ZOMBI Brano tratto dal romanzo L’abisso Gianluca Morozzi
Nella fauna di professori anonimi o stereotipati del secondo anno – la vecchia acida di latino, la giovane carina di filosofia, il simpatico compagnone di matematica – spiccava un insegnante di religione fisicamente identico a Carlo Mazzone‚ celebre allenatore di squadre di calcio.
Il sosia di Carlo Mazzone non ce la menava tanto con le virtù teologali, i peccati capitali, i sacramenti. Ci parlava di droga e ci diceva cose tipo: «Se sentite il bisogno di toccarvi fatelo pure e non preoccupatevi, alla vostra età è normale». Tutti noi, entusiasti, eseguivamo con una certa convinzione.
Nella gita di classe a Roma, a primavera, l’accompagnatore era stato il nostro sosia di Mazzone. L’ultima domenica pomeriggio della mia prima incarnazione l’avevo passata sulla via dei Fori Imperiali, con Drugo e Scaglia impegnati a urlarmi dietro Zombi o finocchio a seconda degli umori. Più tardi, la radio di Scaglia ci aveva informati della vittoria del Bologna contro il Padova. Scaglia e Drugo avevano innalzato al cielo le loro canzoni da stadio, io li avevo ammirati a distanza con un sorrisetto contento, senza avere il coraggio di partecipare.
La spartizione serale nelle camere si era svolta per selezione naturale. Cioè, Scaglia e Drugo insieme, i tossici con i tossici, gli sfigati con gli sfigati. Io ero stato accoppiato al Ticchettaro. Sospettavo che le ragazze non ci avrebbero invitati al gioco della bottiglia nelle loro stanze, per qualche oscura e incomprensibile forma di ostracismo.
Alle undici di sera, dopo aver sbattuto freneticamente le palpebre a ritmo di samba, il Ticchettaro le aveva chiuse e si era infilato sotto le coperte. Avevo sbadigliato pronto ad imitarlo, quando avevo sentito delle urla, giù, in strada. Mi ero affacciato al balcone. In strada c’erano due ragazze nere mezze nude che stavano litigando con il direttore dell’albergo, gridavano, indicavano una finestra.
Avevo osservato la scena dall’alto per un po’. Poi, seguendo un istinto inusuale per una mente computerizzata come la mia – un segno del destino? – ero uscito dalla stanza senza svegliare il Ticchettaro. Un po’ per curiosità, certo, e un po’ per vedere da vicino le due ragazze mezze nude. Va bene essere un quindicenne troppo intelligente per stare in sintonia con l’universo, ma un quindicenne senza amici non è un quindicenne senza ormoni. Sintonia o non sintonia con l’universo.
Così ero scivolato furtivo nel corridoio dell’albergo. Dalla camera dei tossici filtrava un odore tipo rosmarino. Dalle camere delle ragazze uscivano sghignazzi e gridolini. Ci saranno Scaglia e Drugo che fanno gli asini, avevo pensato.
Avevo sceso le scale, mi ero fermato a sbirciare nella hall e, sorpresa, Scaglia e Drugo non stavano molestando le ragazze.
Scaglia e Drugo erano presi in mezzo tra il direttore dell’albergo, il nostro professore sosia di Carlo Mazzone, e le ragazze seminude.
Le ragazze sbraitavano infuriate. A quanto si poteva capire dal loro precario italiano, qualcuno le aveva bombardate da una finestra con le marmellatine della colazione. Il nostro sosia di Mazzone‚ paternamente‚ teneva le mani sulle spalle di Scaglia e Drugo. Cercava di farli confessare con calma e pazienza. «Ragazzi» diceva «le signore hanno indicato la vostra finestra.
Siete stati voi a prenderle di mira, probabilmente per gioco‚ immagino. Perché negate?», e Scaglia, con faccia tosta spaventosa «Guardi che le signore si sbagliano, forse hanno visto male, magari si sono confuse con la finestra del piano di sopra».
Il direttore aveva sbottato «Ma no, ma no, al piano di sopra ci sono due francesi di ottant’anni», e Scaglia «Be’, che vuol dire, magari hanno avuto una crisi senile». Il nostro sosia di Carlo Mazzone aveva soffocato un risolino. Aveva dovuto fare uno sforzo per riassumere l’aria del padre severo.
Alla fine le ragazze se n’erano andate smoccolando metà nella loro lingua e metà in italiano, il professore si era scusato con il direttore, aveva rispedito Scaglia e Drugo in camera con mille raccomandazioni. Scaglia e Drugo avevano salito le scale pigramente, ghignando piano.
«Oh, Scaglia» aveva ridacchiato Drugo a metà scala «cazzo, ma hai visto che bocce c’avevano quelle due? Oh, adesso mi tiro una sega e poi vado dalle ragazze e mi faccio fare una pompa dalla Spigarelli».
«Io mi faccio fare una raspa da quella vacca della Ferrari» aveva detto Scaglia. «Le metto un cuscino in faccia e le tengo libere solo le mani».
«Oh, l’hai vista l’edicola notturna dall’altra parte della strada?
Ha un casino di giornalini porno! Rubiamo un giornalino da portare alle ragazze!»
«Scaglia, porca troia, come facciamo? Se il prof ci becca a uscire, stavolta ci fa il culo quadro».
E in quel momento, avevano visto me.
Fermo in cima alle scale, come un cervo accecato dai fari di un fuoristrada. Scaglia mi aveva guardato torvo. Aveva detto «Oh, cazzo fai, Zombi? Guarda che quelli che vanno in giro di notte non sono mica gli zombie‚ sono i vampiri».
Drugo aveva ridacchiato «Oh, Zombi, hai lasciato il tuo fidanzato a farsi le raspe da solo? Vai a dargli una mano, va’». Io avevo ancora negli occhi i seni delle due ragazze mezze nude. A sentirmi chiamare Zombi ero atterrato di nuovo nel mondo, avevo sbattuto un paio di volte le palpebre e avevo mormorato «Torno in camera, torno in camera, torno in camera
subito». Avevo fatto per voltarmi.
Scaglia e Drugo avevano avuto lo stesso pensiero nello stesso momento. Da veri gemelli del crimine.
«Aspetta, Zombi, aspetta» aveva detto svelto Drugo «non avrai mica fretta di tornare dal Ticchettaro, no?», e mi aveva afferrato per un braccio.
«Sì, sì, Zombi», aveva aggiunto Scaglia prendendomi per l’altro braccio, «guarda che scherziamo, lo sappiamo che non sei finocchio, non sei finocchio, vero?»
«Ma certo che non è finocchio» aveva detto Drugo. «Perché non vieni con noi, Zombi?»
«Il professore ha detto di tornare in camera» avevo obiettato debolmente.
Scaglia aveva sghignazzato. «Ma dai, Zombi, il professore è buono come il pane, diceva così solo per calmare quello stronzo del direttore, non ce l’ha mica con noi».
«Dai, Zombi, siamo in gita e ci dobbiamo divertire» aveva aggiunto Drugo, poi aveva abbassato la voce «Ascolta. C’è un’edicola aperta tutta la notte, dall’altra parte della strada. Tu vieni con noi e ci fai da palo, rubiamo un pornazzo, dai, lo facciamo leggere anche a te. Anzi, lo portiamo in camera delle ragazze, così si bagnano e si lasciano toccare le tette e anche la figa». «La Spigarelli di sicuro» aveva aggiunto Scaglia.
«Eh, Zombi, non ti andrebbe di toccare le tette e la figa alla Spigarelli? Non sei mica finocchio come dicono tutti, vero?»
Avevo un sudore freddo sulla schiena, ma anche una certa eccitazione alla bocca dello stomaco. Così avevo mormorato senza pensarci troppo «A me piace la Traversa».
«La Traversa, perfetto!» aveva detto Drugo «Quella basta che vede due cazzi su un giornale, si bagna subito e si fa toccare dappertutto, io me la sono fatta l’anno scorso» si era morso la lingua, Scaglia l’aveva guardato male «…cioè, volevo farmela l’anno scorso ma non c’è stata perché mi sa che ne vuole da te, dai Zombi, la Traversa è tutta tua, ci cavi anche un lavorino di bocca di sicuro, mi sa che la Traversa di bocca sia brava, non sputa mica niente quella lì, quel che arriva lo manda giù tutto quanto senza problemi».
«Devi solo fare una cosa» mi aveva spiegato Scaglia mettendomi un braccio intorno alle spalle «Se per caso il prof ci becca tu gli dici che hai mal di stomaco o che hai sangue al naso, che intanto che scendevi le scale per chiedere aiuto ci hai incontrati mentre stavamo tornando in camera, e adesso ti stiamo aiutando a cercare una farmacia di quelle che stanno aperte anche di notte. Hai capito?»
«Tanto il prof a te ti crede» aveva detto Drugo «Se ci becca con te non dice niente. Dai, Zombi, pensa alle ragazze che si fanno un ditalino e noi che le guardiamo con l’uccello di fuori».
Gli ultimi discorsi, c’è da dire, erano stati del tutto pleonastici.
Già da un minuto stavo immaginando la Traversa che mi trascinava in bagno, mi abbassava i pantaloni, mi s’inginocchiava davanti, figurarsi. Con quell’immagine fissa in testa, mi sarei fatto trascinare in qualunque posto e in qualunque situazione.
«Va bene» avevo detto con un filo di voce.
«E vai, Zombi, grande!» aveva esultato Drugo. «Hai visto, Scaglia, non è uno sfigato, è un grande, siamo noi gli sfigati, siam sfigati noi a paragonarlo a quello sfigato del Ticchettaro, lui sì che è uno sfigato per davvero. Lo Zombi invece è un grande!»
Avevamo sceso le scale silenziosi come piume. Eravamo scivolati non visti davanti al portiere che riordinava delle carte dietro il bancone, eravamo usciti fuori, in strada. Quasi non riuscivo a crederci, di essere con Scaglia e Drugo. Cioè, insieme a loro, complice alla pari. Con la possibilità concreta di toccare la Traversa, e chissà che altro, poi.
L’albergo sorgeva in un angolo di Roma periferico e poco trafficato. Qualche auto arrivava ogni tanto a bassa velocità, si fermava accanto a una delle ragazze di colore in attesa sotto i lampioni, ripartiva sgommando. Dall’altra parte della strada c’era l’edicola notturna. Scaglia e Drugo avevano attraversato di corsa. Avevo fatto un passo per seguirli al di là del marciapiede.
In quel momento una ragazza nera, bellissima, altissima, praticamente nuda, era entrata nel cono di luce di un lampione.
Aveva cosce lunghissime, così belle e perfette che mi ero incantato a guardarle.
E mentre le guardavo incantato, non avevo visto l’auto in arrivo.
Era stato un attimo, solo un attimo.
C’era stato uno stridore di gomme. Poi un rumore sordo.
E dopo mi ero ritrovato sul cofano dell’auto.
Dietro il parabrezza, un uomo coi baffi sul sedile del guidatore e la ragazza nera sul sedile del passeggero mi avevano guardato con gli occhi sgranati. Avevo registrato gli eventi meccanicamente, senza la benché minima emozione. Come uno che guarda le cose succedere da fuori, senza risultarne coinvolto in alcun modo.
Più tardi‚ Scaglia e Drugo mi avrebbero detto «Una scena pazzesca, Zombi‚ eri sul cofano, impassibile, senza una cazzo di espressione, e poi tutto d’un tratto ti sei rimesso in piedi e hai zampettato svelto verso il marciapiede. Eri serissimo. Sembravi in trance. Facevi paura».
I miei ricordi ripartono dal momento successivo, già sul marciapiede dall’altra parte della strada.
Scaglia, Drugo e l’edicolante mi erano corsi incontro, intanto che la macchina sfrecciava via veloce.
Io ripetevo «No, no, sto bene, non mi sono fatto niente», l’edicolante ripeteva «Il pronto soccorso, bisogna chiamare il pronto soccorso», io mi sforzavo di sorridere dicendo «Ma no, ma no, non mi sono fatto niente, non mi sono fatto niente».
Il Drugo approfittava del caos per rubare Penthouse, Le ore e un numero de Il Tromba intitolato Il malefico nano. Brano tratto dal romanzo L’abisso, Fernandel editrice, Ravenna, 2007. Gianluca Morozzi (Bologna, 11 marzo 1971) è uno scrittore e musicista italiano. Dopo gli esordi con la piccola casa editrice ravennate Fernandel, ha raggiunto il grande pubblico grazie al romanzo Blackout, un thriller "claustrofobico" interamente ambientato all'interno di un ascensore. Oltre ai romanzi già pubblicati, ha all'attivo numerosi racconti, inseriti in diverse antologie. Nella sua produzione sono frequenti i riferimenti alle esperienze personali, in particolare quelle inerenti alla fede calcistica per il Bologna FC e la musica. È il chitarrista degli Street Legal, una tribute band che omaggia Bob Dylan. Ha suonato nel cd "Deviazioni", tributo a Vasco Rossi pubblicato in allegato al Mucchio Extra, realizzando con Andrea Parodi e la Mama Bluegrass Band il brano "Brava". Nel 2008 Carmine Brancaccio ha scritto la sua biografia, dal titolo L'era del Moroz. Tra la vita e la scrittura di Gianluca Morozzi, pubblicata dalla casa editrice Zikkurat.
|