve compare nell’antologia “365 racconti sulla fine del mondo”, a cura di Franco Forte.
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