CALPESTANDO UMANITà Premio Walk On Rights, di Amnesty International. La vincitrice nella categoria Prosa e Poesia Biancamaria Furci
Ci sono giornate in cui il cielo terso e indicibilmente azzurro (quei cieli che sembrano colorati con i pennarelli Carioca, ce li avete presente?) emana un tale fascino da non lasciare la possibilità della scelta. Bisogna uscire. E’ un imperativo fisiologico, un bisogno ancestrale di riunirsi con la terra e le cose tutte. A Genova poi (aveva ben donde Petrarca di chiamarla “La Superba”) tale bisogno categorico coincide con il magnetismo, a tratti grottesco a tratti materno, dei nostri vicoli. La voglia di perdersi e riscoprirsi nelle strette viuzze, nella claustrofobia mistica degli squarci di sole che fanno timidamente capolino dalle punte dei palazzi scoloriti, nei muri che trasudano storia e parlano giorno e notte raccontando storie di ribellione, di “mugugno”, di resistenza e orgoglio. Dicevo, appunto, oggi è una di quelle giornate. Una di quelle in cui non scrivo, una di quelle in cui esco perché la vita mi chiama. Oggi voglio osservare il mio mondo come un’aliena, per cercare di capirlo.
Articolo 1
“Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire in uno spirito di fraternità vicendevole.”
Alla fermata dell’autobus sotto casa mia c’è un uomo che è entrato di testa nel bidone della spazzatura, è rimasto incastrato e le sue gambe si muovono scalciando nell’aria in maniera sincopata, tira calci più forte che riesce con le scarpe distrutte dalla suola parzialmente staccata, l’alluce sbuca da un calzino grigio, cerca di liberarsi da quella posizione innaturale, cerca di liberarsi lui mentre gli altri intorno cercano di liberarsi dall’imbarazzo. Ci sono molte persone ai giardini e certo lo hanno visto e sentito ma si ingegnano in mille modi pur di non guardarlo. Testimoni volontariamente impotenti di una vicenda piuttosto semplice: c’è un uomo incastrato in un bidone, qualcuno dovrebbe farlo uscire di lì. Ma tutti aspettano qualcuno e intanto non si muove nessuno. Mi avvicino con aria risoluta ma ormai l’uomo è libero. Esce dal bidone con un’agile spinta di reni e si incammina soddisfatto. In mano ha il bottino, il frutto del suo duro lavoro: un cartone con della pizza avanzata.
Articolo 3
“Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della sua persona.”
Entro nel tabacchino e incontro un mio caro amico. Gli chiedo come procedono le cose. Si scurisce in viso e mi racconta che l’altra sera lui e la sua ragazza sono stati aggrediti verbalmente in un bar, che non trova lavoro da nessuna parte e il padre lo ha cacciato di casa. Tutto questo per colpa della sua “condizione”. Sì, perché il mio amico oggi si chiama Antonio e ha la barba, quando è nato però si chiamava Jessica e sua madre voleva che diventasse una ballerina di danza classica. Ad Antonio la danza non è mai piaciuta, non gli sono mai piaciuti i maschi e non gli è mai piaciuto il suo corpo. Oggi ha fatto pace con se stesso ed è orgoglioso del suo percorso, ma il resto del mondo non riesce ad accettarlo, non riesce a capirlo questo “errore della natura”. Loro volevano fosse una ballerina.
Articolo 7
“Tutti sono uguali di fronte alla legge ed hanno diritto - senza distinzione - ad un'eguale protezione contro qualsiasi provocazione ad una simile discriminazione.”
Decido di prendere l’autobus, l’ho sempre trovato un ottimo luogo per portare avanti uno studio antropologico. Dopo qualche fermata salgono due controllori. Un ragazzo africano sulla trentina cerca di parlare in maniera pacata con il controllore (che chiaramente il controllo l’ha perso). Mi avvicino spinta dalla curiosità e riesco a capire che il biglietto del ragazzo è scaduto. Via al tumulto. Colgo alcuni commenti: “Vengono qua e si credono a casa loro, si credono di poter fare quello che vogliono” e “E’ per loro che il nostro Paese va a rotoli” e ancora “Un tempo non sarebbe nemmeno salito sull’autobus uno come lui”. Frecciate d’odio scoccano dai dardi dell’ignoranza e colpiscono là dove sanno di poter attecchire. Il controllore prorompe con un: “Giù dall’autobus, negro.” Ora sono io che non posso trattenermi. Non mi comporto da persona civile. Urlo. Urlo contro il controllore, urlo contro i passeggeri. Almeno ora stanno zitti. Ma dura poco, io vengo esortata a scendere dall’autobus e il ragazzo si becca la multa. Mentre me ne vado riesco a sentire le ultime parole del controllore: “Il biglietto è scaduto da esattamente tre minuti e mezzo”.
Articolo 12
“Nessuno sarà oggetto di ingerenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, né di lesioni al suo onore ed alla sua reputazione. Ogni persona ha diritto alla protezione della legge contro simili ingerenze e lesioni.”
Decido di fare una piccola deviazione per poter osservare il mare. Il porto mi ha sempre affascinata: chi scappa chi torna chi sogna chi va chi viene, popoli che si mescolano storie che si sovrappongono e in sottofondo il vociare del mare, il lento fruscio della risacca le risa dei gabbiani l’acre odore della salsedine i fischi del vento. Passo davanti allo stand di un partito di estrema destra davanti cui stazionano dei ragazzi. Commentano con boria una notizia del giornale: c’è stata un’aggressione al campo nomadi, un gruppo non meglio identificato ha dato fuoco ad alcune baracche, minacciato e picchiato alcuni rom e rubato il poco denaro trovato. Si dichiarano insoddisfatti dell’azione. Motivazione? Nessun morto. Mentre mi allontano allibita riesco a cogliere le parole di uno di loro: “Va bene anche così ragazzi. Dai che li schiacciamo”. Quasi esortato da quest’ultima affermazione sbuca dalla crepa di un muro un piccolo scarafaggio. Mi guarda con aria perplessa. Oh meglio, lui sta lì e io immagino mi stia guardando con aria perplessa. Non so che dirgli. Io non riuscirei a schiacciare nemmeno lui.
Articolo 23
“Ogni persona ha diritto al lavoro, alla libera scelta del suo lavoro, a condizioni eque e soddisfacenti di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione”
Avvicinandomi al porto mi rendo conto che è in corso una manifestazione della Fincantieri. Gli operai che alternano la cassa integrazione al lavoro in maniera discontinua e incerta attendendo la propria “sentenza” stanno occupando le strade per ribadire la loro rabbia. Sono anni che questa storia va avanti. Io lo so bene perché mio padre è un metalmeccanico ed è uno di loro. Mentre lo cerco con lo sguardo sento che dal megafono un operaio sta urlando che per dare da mangiare ai suoi bambini sarà costretto a rubare. Mi giro e, provvidenziale in maniera cinematografica, leggo una scritta sul muro di un centro sociale. E’ un pezzo di una canzone di Fabrizio De Andrè: “Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane. Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”.
Articolo 28
“Ogni persona ha diritto a che, sul piano sociale e su quello internazionale, regni un ordine tale che i diritti e le libertà enunciate nella presente Dichiarazione possano trovarvi pieno sviluppo.”
La mia passeggiata si conclude a De Ferrari, nella piazza principale della città. Mi siedo su un gradino e pondero su tutto ciò che ho visto. Sono talmente assorta in questa meditazione da non accorgermi che accanto a me c’è un signore sulla sedia a rotelle, non riesce a entrare nel Palazzo Ducale perché la rampa di accesso è rotta. Mi precipito ad aiutarlo, gli propongo di fare con la carrozzina i gradini, dovremmo farcela. Lo rassicuro spiegandogli che mia sorella ha la spina bifida ed è sulla sedia a rotelle, so quel che faccio. Mentre lo aiuto mi racconta frustrato delle mille difficoltà che ha quando vuole uscire di casa: macchine posteggiate sui marciapiedi, strade sconnesse, gradini come ostacoli insormontabili. Con gli occhi lucidi mi ringrazia, sono la prima ad offrirgli un aiuto non pietoso.
Dopo oggi mi sento più aliena di prima. Ma percepisco una spinta alla vita che salverà la nostra specie. E proseguo per la mia strada, osservando chi calpesta umanità.
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