LIVELLO - 1 Lorenzo Spurio
La madre l’aveva invitato ad andare in cantina a prendere una bottiglia d’olio d’oliva. In cucina, infatti, la donna l’aveva appena terminato. Laggiù erano presenti dei silos dove la famiglia conservava parte dell’olio che annualmente ricavava dal proprio frantoio. Di vino, invece, non ne produceva, perché almeno cinque o sei anni prima le loro viti erano state attaccate da un potente virus che in breve tempo le aveva indebolite e sopraffatte, palesando l’inutilità delle cure consigliate da un fidato uomo del Consorzio. Manolo avrebbe di certo evitato di andarci se avesse saputo che cosa era appena accaduto. Oltretutto non aveva mai amato quello spazio così scuro e pieno di polvere, temendo che fosse la culla di insetti o, peggio, di scorpioni. Ne avevano trovati diversi negli ultimi tempi e, essendo quello un luogo particolarmente umido, non era da escludere che le cove di quegli aracnidi potessero trovarsi proprio lì, da qualche parte. Scese le scale sbrecciate per andare al piano sotterraneo, un ambiente in cui la famiglia aveva sempre riposto cianfrusaglie, vecchi mobili di scarso pregio, un divano sfondato, probabile tana di ratti e loro parenti, e arnesi obsoleti utilizzati decenni addietro per il lavoro nei campi.
La famiglia Biasetti aveva sempre vissuto in quella cascina un po’ dimessa a circa dieci chilometri dalla città che, in realtà, non era che un piccolo villaggio abbastanza sprovvisto di negozi. Per fortuna non troppo distante c’erano un paio di centri commerciali che in quanto a qualità dei prodotti non erano di certo carenti. La cascina era un tozzo ammasso di pietra che si sviluppava su tre piani; l’intonaco ocra era per lo più caduto lasciando intravvedere la muratura di mattoni. Negli angoli dell’edificio erano stati posti dei tiranti per cercare di dare rigidità e sicurezza alla struttura. Se si guardava la casa da lontano, questa faceva uno strano effetto: quei pezzi ritorti di metallo sembravano dei lunghi baffi arricciati tanto da far pensare che la casa avesse un volto umano con il lungo balcone centrale che assumeva l’immagine di una bocca squadrata e rinsecchita. Si accedeva alla casa imboccando uno stradello di ghiaia contornato da campi sterminati. Una delle attività dei Biasetti, infatti, era quella della coltivazione della terra, un’attività che gli era stata tramandata da generazioni che avevano visto nel tempo una lenta evoluzione nelle tecniche agricole: dall’aratura con i buoi si era passati alla semina meccanicizzata in cui il carico lavorativo del contadino era di certo stato mitigato.
L’anziana Minuccia, che aveva di certo conosciuto la fatica, ora, con i suoi ottantasette anni suonati, passava le giornate servita e riverita nel grande salone della casa, una sorta di scenario di viaggio nel tempo: televisore piatto LCD al fianco di vecchio pentolame di rame, ciocchi di legno scoppiettanti e una stufetta elettrica all’ultimo grido che, però, per sua stessa volontà, rimaneva sempre spenta, preferendo il calore del focolare. Era il figlio Saverio a portare avanti la baracca assieme alla nuora Gianna che, nata e cresciuta in una caotica città del nord Italia, aveva accettato subito e con convinzione la nuova vita fatta, invece, di isolamento e continue attività casalinghe. Era stato un cambiamento difficile all’inizio, è vero, ma poi si era andata abituando in quella vita a continuo contatto con la terra: a lei era dedicata principalmente l’alimentazione e la vendita degli animali da cortile oltre a prendersi cura della suocera che, nonostante la veneranda età, aveva ancora il vigore di comandare.
Nella casa si respirava aria stantia, un’atmosfera stagnante, quasi che la vecchia Minuccia facesse di tutto perché lì dentro il tempo rimanesse fermo ad almeno trenta o quaranta anni prima. E proprio per questo le introduzioni della modernità, tanto criticate all’inizio dalla vecchia e poi da lei stessa abusate, stonavano in quella cattedrale del passato. All’inizio la televisione non era che una perdita di tempo per lei, quando suo figlio aveva deciso d’acquistarla, ed ora non faceva altro che starle appiccicata dato che le mancavano svariate diottrie e che quello era l’unico modo per poterla vedere. Lo stesso era accaduto con il tostapane, con il phon e addirittura con l’aspirapolvere. Tutte congegnerie inutili a suo tempo che, invece, aiutavano di molto ad alleviare il peso dei lavori di casa o a migliorare lo stesso stile di vita della famiglia. Non l’aveva mai riconosciuto, ma di certo il tempo le aveva consegnato questa verità indiscutibile. Nella casa, però, tutto rimaneva fermo ai tempi andati: foto in bianco e nero di Umberto, suo marito, dalla superficie ormai ingiallita o accartocciata, vecchi mazzi di fiori rinsecchiti che al minimo spostamento d’aria lasciavano cadere pezzi di foglie o parti di petali o di quello che ne rimaneva, calendari appesi che riportavano annate ormai lontane da quell’oggi in cui sembrava di vivere in una bolla.
Ma quella sera in cantina Manolo aveva visto troppo e quell’alone di passato che circondava ogni persona dentro a quella casa era stato rotto di colpo, infranto per sempre. La violenza delle immagini che gli si pararono dinnanzi agli occhi, infatti, vanificò quell’atmosfera ridondante e pervasiva nella quale era sempre vissuto e il tutto si era proiettato al futuro, in quello spazio mentale incerto che in alcuni momenti aveva vagheggiato come spensierato e che, invece, sarebbe stato doloroso per sempre. Una pena. Una condanna per l’intera esistenza.
Suo padre ciondolava appeso a una trave di legno; una scarpa gli era caduta probabilmente nel colpo ricevuto dalla corda nel momento dell’impiccagione. A terra si era formata una pozza irregolare di un liquido scuro perché mista alla polvere. Non impiegò molto a capire che si trattava di urina e in quel frangente la bottiglia che teneva in mano gli cadde senza rendersene conto. Si frantumò e vari pezzi andarono a finire proprio sulla superficie bagnata a terra. Non gli venne in mente di raccoglierli, provava un certo ribrezzo. Pensò che la cosa più importante fosse quella di trovare la scarpa mancante, dato che in quel modo suo padre era davvero inguardabile.
Risalì al piano di sopra e andò chiamare la madre che, intenta a preparare qualcosa ai fornelli, gli chiese perché ci avesse messo tanto. Quando si rese conto che non aveva con lui la bottiglia, gli chiese cosa fosse accaduto. La nonna, intanto, nel salone stava guardando la televisione e, benché dicesse sempre di non essere sorda, il volume era eccessivamente alto. Allora Manolo disse alla madre di scendere perché c’era qualcosa che doveva vedere. Quando la donna si trovò il marito appeso come un salame davanti ai suoi occhi, non riuscì a non gridare. Poi, velocemente, salì su un tavolo rovinato dal quale probabilmente il marito aveva architettato l’intera tragedia e cercò di metterlo in salvo. O, per lo meno, questo era ciò che credeva di fare. La testa dell’uomo era leggermente reclinata verso sinistra sebbene la corda, rigida, lo cingesse nel collo in maniera molto precisa. Quando riuscì a tagliare quella corda con un arnese trovato lì vicino, il corpo del marito cadde nel vuoto, a terra. Tanta era la concitazione mista a paura che non pensarono a trattenerlo. Cadde sui vetri e sulla sua stessa urina. Si ferì a una mano che sanguinò solo poche gocce. Era ancora caldo quando sua moglie cercò di rianimarlo, ma la vita ormai era fuoriuscita da lui e non c’era più nulla da fare. Mentre la donna piangeva battendosi una pugno sul petto, il ragazzo riuscì a trovare la scarpa del padre che si era incastrata sotto un vecchio comò. La lucidò sul suo maglione, dato che era tutta impolverata, e poi gliela mise.
In città si sparse la voce che l’uomo si era suicidato per una serie di debiti che aveva contratto per i quali era stato costretto a licenziare del personale e si era visto ritirare dei macchinari in usufrutto il cui utilizzo era imprescindibile per la sua attività. Nell’articoletto di cronaca del quotidiano locale si parlò di ennesimo suicidio per la crisi, di fine delle certezze lavorative, della depressione economica e del disagio occupazionale.
All’anziana madre tacquero come realmente andarono le cose e gli dissero che era morto schiacciato da un trattore. Un tragico errore, un destino spietato. Al funerale ringraziò i presenti e si disse fiera per essere la madre di un uomo morto sul posto di lavoro. In realtà era morto per il lavoro. Pianse qualche giorno, ma poi tutto ritornò come prima. In cantina i vetri infranti non vennero rimossi e con il passare del tempo nessuno vi si recò più. L’olio invecchiò e si guastò dentro quei silos di acciaio. Lorenzo Spurio è nato a Jesi (AN) nel 1985. Nel 2011 ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Moderne all’Università degli Studi di Perugia con una tesi di letteratura inglese. Grande appassionato di letteratura straniera, ha scritto e pubblicato alcuni saggi di critica letteraria su rivista e in volume. Ha scritto, inoltre, un nutrito numero di racconti che ha pubblicato su varie riviste di letteratura e cultura italiana tra le quali Silarus, Osservatorio Letterario- Ferrara e l’altrove, La Ballata, Sagarana, Inverso, Aeolo, Il Grandevetro, Reti di Dedalus. Dal 2010 è redattore della rivista di letteratura e cultura Segreti di Pulcinella e collaboratore della rivista d’arte Parliamone diretta da Bartolomeo di Monaco. E’ autore di Blogletteratura e cultura (ISSN 2280-6482) dove pubblica testi critici, recensioni di libri e film, interviste ad autori esordienti, articoli di cultura, segnalazioni, poesie di altri autori e analisi di opere letterarie della letteratura mondiale e direttore della rivista di letteratura Euterpe fondata nell’ottobre del 2011 assieme a Massimo Acciai e Monica Fantaci. Per la narrativa ha pubblicato Ritorno ad Ancona e altre storie (Lettere Animate, 2012) assieme a Sandra Carresi e per la saggistica Flyte & Tallis (Photocity Edizioni, 2012), La metafora del giardino in letteratura (Faligi, 2011) con Massimo Acciai, Jane Eyre, una rilettura contemporanea (Lulu, 2011).
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