LO SCIACALLO MARSICANO Srećko Jurišić
A Šaban Bajramović,
ottimo cantante,
pessimo giocatore d’azzardo.
In eterna memoria.
1.
Nivardo Panzavolta sostiene che la cosa non s’ha da fare. Jolando Abbondanza dice che sono cazzate perché la cosa è già fatta, bisogna solo raccogliere i frutti. Anna tace, lei è bella e intelligente e pondera. I vetri della Mercedes sono leggermente appannati e nell’abitacolo a tratti c’è un silenzio teso. Jolando Abbondanza abbassa il finestrino per prendere un po’ d’aria. Quest’ultima si direbbe frizzante. Nivardo fa:
«È questa cazzo di macchina che porta sfiga, mi ci gioco le palle. Andare in giro con un carro funebre…»
Jolando:
«Sei un ebete. Senza questa macchina manco ci facevano passare. Se ti presentavi nel cuore della notte con un qualsiasi altro mezzo a un posto di blocco, non ti facevano passare. Passano solo ambulanze, pompieri, polizia e carri funebri. Senti che dice la radio, quanti morti ha fatto…»
«Non c’è la radio. Questo è un carro funebre… Che ore sono?»
Risponde Anna: «Sono quasi le cinque».
«E quando ha fatto il terremoto?»
«Saranno state le tre e mezza…»
«È più di un’ora che stiamo qui. Dobbiamo darci una mossa sennò fa giorno e arrivederci e grazie. Domani arriveranno soccorsi da mezzo mondo, cominceranno a scavare… Finché sono tutti ammucchiati al centro e finché sono pochi, ce la possiamo fare. Domani sarà pieno...»
«Che si fa allora? Si va lo stesso?»
Jolando:
«Secondo me bisogna andare. Tu, Anna, che ne pensi?»
«Andiamo».
Jolando Abbondanza accende il motore e avanza cinquecento metri nel buio pesto, piano, come solo un carro funebre con le mezze marce sa fare. Ferma la macchina in mezzo alla strada per evitare che qualche pezzo di casa cada loro addosso.
Si trovano davanti all’edificio del BRA, Banco Regionale d’Abruzzo. L’edifi cio è parzialmente distrutto. Il pianterreno si è sbriciolato sotto il tonfo del primo piano che ora lo sostituisce.
Lo stabile pende verso sinistra al punto che la torre di Pisa gli fa una sega a presa inversa, è appoggiato al condominio accanto.
Tutto è illuminato da una luna da favola.
«Eccoci qua. Scendiamo».
Scendono e si piantano a gambe larghe davanti al palazzo, in posa. Due uomini in abito nero, camicia bianca, cravatta nera e una bella femmina in tailleur nero. Sirene e grida in lontananza e scosse di assestamento a profusione. Nivardo si rende conto che la guardiola del guardiano notturno era al pianoterra e che il pianoterra adesso è sottoterra:
«Ecco perché Fofò non risponde al cellulare... Pace all’anima sua…»
«E a noi la parte sua» dice cinico Jolando Abbondanza. «Entriamo dentro prima che caschi tutto».
In quel momento la terra trema ancora. Una scossa breve ma intensa. Crollano pezzi dal palazzo del BRA e dalle finestre escono nuvole di polvere. Abbondanza bestemmia e Anna, bella e intelligente, dice una cosa piuttosto ovvia:
«L’ufficio è al quarto piano. Le scale sono andate, di ascensori non se ne parla… di qui non possiamo entrare…» «E come pensi di fare?» chiede Jolando Abbondanza che spera in un suo colpo di genio.
«Da qui non possiamo entrare, ma di là sì» dice l’attraente femmina indicando il condominio accanto alla banca. «Quello regge».
Ha ragione. Jolando sorride, Nivardo pure. I due uomini tirano fuori le torce ed entrano dentro. Anna rimane ad aspettare in macchina.
2.
Il condominio in effetti non sembra così pericolante. Non c’è anima viva e le porte degli appartamenti sono aperte. Calcinacci e roba varia sparsa per le scale. Al quarto piano individuano l’appartamento che dà sulla banca. Entrano, con circospezione da sbirri. Nivardo Panzavolta molla una scorreggia e sorride a sottolineare l’episodio scatologico. Jolando Abbondanza lo guarda male ma lui non se ne rende conto perché è buio.
Passano per il corridoio e scostano la porta di una camera da letto. La finestra della camera è a mezzo metro da quella della banca. Nivardo passa la torcia a Jolando e sale sul bordo della finestra. Con un balzo passa nella banca. Jolando Abbondanza si mette la torcia in bocca e lo segue.
L’ufficio del direttore è pieno di calcinacci e la parete che lo divide dall’anticamera è venuta giù. Il tavolo della segretaria è attaccato a quello del direttore ed entrambi sono attaccati alla finestra a causa della pendenza del palazzo. L’Abbondanza e il Panzavolta passano sui tavoli e toccano il pavimento con il timore che venga giù.
Illuminano la stanza con la torcia.
«Cerchiamo il bagno» fa Abbondanza.
«È ’na parola…»
3.
Giù in strada, Anna siede in macchina, e pensa. Prima pensa a come qualche anno addietro si era invaghita di un maschio fascinosissimo che però non piaceva a sua madre perché di origini zingare.
Il maschio era bello come il sole e lei lo amò con passione e sentimento, con anima e corpo, brevemente e intensamente, prima di perderlo di vista. Poi Anna pensa a come l’aveva rivisto anni dopo in maniera del tutto casuale, a casa di amici. Gli anni e le esperienze ne avevano accresciuto lo charme tzigano e le zampe di gallina, e lei ci aveva giaciuto nuovamente per dare una scossa al suo tran tran da trentacinquenne. L’homme fatale portava dei baffi
sottili e la riga di lato e di nome faceva Jolando Abbondanza. Un elicottero sorvola il carro da morto con Anna dentro. Lei lo segue con lo sguardo e guarda l’orologio. A tratti le pare di vedere della luce al quarto piano della banca. Jolando e Nivardo sono dentro, evidentemente. Dunque, Jolando Abbondanza era tornato nella sua vita e lei l’aveva accolto a braccia e a gambe aperte. Stando con lui aveva compreso, o credeva di aver compreso, la sua componente zingara, ovvero la capacità di guardare ogni cosa da un’angolazione drasticamente diversa da quella comune e nel fare all’amore a ritmo di musica balcanica. Tale forma mentis così radicalmente anticonformista, lei, borghese, l’aveva fatta propria al punto da vedere persino il proprio lavoro in banca in maniera completamente differente. Una su tutte, aveva cominciato a riflettere sul fatto che quello dove lavorava da 11 anni, ogni giorno, week-end esclusi, era un palazzo vecchio e mal protetto e con un sacco di soldi dentro. Era una constatazione vaga la sua, che l’accompagnava nei momenti di stanca mentre era al lavoro. Poi un giorno per caso aveva visto il direttore che travasava diamanti da scatolette in sacchetti e viceversa, la porta era socchiusa e lei non aveva bussato né tantomeno era entrata. Aveva capito che non c’era bisogno di ingegnarsi superomisticamente per aprire il caveau nei sotterranei. Il caveau era a cinque metri da lei. Lei, la segretaria fi data del direttore. S’era messa dunque ad osservare, attraverso il buco della serratura, attraverso le porte socchiuse.
Una volta alla settimana, il lunedì, il direttore arrivava in ufficio e travasava diamanti e poi il venerdì sera li travasava di nuovo e li portava via.
Né lei né Jolando Abbondanza fumavano, ergo, nel doposesso, erano soliti parlare assai. Durante uno di quei momenti Anna gli parlò, quasi per celia, della cosa. Se non altro per apparire ricca di contenuti a cospetto di un uomo che ne sapeva tantissime e che era ottimo conversatore. Jolando l’ascoltò a pene semiturgido, senza dire niente.
Un giorno e mezzo dopo, davanti a un Martini bianco, fu lui a parlare e le disse le seguenti cose:
«In verità io ti dico che è chiaro che il tuo direttore in banca non fa solo affari della banca. Il fatto che non li tenga nel caveau significa che quei diamanti non hanno niente a che fare con
la banca. Se i diamanti vanno e vengono vuol dire che l’ufficio gli serve da nascondiglio, per parcheggiarli per un certo periodo di tempo. Che ci fa dopo lo devi chiedere a lui. Una cosa è certa, quello che fa lo fa all’ingrosso: se travasa pietre preziose come se fossero fagioli e non le conta una ad una, e lo fa settimanalmente, vuol dire che gira tonnellate di quella roba».
Anna sorrise divertita dall’incipit biblico di Jolando e continuò:
«Se non li conta gliene prendiamo un po’».
Jolando sorrise anche lui:
«Dove mette i diamanti esattamente?»
«Sul tavolo c’è una statuina del Guerriero di Capestrano, sai quella specie di simbolo d’Abruzzo dai fianchi larghi. Gli leva il cappello e mette dentro il sacchetto con i diamanti».
«Mette il sacchetto in una statua e basta?»
«Sì».
Jolando manda giù un sorsetto di Martini.
«Si sente proprio sicuro allora. Nessuna precauzione, niente. Si vede che lo fa da un sacco di tempo…»
«Già».
4.
Quella che era stata un’alternativa colloquiale da doposesso prima, un interessante argomento di conversazione poi, si stava trasformando in un buon proposito per l’anno nuovo. La bozza era lì ma ci voleva una mente criminale ausiliare.
Nivardo Panzavolta era in quel senso un cranio privilegiato, e non solo per la morfologia della calotta cranica che ricordava vagamente un uovo di struzzo. Faceva il panettiere ma prima ancora si era congedato dall’esercito dopo essersi fatto le missioni di pace in Bosnia, Afghanistan e Iraq per circa cinque anni complessivi.
Tre di questi insieme all’Abbondanza.
Gli anni in cui i due avevano operato congiuntamente e in singolare sinergia erano stati anni dalla cabala curiosissima. In quei tre anni, tre volte era scomparsa la magna pars degli stipendi
del contingente italiano per un totale di circa tre milioni di euro. Soldi mai ritrovati, nessun arresto con la conseguente insabbiatura da parte dello Stato maggiore dell’Esercito italiano.
La guerra, si sa, costa. L’unico elemento comune alle tre occasioni criminali era la presenza del tenente colonnello Jolando Abbondanza, di Pescara, Abruzzo, e del sergente Nivardo Panzavolta, suo concittadino e corregionale.
La terra trema ancora. Dalla casa s’ode uno sparo che interrompe i pensieri di Anna.
5.
Nell’ufficio del direttore, quattro piani più in alto, la situazione è la seguente: al centro della stanza c’è Piscione Alfonso detto Fofò Lu Dijavole, guardia giurata, che, con la pistola d’ordinanza ancora fumante, punta contro Nivardo Panzavolta e Jolando Abbondanza, ambedue a braccia levate. La torcia sta rotolando verso la parte inclinata della stanza illuminando la scena in maniera psichedelica. Fofò Lu Dijavole ha la testa spaccata da qualche parte perché sanguina copiosamente. L’orecchio destro gli penzola sulla spalla. Zoppica.
«Pensavate che fossi morto? Merde. Pensavate che fossi rimasto sotto le macerie. E invece no, sono vivo e incazzato».
«Perché mai, Alfonsì?» dice Jolando Abbondanza con flemma irritante.
«Zitto tu, zingaro di merda! C’era da immaginarselo che a fare affari con uno zingaro andava a finire così. Vi serviva la bassa manovalanza, a voi e alla vostra puttana. Qualcuno che vi aiutasse a realizzare il vostro piano geniale, qualcuno da fregare quando non sarebbe servito più. Io ero l’unico che poteva farlo senza alcun sospetto. La puttana come tutti gli impiegati che hanno accesso ai piani alti viene perquisita all’ingresso e all’uscita, io no».
Il palazzo si muove un po’ e i tre si cagano sotto. L’Abbondanza e il Panzavolta fanno per abbassare le braccia.
Fofò Lu Dijavole incalza:
«N’n ce penzà. Quant’è vere lu monde v’ammazzo come cani. Mani in aria».
Abbondanza:
«Stai commettendo un grosso sbaglio. Nessuno ti voleva fregare. E nessuno poteva prevedere che ci sarebbe stato il terremoto. Ragiona, cazzo. I terremoti non si possono prevedere».
«Ti ho detto di stare zitto, zingaro di merda. Io non sono l’esercito che mi puoi fregare, i’ ti facce lu cule».
Panzavolta:
«Porca puttana Fofò, qua crolla tutto. Prendiamo i diamanti e leviamoci dalle palle. Ci spari dopo».
«Questa è una banca. Le banche mica crollano così, le banche sono sicure. E poi lo vedi l’amichetto zingaro, qui? Beh, lui è la nostra garanzia contro il crollo del palazzo. Gli zingari sono come i topi: se la nave affonda, scappano. Siccome lui è qui con noi, vuol dire che il palazzo non crollerà».
Appena Fofò Lu Dijavole mette il punto al suo sillogismo filante, il pavimento sotto i suoi piedi cede clamorosamente e la sua persona fi sica scompare nel buio polveroso. Determinismo sismico:
Artabano Santone, il bisnonno di Fofò, era perito nel funesto terremoto di Avezzano, precisamente 94 anni prima. Jolando Abbondanza e Nivardo Panzavolta si guardano basiti. Poi, senza verbo proferire, il primo va verso quello che crede essere ilbagno. Nel bagno cerca il lavandino.
6.
Il sifone fa parte dello scarico del lavandino e svolge un importante compito di isolamento per i cattivi odori. Lo scarico dei lavandini, delle docce, delle vasche, è composto da due parti: la piletta ed il sifone. La piletta è la parte che va fissata al foro del lavandino e consente di raccordarlo al sifone e quindi allo scarico. Esistono diversi tipi di sifone: a bottiglia, a collo d’oca, a pozzetto ecc. Tutti comunque presentano un serbatoio o un’ansa in cui si raccoglie un po’ di acqua che, facendo da tappo, impedisce la risalita dei cattivi odori dalle fogne.
Oltre all’acqua, nei sifoni si possono raccogliere detriti o oggetti caduti nel lavandino, per questo motivo quasi tutti i sifoni hanno un tappo, o simile, che può essere svitato per la pulitura. Quando un qualche oggetto, mettiamo un diamante di piccole dimensioni, cade nello scarico, se il flusso d’acqua non è frequente e abbondante, lo ritroverete nell’ansa del sifone.
I sifoni dei sanitari da bagno sono agili e tipicamente in ottone cromato mentre quelli dei lavelli della cucina sono in plastica. I sifoni dei lavelli sono classicamente a bottiglia dunque più grandi ed ingombranti, ma raccolgono bene i residui di cibo o oggetti accidentalmente caduti, mettiamo diamanti di piccole dimensioni. Per recuperarli basta svitare e svuotare la calotta.
Jolando Abbondanza si accinge a compiere proprio questa operazione. Smonta la calotta del sifone a bottiglia che, in un turno di notte di circa un anno fa, Fofò Lu Dijavole aveva sostituito a un sifone da bagno poco capiente. Nel buio riesce a vedere il brillio dei diamanti contenuti nella calotta, gli stessi diamanti che Anna, in numero di uno o due alla volta quasi ogni giorno per un anno, aveva sottratto dalla statua del Guerriero di Capestrano dell’uffi cio del direttore e distrattamente lasciato cadere nello scarico del lavandino. Tomo tomo, cacchio cacchio. Vuota il contenuto della calotta in un sacchetto di velluto nero e se lo infila nella tasca sinistra della giacca.
«Fatto» dice e s’alza in piedi. Si ritrova faccia a faccia col sorriso tondo della canna della Glock 45 di Nivardo Panzavolta. È allibito e sconcertato dalla peculiare piega degli eventi.
7.
Panzavolta:
«Adesso, da bravo, dammi il sacchettino».
«Cazzo fai, Nivà?»
«Dammi il sacchettino, non farla difficile».
«Abbiamo sempre lavorato insieme, che ti prende mò?»
«Sì, ma tu prendevi il 60 e io il 40 per cento. Ora ci mettiamo a pari».
«Non fare cazzate, Nivà. Sai benissimo che io rischiavo di più perché avevo il grado più alto e sai anche che non ci hanno mai beccato proprio perché non facevamo puttanate come questa.
Sempre uniti, ricordi?» «Ho come un vago ricordo, sì. Io mi tengo i diamanti e tu ti tieni la tua donna con cui mantenere in forma gli addominali bassi da fornicatore incallito e poi guarda per terra, lì vicino al tavolo».
Jolando Abbondanza guarda.
«So’ diamanti, Jolà. Il culo della statuina era pieno. Di chiunque siano quei diamanti, se la prenderà col direttore che se la prenderà col terremoto. Quindi nessuno darà a voi la caccia. Sei a cavallo. E se vuoi farla proprio perfetta, raccogli quel bossolo lì, raccogli il corpo di Fofò, te lo metti nel carro funebre e via. I proprietari dei diamanti crederanno che sia stato Fofò a fregarli. Cercheranno un morto...»
«Grazie dei consigli, ma sai benissimo che non è questo il punto».
«Sì, lo so. Hai troppi principi per essere uno zingaro. Tira fuori il sacchetto, e, ti prego, solo quello. So che sei bravo a sparare, ma hai già una pistola puntata contro e vincerei io. In che tasca hai messo il sacchetto?»
«Destra».
«Quindi mano destra nella tasca destra e tiralo fuori piano piano».
Dal momento che la supposizione è la madre d’ogni inculatura e dal momento che il sacchetto l’ha messo nella sinistra, dalla tasca destra Jolando Abbondanza tira fuori una Heckler & Koch e spara a Nivardo Panzavolta nella guancia destra con molta delicatezza. Nivardo Panzavolta non preme nemmeno il grilletto. Un rivoletto di sangue scuro gli cola lungo la guancia.
Cade prima in ginocchio e poi giù, di faccia. Jolando Abbondanza lo fa rotolare con il piede nel buco in cui è scomparso Fofò Lu Dijavole, un attimo dopo sente il tonfo. Vuole dedicargli una frase ad effetto come si fa nei fi lm, ma non gli viene niente.
Via la pistola, Jolando raccoglie i diamanti sparsi per terra e se li mette in tasca, non tutti. Ne butta una manciata appresso ai due cadaveri, per fare scena: due ladri litigano per il bottino e s’ammazzano. Promemoria mentale: ricordarsi di cancellare le impronte, raccogliere il bossolo di Fofò e scendere giù per sostituire la propria pistola alla sua onde evitare che la polizia dalla pallottola nella guancia del fu Panzavolta risalga a una terza pistola e in un qualche modo al suo proprietario ovvero l’Abbondanza.
8.
Jolando Abbondanza, il maschio fascinoso dal sangue gitano e dai baffi sottili compie le sopraccitate operazioni con disinvoltura e rapidità da professionista, senza che la perfetta riga nei capelli si scomponga (vedi gli stipendi dei soldati trafugati dalla base Nassirya nella pancia di un maiale macellato, vedi gli stipendi dei soldati italiani portati via un una cassa di proiettili da mortaio appena fuori Mostar, in Bosnia, vedi le armi made in Italy vendute ai talebani). Dà un ultimo sguardo all’ufficio. Le impronte dei piedi sono di tre persone. Sale sul tavolo e con un calcio rovescia la poltronissima del direttore. La poltrona cade, la polvere si alza e ricopre tutto.
Jolando Abbondanza passa nel condominio adiacente con il balzo felino dell’andata e ripercorre il medesimo tragitto all’inverso.
Si toglie la polvere dalla giacca. Esce dal portone tenendo la mano destra in tasca, sulla pistola, perché non si sa mai e perché il mondo è pieno di ladri.
La luna perfettissima è ancora lì che illumina la città dell’Aquila parecchio distrutta. In fondo alla strada vede accendersi due fari.
Il carro funebre gli viene incontro. Al volante c’è Anna. È preoccupata.
I due spari si sono mimetizzati tre le grida, i pianti ed i tonfi che s’alzano nel buio tra le strade attorno, ma non abbastanza.
Le sorride per tranquillizzarla e perché sa che le piace il suo sorriso contornato dai baffi alla Clark Gable.
«Tutto bene?» fa lei.
«Sì» risponde lui con un tono di voce charmant.
Anna è bella e intelligente per cui non c’è bisogno di aggiungere altro.
Jolando Abbondanza prende il posto di Anna alla guida. Si sistema la cintura di sicurezza. Poggia la pistola tra le gambe. Fa un respiro profondo. Una vecchia si materializza nel fascio di luce dei fari. Indossa una vestaglia lacera, è ricoperta di polvere ed è distrutta. Sembra un fantasma che cerca qualcosa. Uno zombie. Grida nomi, cerca gente. Anna guarda la vecchia che si avvicina, poi guarda Jolando Abbondanza.
«Aiutatem’. Andò sta? Aiutatem’ a trovarl’! Ce l’avete voi mio marito? L’avete trovato voi? Sta dentro al carro?» dice la vecchia con le mani tra i capelli.
Lo tzigano guarda Anna, poi guarda la vecchia che con le mani lascia impronte di polvere sul finestrino. Si gira all’indietro. Innesta la retromarcia e dà gas. Anna vede la vecchia perdersi nel buio mentre continua a cercare tra le macerie. Il suo vociare si fa indistinto e la sua fi gura si scontorna. Deve stare attenta, pensa, perché le scosse non smettono. Racconto tratto dall’antologia “Trema la terra”, AAVV, Neo Edizioni, Castel di Sangro, AQ, 2010. Srećko Jurišić - Classe ’79, dalmata di nascita, abruzzese d’adozione, ha all’attivo una dozzina di racconti pubblicati in antologie e riviste. Insegna Letteratura Italiana all’Universitŕ di Spalato e questo gli impedisce di scrivere una nota biografica divertente. Č poligamo e vive su un’isola croata con due compagne e un figlio di sei anni. Il suo sogno nel cassetto č intervistare Gheddafi , scrivere un romanzo-fiume su Berlusconi, riscrivere la Bibbia e pubblicare tutto con la Neo Edizioni. Per la Neo Edizioni ha scritto “Enrichetto dal ciuffo” nell’antologia E morirono tutti felici e contenti (2008).
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