ANNAMARIA OLIOVINO Brano tratto dal romanzo La venere di Urbino Bernard Malamud
Dopo aver cercato invano, per mesi, uno studio in via Margutta, in via del Babuino, in via della Croce e in tutte le altre vie del quartiere, Arthur Fidelman si decise per metà di un atelier che sembrava un solaio, affollato di mobili e tutto finestre, in una strada acciottolata di Trastevere, pavesata di lenzuoli e panni a tendere. Una settimana prima, sul giornale americano di Roma, aveva letto nei piccoli annunzi: “Studio in coabitazione, prezzi miti, comodità, ecc’. A’ Oliovino“ e dopo molti fieri tormenti (poiché il laconico annunzio gli aveva ricordato che tanti sogni che aveva sognato erano finiti nel nulla), dopo molti tentennamenti, pronunciamenti e cedimenti, Fidelman, una mattina freddissima di fine dicembre era corso all’indirizzo indicato, un edificio consunto a quattro piani, con la facciata giallastra e gli spigoli chiazzati di marrone. All’ultimo piano, in uno studio d’artista zeppo di roba e odoroso di trementina e di colori a olio, mentre la visione ispiratrice di un cavalletto nella luce immobile delle tre grandi finestre riaccendeva in lui, ex studente d’arte, la voglia di dipingere, aveva condotto le trattative non con un pittore, come si era aspettato, ma con una pittrice, Annamaria Oliovino.
La pittrice, un tipo irrequieto, esile, quasi scarno, dalla voce acuta e dai capelli corti e arruffati aveva la bocca viola, gli occhi spiritati e il collo duro di tensione. Con le natiche strette e il seno pungente, a suo modo era desiderabile, sebbene non fosse una vera bellezza. Portava un grosso pullover di lana nera, pantaloni lisi di velluto nero, calzini neri e sandali di cuoio, macchiati di pittura.
Si scambiarono occhiate furtive e Fidelman capì subito che, come donna, non era attratta da lui, o dal suo tipo, il che in pratica, era la stessa cosa. Ma dopo dieci minuti, nonostante il tumulto che trasudava dalla ragazza, persino mentre rispondeva con distacco alle sue domande incerte, Fidelman, sempre una facile preda per le bellezze insolite e le esperienze nuove, si sentì invischiato e sul punto d’innamorarsi. Non è il mio tipo, si ammonì, consapevole dei pericoli che minacciavano lui personalmente, e il suo rinnovato desiderio d’arte, eppure era già mezzo innamorato. Non è possibile, pensava, con disperazione, e invece sì, era possibile. Gli era già successo.
Davanti alla pittrice, chiuse forte gli occhi e pregò, con tutto il cuore, che non accadesse quel che rischiava di accadere. Tremava, letteralmente, e per quanto si affannasse di districare il suo destino da quello della ragazza, era già un pollo spennato, condito e pronto per la pentola.
Fidelman protestò clamorosamente, dentro di sé, lanciò severi anatemi contro il suo debole io, si coperse di epiteti feroci, ma non poté far molto, vittima com’era della sua solita reazione: un trasporto troppo vivo per gli sconosciuti. Così Annamaria, che nell’inserzione aveva chiesto ventimila mensili d’affitto, finì col raddoppiare la cifra e Fidelman pagò, soldo su soldo, la prima mesata e la seguente (nel caso che cercasse di scappare di notte), più diecimila lire di deposito, per gli eventuali danni.
Un’ora dopo arrivò a installarsi, con la sua valigia di fintapelle.
Questo, succedeva in pieno inverno. Sotto le finestre, illuminate da un sole freddo, c’erano due pini a ombrello intirizziti e più in là scintillava il Tevere di ghiaccio. Lo studio era ben riscaldato, aveva detto e ripetuto Annamaria, ma il gelo filtrava dai finestroni. Pareva una tormenta, lo studente d’arte aveva i brividi, ma il suo amore segreto per la pittrice lo riscaldava.
Gli ci volle quasi una giornata per farsi un posto di lavoro, e un terzo del locale fu tutto quel che riuscì a sgombrare.
Ammucchiò i quadri di lei, in mazzi di cinque, contro la parete che le spettava: era curioso di vederli, ma sebbene Annamaria stesse dipingendo una monumentale natura morta con una pagnotta e due teste d’aglio (Pane e Agli) teneva d’occhio ogni suo movimento (lui comunque notò parecchi autoritratti). Spostò pile di “Oggi”, mazzi di cartoline e di lettere ingiallite e un mucchio di calendari che risalivano a molti anni prima.
C’era anche una scatola di dolci Perugina piena di cocci di ceramiche etrusche, una di minuscole conchiglie e una terza di medagliette dei santi e della Vergine, che la pittrice gli raccomandò di maneggiare con cura.
Fidelman aveva tolto la sopracoperta a una branda malferma accanto a un lavandino di pietra sgocciolante, nel suo angolo dello studio, e qui dormiva. Lei gli aveva dato un vecchio fornello e un tavolo rotto e lui aveva comprato i pochi utensili da cucina che gli occorrevano.
Annamaria affittò allo studente un cavalletto per mille lire al mese.
Lei aveva un alloggio privato: una camera all’altro capo dello studio, che teneva sprangata, dandogli la chiave quando doveva andare al gabinetto. Il muro era sottile, e lo strumento fragoroso.
Lui sentiva il sibilo e lo scroscio dell’acqua, e cercava di far piano, ma per un difetto del sifone la tazza era sempre piena fino all’orlo e il suo scroscio personale l’imbarazzava. La notte, in caso di necessità, sebbene fosse tentato di servirsi del lavandino, pescava da sotto il letto un vaso ingiallito e incrostato; un paio di volte, mentre l’usava, nel cuore della notte, ebbe l’impressione che lei fosse sveglia e ascoltasse.
Dipingevano in cappotto, Annamaria portava un foulard nero, annodato sotto il mento, Fidelman un cappello di panno verde, tirato giù, sulle orecchie gelate. Lei si teneva vicino un braciere acceso, e, a brevi intervalli, alzava un piede calzato di sandalo, per arrostirlo.
Il pavimento dello studio era ghiaccio puro: lo studente portava due paia di calzini da tennis che sua sorella Bessie gli aveva mandato di recente dall’America.
Annamaria che era mancina, dipingeva con un guanto di pelle pieno di macchie sulla sinistra e, teoricamente, il cavalletto di Fidelman era disposto in modo da non lasciargli vedere quel che faceva, ma spesso lui lanciava occhiate furtive al lavoro della pittrice.
Sorpreso, notò che dipingeva con rapidi scatti delle dita e del polso, studiando la propria opera con gli occhi praticamente chiusi. Alternava le nature morte a enormi astrazioni liriche, robusti vortici rossi e oro che esplodevano in tutte le direzioni scaturendo intrecciandosi e da ultimo nascondendo un piccolo crocefisso, le prime due pennellate di ogni tela. Una volta, Fidelman trovò il coraggio di domandarle il perché della croce, e lei rispose che era il simbolo che dava significato al quadro.
– Quale significato?
– Il significato ch’io voglio che abbia.
Lui avrebbe voluto sapere di più, ma lei diede segni d’impazienza.
– Eh, – fece, stringendosi nelle spalle, – chi può spiegare l’arte?
Sebbene, di regola Annamaria reagisse in maniera molto spiccia ai suoi multiformi tentativi di approfondire la conoscenza, e l’attenzione che gli dedicava fosse ancora più fuggevole (a quanto pareva riusciva a convincersi che lui non ci fosse) il sentimento di Fidelman per lei cresceva, e l’ex studente era innamorato e infelice quanto più non poteva.
Ma aveva pazienza, una virtù tenace, e si rendeva utile alla sua bella sovente e in varie forme: ad esempio portando giù per quattro piani di scale i due sacchetti dell’immondizia subito dopo cena – la portinaia era sciancata e il portiere non si trovava mai – scopando lo studio ogni mattina, precipitandosi a raccogliere un pennello o i tubetti di colore se lei per caso li lasciava cadere, disponibile per qualsiasi servizio in qualsiasi momento, senza riserve. Lei accettava questi piccoli favori come dovuti. Una mattina, dopo aver letto una lettera di molte pagine, appena arrivata con la posta, Annamaria diventò cupa, malinconica, incapace di lavorare: camminava inquieta avanti e indietro, e lui ne fu turbato. Ma dopo avere dipinto febbrilmente una spirale violacea che continuava oltre la tela, la ragazza riacquistò una certa tranquillità. Questo, accrebbe la sua bellezza, dandole una nota giovanile che di solito non aveva (secondo i calcoli di Fidelman non superava i ventisette–ventott’anni); così, ispirato dal cambiamento e sperando che preludesse a una sorte migliore, per lui, l’ex studente si avvicinò ad Annamaria, si levò il cappello e propose: dal momento che lei usciva così di rado, perché tanto per cambiare, non andavano a far colazione da Guido, là alla trattoria sull’angolo, dove si riunivano gli operai e dove il vitello e il vino bianco erano squisiti? Con sua sorpresa, Annamaria dopo aver lanciato un breve sguardo di disagio al profilo dei pini immobili, fuori dalla finestra, disse bruscamente di sì.
Mangiarono bene e conversarono come esseri umani, per quanto lei, in genere, si limitasse a rispondere alle modeste domande di Fidelman.
L’informò che era venuta a Roma da Napoli due anni prima anche se le sembrava molto più tempo e lui le disse che veniva dagli Stati Uniti.
Starle tanto vicino, fisicamente, poter aspirare l’odore del suo corpo, simile a fiori salmastri, mangiare assieme, in intimità, eccitava Fidelman, e lui sedeva immobile, per non spezzare l’equilibrio e perdere una sola stilla di ciò che gli era tanto prezioso. Annamaria mangiava avidamente, con gli occhi nel piatto.
Una volta lo guardò, con l’ombra di un sorriso, e l’ex studente conobbe la beatitudine: progettava già molti pasti simili, quantunque non potesse permetterseli, perché ogni soldo che spendeva veniva dai risparmi di Bessie.
Dopo la zuppa inglese e una mela, lei si asciugò la bocca col tovagliolo e, sempre di buon umore, propose di prendere un autobus per piazza del Popolo, e di far visita a un pittore suo amico.
– Le presenterò Alberto Moravia.
– Felicissimo, – dichiarò Fidelman.
Ma quando uscirono in strada, e s’incamminarono verso la fermata dell’autobus, vicino al fiume, si levò un vento freddo, e Annamaria impallidì.
– Qualcosa che non va? – s’informò Fidelman.
– Il vento dell’Est, – replicò lei, stizzosamente.
– Quale vento?
– L’occhio del male, – spiegò Annamaria, irritata. – Il Malocchio.
Fidelman aveva sentito parlare di qualcosa del genere. Tornarono in fretta allo studio,
affrontando a testa bassa il vento fragoroso; di tanto in tanto la pittrice faceva furtivamente il segno della croce.
Una vecchia monaca in nero li incrociò, all’angolo della trattoria, e la ragazza distolse il viso, tormentata, brontolando: - Che iettatura! Porca miseria!
Quando arrivarono allo studio insisté perché Fidelman si toccasse tre volte i testicoli per scacciare o esorcizzare chissà quale stregoneria, e lui pudicamente, obbedì. La richiesta l’aveva infiammato, quantunque si costringesse a ricordare che, per fine e sostanza, era teologica.
Più tardi, Annamaria ricevette una visita: un tale che veniva sempre il lunedì e il venerdì pomeriggio, quando aveva finito il lavoro in un ufficio governativo. I suoi visitatori, sempre uomini, bisbigliavano con lei per qualche minuto poi se ne andavano irrequieti, e in genere, salvo Gaetano Balducci, un illustratore con gli occhi storti, Fidelman non li rivedeva più. Ma quello che veniva più spesso si fermava più a lungo: Augusto Ottogalli, un signore solenne dai capelli grigi e dagli occhi azzurri, acquosi, che mancava di tutti i molari e poteva comodamente essere il padre di Annamaria. Portava un cappello nero a staio sulle ventitré e un frusto cappotto grigio, troppo largo per lui.
Salutava Fidelman con aria astratta e gli metteva addosso una gelosia insensata. Quando arrivava Augusto, nel pomeriggio, di solito la pittrice piantava in asso qualunque cosa stesse facendo e si ritirava con lui nella sua camera, chiudendo subito rumorosamente, con chiave e chiavistello. Lo studente di belle arti vagava solo per lo studio, vivendo ore atroci.
Quando Augusto, finalmente, riemergeva, in disordine, e quand’anche fortunato, con un’aria sconfitta, Fidelman gli voltava le spalle e il vecchio se ne andava, frettoloso. Dopo le sue visite, e solo quelle, Annamaria non ricompariva più nello studio, per tutta la giornata.
Una volta l’ex studente bussò alla porta, per invitarla fuori a cena, e lei gli gridò di usare il vaso, perché aveva mal di testa e dormiva della grossa. In un’altra occasione, in cui Augusto rimase chiuso dentro con lei per un’eternità, Fidelman, dopo due ore di tormenti, si avvicinò alla porta in punta di piedi e vi appoggiò un orecchio geloso. Ma tutto quel che riuscì a sentire fu il brusio sospiroso della loro conversazione.
Sbirciando dal buco della chiave li vide tutti e due, con il cappotto addosso, seduti sul letto. Augusto le stringeva le mani, bisbigliando appassionatamente, col naso imporporato dall’emozione, Annamaria volgeva altrove la faccia bianca.
Quando lo studente di belle arti fece un controllo, un’ora dopo, erano allo stesso punto: il vecchio che implorava e la pittrice che piangeva.
La volta seguente, Augusto arrivò con un prete, un uomo massiccio dal fiato grosso e dalla faccia dubbiosa, ma appena si affacciarono allo studio, Annamaria, fuori di sé dalla collera, nonostante le appassionate suppliche di Augusto, si mise a bombardarli con tutti gli oggetti, suoi o di Fidelman, che le capitavano sottomano.
– Mignatte! – gridava. – Scorpioni!
Parassiti! – E continuò finché i due batterono in precipitosa ritirata.
Tuttavia, quando Augusto, disfatto e tormentato, ritornò solo, si chiuse in camera con lui senza protestare.
Il lavoro di Fidelman, nonostante i suoi sforzi disperati, andava maluccio. Ogni volta che guardava una tela nuova vedeva arlecchini, prostitute, re di tragedia, musici spezzati, la malattia e il terrore.
D’altronde, la tradizione era tradizione, che male c’era se lui voleva continuarla? Poiché aveva sempre amato la storia dell’arte, meditò d’imbarcarsi in una Madonna col Bambino, ma ebbe paura che finisse col somigliare troppo a Bessie: dopotutto, c’erano quindici anni, tra loro.
Oppure, perché no? una commovente Pietà, col figlio morto, come un’onda infranta, fra le fragili braccia della mamma. Accidenti alla storia dell’arte: Fidelman lottò contro l’immagine, prefabbricata che gli si presentava, quantunque in passato alcuni dei suoi quadri migliori gli fossero balzati in mente precisi in ogni particolare. Ma, in tal caso, dov’è il vero impegno? A volte vorrei dimenticare tutti i quadri che ho visto, pensava.
Sull’orlo del panico, schizzò a carboncino una:figura di ebreo che fugge in finanziera, poi la nascose in fretta. Dopo di che le idee, prefabbricate e meno, scarseggiarono. Mi meraviglio, brontolava tra sé, domandandosi se doveva tornare al surrealismo. Prese in considerazione anche una serie di Relazioni Spazio–Luogo, costruzioni spigolose di quadrati e circoli, i piaceri della geometria tridimensionale, dell’astrazione lineare, ma non l’entusiasmavano gran che. L’astrazione massima, pensò Fidelman, è la tela nuda. Un momento dopo, disse a se stesso: se la pittura rivela chi sei, perché non dovrebbe rivelarti la non pittura? Voglio dire, di questo non devo preoccuparmi. Dopo l’incidente col prete, Annamaria rimase giù di morale per una settimana: se ne stava in camera sua e ogni tanto piangeva disperatamente, mentre Fidelman rimaneva impalato davanti alla sua porta, senza saper che fare. Quest’infelicità, tuttavia, fu il preludio a un’esplosione di fervore creativo. Dal pennello e dal carboncino della pittrice scaturirono quadri a dozzine. Continuò con le astrazioni liriche sul tema della croce nascosta, e passò ore con una lunga candela nera a far buchi in un grosso foglio bianco (Buchi spontanei)…
Mischiò fondi di caffè, briciole di specchio scintillanti e conchiglie pestate e li soffiò su un foglio spalmato di adesivo: (Velo nella nebbia). Creò collages di stracci e carta igienica. Dopo una dozzina di studi lineari (Linee discendenti) fece esperimenti con un foglio d’oro spruzzato di terra d’ombra, e mentre era ancora bagnato vi tracciò lunghe linee ondose con un pettine fitto. Questo quadro, l’incorniciò in nero e l’appese per un angolo, a rombo, (Luce di Candela).
Annamaria lavorava intenta, con la fronte aggrottata, le labbra viola contratte, gli occhi accesi, le nari palpitanti di estasi creativa. Quando si trovò momentaneamente a corto di idee modellò un toro mitologico in argilla rossa (La donna toro), poi tornò alle nature morte, con caschi di banane, e poi ancora agli autoritratti.
Ogni tanto la pittrice si prendeva un po’ di riposo, per vedere che cosa combinava Fidelman – non molto, per la verità, e in quelle occasioni correggeva i suoi sforzi. Cambiava linee, alterava figure, imbrattava di colore intere composizioni che non erano di suo gradimento. Pochissime lo erano, ma Fidelman, grato della benché minima attenzione dedicata al suo lavoro, arrivava a continuare, per stimolarne le critiche. Si sentiva il cuore in gola, quando lei gli stava addosso, per correggere una tela e aspirava a fondo il suo odore intimo, di fiori sudati. Annamaria si metteva il profumo solo quando veniva Augusto e Fidelman era un po’ avvilito all’idea che il vecchio le ispirasse l’uso di una fragranza in bottiglia, ma lo consolava il pensiero che il suo aroma naturale, di cui fruiva, per così dire, gratis, fosse di gran lunga più eccitante di quello che si spruzzava addosso per il suo decrepito Romeo. Si era accorto che Annamaria aveva un’ombra soffice di pancia, ma adorava quella rotondità cedevole e spesso la sognava a occhi aperti.
Pensando di farle piacere, poiché ci riusciva così di rado (e fantasticava di come sarebbero andate le cose una volta che lei avesse compreso la profondità del suo amore) lo studente di belle arti si mise a far esperimenti su alcuni temi di Annamaria: i buchi spontanei, ad esempio, alcuni studi di Linee ascendenti e un paio di astrazioni lirico–espressioniste che scaturivano, s’intrecciavano e infine nascondevano una stella di David, ma presto scoprì che con questi tentativi, invece della sua benevolenza, si era attirato una nuova dose di disprezzo.
Ciononostante, Annamaria continuava ad andare a pranzo con lui da Guido, e il più delle volte anche a cena, sebbene non parlasse quasi mai, durante i pasti e alla fine lasciasse correre lo sguardo sugli uomini degli altri tavoli. A volte però, dopo mangiato, consentiva a fare una passeggiatina con Fidelman, se c’era un vento ragionevole, e ogni tanto andavano al cinema a Trastevere, perché lei detestava attraversare i ponti sul fiume e semmai lo faceva solo in autobus, dove sedeva rigida, con gli occhi fissi davanti a sé. Una volta, durante il tragitto, Fidelman approfittò dell’occasione per chiudere il pugno nervoso di Annamaria nel suo, ma appena furono sani e salvi sull’altra riva lei si svincolò di scatto.
Da un po’, le faceva regali: tubetti di colori, pennelli della migliore qualità, qualche metro di tela di Fiandra, che lei accettava senza commenti. La pittrice si faceva anche prestare qualcosa da lui: niente di sbalorditivo, cento lire oggi, cinquecento domani. Una mattina, annunciò che d’allora in poi, dato che ne usava in abbondanza, avrebbe dovuto pagare un supplemento per l’acqua e l’elettricità (Fidelman pagava già un extra per il riscaldamento che non riscaldava), e lui, nonostante l’ansia continua per i soldi, acconsentì. Avrebbe dato la sua ultima lira, per giacere su quel ventre soffice, ma lei non offriva niente, nemmeno una carezza, finché un giorno gli permise di assistere, mentre si ritraeva nuda.
Poiché faceva un freddo cane compì l’operazione in due tempi. Prima si tolse il maglione e il reggipetto e guardandosi in un lungo specchio appannato schizzò la parte superiore del corpo, prima che diventasse blu.
Lui era vertiginosamente preso dalle sue forme e dalla sua carne. Dopo essersi frettolosamente rimessa il reggipetto e il pullover, Annamaria sfilò i sandali, si levò i calzoni e le mutandine bianche stracciate al cavallo e disegnò il resto della sua persona, fino alla punta dei piedi. Lo studente di belle arti implorò il permesso di disegnare con lei, ma la pittrice glielo negò, costringendolo, per quanto poteva, ad affidare alla memoria i suoi deliziosi tesori, il seno duro e pungente, le natiche belle e compatte, le grandi labbra nascoste da tralci leggeri, fonte e dolce principio del tempo. Annamaria terminò il disegno e si rivestì: Augusto comparve e si chiuse in camera con lei e Fidelman rimase seduto, immobile sul suo sgabello alto, davanti alle finestre scintillanti e azzurre di cielo, trasformandosi lentamente in un pezzo di ghiaccio, con l’accompagnamento di un sommesso motivo di Bach.
Lo studente di belle arti aumentò i suoi servigi ad Annamaria, e lei aumentò il disprezzo, o così pareva.
Fu una grossa ferita morale, per lui.
Che cos’ho fatto, per meritare un trattamento simile? Forse perché le pago un grosso affitto
puntualmente?
Perché le offro regali d’ogni sorta, per non parlare di due pasti al giorno? Perché vivo tra un ardore che mi brucia e un freddo che mi gela?
Perché adoro appassionatamente ogni briciola agrodolce del suo corpo?
Fidelman venne alla conclusione che Annamaria s’annoiava, a vederlo tanto.
Per una settimana durante il giorno scomparve, chiudendosi in biblioteche fredde e in musei gelidi.
Cercò di dipingere dopo mezzanotte e nelle prime ore del mattino, ma la pittrice se ne accorse e svitò le lampadine, prima di andare a letto.
– Non mi sprechi l’elettricità, non siamo in America.
Lui avvitò una fioca lampadina blu, e lavorò in silenzio dall’una alle cinque del mattino.
All’alba scoperse di aver dipinto un quadro blu.
Fidelman vagava per le vie della città. Di notte dormiva nello studio e ascoltava Annamaria dormire in camera sua. La ragazza aveva il sonno irrequieto, faceva brutti sogni e spesso si lamentava. Lui sognava di avere tre occhi e di essere senza un orecchio o senza naso.
Per due notti non parlò con nessuno, salvo una donnetta insaccata, alta un metro e quaranta che stava al terzo piano, e di solito per dirle di no.
Poiché udiva spesso la musica di Bach venire da sotto, aveva cercato di figurarsi la pianista, e aveva immaginato una bionda slanciata e tranquilla, una signora tutta piena di grazia e bellezza. Poi era venuto fuori che si trattava di Clelia Montemaggio, una zitella di mezz’età, maestra di musica, che suonava un vecchio piano verticale con la porta di casa spalancata per far uscire gli odori di cucina, specialmente di pesce fritto, il venerdì. Una volta, mentre risaliva dopo aver portato da basso l’immondizia, Fidelman si era fermato ad ascoltare e lei l’aveva accalappiato con un espresso e delle paste.
Lui mangiò e ascoltò Bach. Il sedere polposo della signorina si moveva energicamente sulla panchetta mentre suonava, non male.
– Lo spirito, – gli gridò, voltando appena il capo. – L’architettura!
Fidelman accennò di sì. In seguito, ogni volta che l’avvistava sulle scale, la signorina cercava di adescarlo con paste alla crema e Johann Sebastian, l’unico che suonasse, a quanto pareva.
– Entri! – gli gridava in un inglese cantilenato, all’italiana. Suonerò per lei. Parleremo. Non fa bene, troppa solitudine.
Ma lo studente di belle arti, oppresso dalla sua solitudine, respingeva quella di lei. Incapace di lavorare, girava per le strade, desolato, con l’anima polverosa in una città di fontane e di rubinetti che perdevano. Acqua, acqua dappertutto, che scaturiva, scorreva, sgocciolava, mormorava segreti: amore, amore, amore, ma non per lui. Se Roma è così piena di sesso, dov’è la mia Roma? La Roma–senza-Roma di Fidelman.
La città che meno appartiene a chi più la desidera. A passi lenti risalì il Pincio per risollevarsi lo spirito, se possibile, guardando giù, i tetti della città, campanili, cupole, torri, monumenti, un mosaico di storia e di passato. Si poteva vederla, possederla, tutta all’infuori del suo spirito elusivo: dopo tanto tempo, lui era ancora uno straniero.
In quell’istante, lo folgorò un’idea: se puoi dipingere questo paesaggio, darne il carattere attraverso il tuo, allora lo spirito ti appartiene. Storia, diventa Estetica! Fidelman si sentì rizzare i capelli. Un’ondata pazza di cose da dipingere lo percorse dolcemente da capo a piedi: santi, malati e sani, interi e mutilati, in oro e in rosso, i conigli grigi e nudi di Auschwitz, negri bianchi e negri neri… che c’è d’impossibile, se qualsiasi colore ti esce dal pennello?
E se questo è possibile, allora anche Annamaria es Pulchra.
Per poco non urlò di gioia. L’avrebbe dipinta, che glielo permettesse o no, che posasse o no… era fatta perché lui la dipingesse, ci sarebbe riuscito a occhi chiusi. Forse, dopotutto, verrà fuori qualcosa, dal mio amore per lei. Ai sette cieli, Fidelman fece di corsa tutta la via del ritorno.
Ci mise otto giorni: un travaglio d’amore. Cercò di ritrarla nuda, ma sebbene riuscisse a immaginarla, centimetro per centimetro, non riuscì a renderla sulla tela. Poi sofferse finché non gli venne in mente di dipingerla in veste di Vergine col Figlio. L’idea lo scosse e l’esaltò.
Si mise al lavoro febbrilmente e colse una somiglianza immediata.
Annamaria, santamente bella, reggeva tra le braccia un bambino che somigliava a suo nipote Georgie. La pittrice, naturalmente si accorgeva di quell’attività instancabile e lanciava occhiate curiose nella sua direzione, ma Fidelman che dipingeva nell’angolo dell’acquaio di pietra, teneva il cavalletto voltato in modo da non lasciarle veder nulla. Lei si dava arie di noncuranza. A giornata finita lo studente copriva il quadro e lo teneva d’occhio. Dipingeva Annamaria presa da uno slancio di tenerezza per il piccolo che teneva in collo; il suo viso rifletteva l’innocenza del bambino. Quando, il nono giorno, Fidelman trepidante rivelò la sua opera, gli occhi della pittrice si annuvolarono e il labbro inferiore si contrasse. Lui stava per strapparle il quadro di mano e farlo a pezzi, quando l’espressione di Annamaria si sciolse.
Lo studente di belle arti rimandò ogni mossa, salvo il tremito che lo scoteva. Sulle prime, la pittrice parve agghiacciata, poi una strana oscurità scese su di lei e fu vinta.
Gemette a lungo, senza parlare, poi singhiozzò: – Hai visto la mia anima -. Si abbracciarono tempestosamente – i seni di lei quasi lo trafiggevano – e Annamaria pianse a calde lacrime sulla sua spalla.
Fidelman le baciò il viso bagnato, le labbra salate e lei mormorò, mentre lui trafficava col gancio del reggipetto, sotto il maglione: – Aspetta, caro, aspetta, viene Augusto.
Fidelman era pazzo d’ansia e d’attesa.
Augusto, che di solito arrivava puntualmente alle quattro, quel venerdì pomeriggio non comparve.
Annamaria, a disagio man mano che l’ora si avvicinava, parve sollevata quando le strade cominciarono a farsi buie. Aveva lavorato male, dopo aver visto il quadro di Fidelman, sospirando di frequente e fissandolo con sorrisi dolce–tristi. Alle sei cedette alle sue pressioni e passarono in camera: la Vergine col Figlio, senza cornice, era già appesa sopra il letto, in sostituzione di uno scarno autoritratto.
Fidelman restò curiosamente deluso dal quadro, esile e superficiale e si propose di farselo restituire temporaneamente l’indomani mattina per lavorarci ancora. Ma la concezione, se non altro, meritava il compenso. Annamaria preparò la cena.
Tagliò la carne per Fidelman e l’imboccò con la forchetta.
Gli sbucciò l’arancia e gli rimescolò il caffè. Dopo, a un cenno di lui, chiuse con chiave e chiavistello le porte dello studio e della camera, si svestirono e s’infilarono sotto le coperte.
Com’è bello, tanto per cambiare, essere da questa parte della porta chiusa, pensò Fidelman, meravigliosamente disteso. Annamaria, invece, sembrava intensamente consapevole di tutti i rumori del vecchio casamento, che comprendevano le strida d’un pappagallo, un gruppo di ragazzini che correvano su per le scale urlando e un soprano che cantava: “Ritorna vincitor!” Ma poi si calmò e abbracciò ardentemente Fidelman. Nel bel mezzo d’un bacio appassionato, squillò il campanello d’ingresso.
Annamaria s’irrigidì tra le braccia dell’ex studente.
– Diavolo! Augusto!
– Se ne andrà, – opinò Fidelman.
– Tutt’e due le porte sono chiuse.
Ma lei era già fuori dal letto e s’infilava i pantaloni.
– Vestiti, – ordinò.
Lui saltò giù, e s’infilò frettolosamente i calzoni.
Annamaria girò la chiave e tirò il catenaccio della porta interna e poi di quella d’ingresso.
Era il postino, che voleva dieci lire per una lettera da Napoli che passava il peso.
Dopo aver letto la lunga lettera, Annamaria si asciugò una lacrima e tornò a letto.
– Chi è per te? – domandò Fidelman.
– Chi?
– Augusto.
– Un vecchio amico. Quasi un padre.
Ne abbiamo passate tante, assieme.
– Siete stati amanti?
– Senti, se hai voglia di prendermi, prendimi. Se hai voglia di far domande, torna a scuola.
Lui decise di badare ai fatti suoi.
– Scaldami, – disse Annamaria, - sono gelata.
Fidelman la carezzava lentamente.
Dopo dieci minuti lei disse: – Gioco di mano gioco di villano.
Su, un po’ di fantasia.
Lui fece lavorare la fantasia e lei gli corrispose, eccitata. – Dolce tesoro, – sussurrava, facendogli guizzare la punta della lingua nell’orecchio e poi mordicchiandogli il lobo.
Il campanello d’ingresso squillò sonoramente.
– Per Dio, non aprire, – gemette Fidelman. Cercò di tenerla giù, ma lei si era già alzata e cercava la vestaglia.
– Mettiti i calzoni, – sibilò.
Lui pensò di aspettarla a letto, ma finì col vestirsi completamente.
Annamaria lo mandò alla porta. Era la custode sciancata, perché lui si era dimenticato di portare da basso l’immondizia.
Annamaria, esasperata, andò a prendere i due sacchetti e glieli diede.
A letto aveva così freddo che le battevano i denti.
Fremente di desiderio, Fidelman la scaldò.
– Angelo mio, – mormorò lei. – Amore, prendimi.
Lui stava per eseguire, quando Annamaria riunì le gambe di scatto, e saltò giù dal letto.
– Di nuovo quella maledetta porta!
Fidelman digrignò i denti.
– Io non ho sentito nulla.
In vestaglia di seta gialla sdrucita, Annamaria corse alla porta d’ingresso, l’aprì, la chiuse,
girò alla svelta la chiave, tirò il catenaccio, fece altrettanto in camera e tornò a letto.
– Avevi ragione, non c’era nessuno.
E abbracciò Fidelman: aveva le ascelle pelose e profumate.
Lui ricambiò, con passione arretrata.
– Sono stufa di antipasto, – dichiarò Annamaria e gli afferrò il membro.
Troppo eccitato, Fidelman lottò disperatamente per resistere, ma le si diede in mano.
Cercò d’imporsi la resurrezione, con volontà poderosa, ma il suo fiore appassito cadde nella polvere.
Lei, furibonda, lo buttò giù dal letto e lo spinse nello studio, tirandogli dietro i vestiti.
– Porco! Animale! Segaiolo!
Se non altro, mi permette di amarla. Brano tratto dal romanzo La venere di Urbino. Einaudi editrice, Torino, 1973. Traduzione di I. Omboni. Bernard Malamud (Brooklyn, 26 aprile 1914 – New York, 18 marzo 1986) è stato uno scrittore statunitense di origini ebraiche.
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