JACI Brano tratto dal romanzo Concerto Carioca Antônio Callado
(…) Xavier capì che Jaci doveva essere comparso in cima alle scale non tanto per aver scorto il ragazzo, quanto perché la voce che parlava si andava smorzando e non si sentiva più il chiacchiericcio della suora-portinaia, la storia che stava raccontando di Jaci punito per essere stato sorpreso melle docce sbagliate, quelle delle ragazze, ma punito ingiustamente, secondo lei, perché…
Jaci si avvicinò a Xavier e alla suora-portinaia, e, nonostante il suo scarso entusiasmo all’idea di portare a spazzo un ragazzino – e per di più in uniforme, una camicia vagamente sul grigio e un paio di calzoni neri, o forse solo più scuri, più sporchi della camicia, – Xavier dovette ammettere che non aveva mai visto, sulla faccia di qualcuno, una rappresentazione così nitida ed espressiva di quel che si potrebbe chiamare l’aspettativa della passeggiata: aspettativa negli occhi neri splendenti, nel sorriso fisso e teso di chi ha paura di aspettare troppo, o di essere alla fine lasciato a casa.
– Avevo un cagnolino, – disse la suora-portinaia, – identico a te, Jaci, e non lo dico perché era marrone, forte e bello come te, no, ma soprattutto perché quando mi vedeva pronta per uscire e sentiva lo scatto del suo guinzaglio, dava in un gemito sottile e arrivava al punto di tremare sulle zampe, fino a diventare tutto quanto un tremito.
Sul viso bruno del ragazzo, il sorriso luminoso apparve un po’ compresso, come se la stessa contrazione del suo corpo ammaccasse e pestasse la sua ansia di uscire, e, quanto a rispondere alla suora-portinaia, quanto a parlare, Jaci neppure ci provò, nella sua estatica devozione all’idea della passeggiata.
– Ah, Jaci, scusami, – disse la suora, – ma prima di tutto quella buonanima del mio cane, Trajano, non era una bestia, era un bambino, era come un bambino a cui volevo molto bene, e secondo poi, io stavo mettendo a confronto due forze, due voglie uguali di andar fuori.
Xavier sentì, quando arrivò con Jaci in piazza José de Alencar, dove avrebbero preso un mezzo – non sapeva ancora per dove – che rinchiudere quel ragazzo su un autobus, o, Dio ci scampi, in metropolitana, era come infilare un coniglio vivo in una scatola e aspettarsi che rimanesse quieto, e, dopo aver preso in considerazione, per un secondo, la possibilità di consultareJaci, di chiedergli dove voleva andare, realizzò con terrore che Jaci non aveva semplicemente nessun’idea sull’andare da una parte o dall’altra, che la città gli era assolutamente sconosciuta, e che lui, Xavier, aveva tra le mani null’altro che la pura tensione e intenzione, in una nuova incarnazione, del defunto cane della suora-portinaia. Magari fosse stato solo un cane, pensò Xavier, perché in quel caso avrebbe potuto abbandonare Jaci sul posto, vicino alla sedia di bronzo di José de Alencar, a pisciare contro una gamba della sedia, sul piedistallo del monumento, dovunque fosse, invece di riflettere su cosa fare con quella bestia-persona, che indossava un paio di pantaloni e che ora, per esempio, mentre guardava la gente, le macchine, un elicottero che passava rasentando i palazzi alti, faceva tintinnare qualcosa nelle tasche, monete certamente, e Xavier, non sapendo cosa dire, o proporre, a Jaci, domandò, vago e disinteressato:
– Soldi?
Jaci impiegò qualche secondo a collegare la domanda dell’uomo – in qualche modo un uomo ammirevole, visto che aveva il potere di toglierlo da quel casermone per portarlo a spasso – al rumore che proveniva dalla sua tasca, e all’idea, ancora più difficile di accettare, di poter essere proprietario di monete, ma alla fine estrasse dalle tasche, ed esibì, sul palmo delle mani, le chiavi che collezionava, vecchie, arrugginite, trovate qua e là.
Il piano quasi disperato di Xavier era di comprare un gelato a Jaci e di andare poi, più o meno, in qualche spiaggia forse addirittura, chissà, in uno sforzo di generosità più grande, al cinema, là stesso dalle parti del Catete o di Largo do Machado. È chiaro che prima di qualunque scelta aveva pensato di dar da mangiare qualcosa a Jaci al bar Arnaldo o al Café Hipódromo. Ma non solo erano posti piuttosto lontani e inadatti per fermarcisi a lungo con un ragazzo a cui non aveva niente da dire, né era interessato a sapere cosa lui potesse dirgli, quanto, soprattutto, non intendeva mettere a rischio un primo incontro, il rincontro con Solange, con a fianco, quasi per mano, un ragazzo indio che, almeno in un primo momento, Solange avrebbe potuto credere suo figlio, portato dalle foreste, che orrore!
No, avrebbe portato Jaci in rua das Palmeiras, al Museo, dove c’era spazio, un giardino grande, dove Jaci avrebbe potuto far merenda, e dove avrebbero trovato Lila, la donna che lo stava aiutando, anche senza conoscere questa sua missione e funzione, ad aspettare esattamente l’istante del suo rincontro con Solange.
C’era inoltre il vantaggio che in rua das Palmeiras potevano andarci a piedi, che in meno di mezz’ora sarebbero arrivati, senza nessuna fretta, al Museo, che la camminata sarebbe servita a blandire l’avidità, la sete di esercizio che di lì a poco, pensò Xavier, avrebbe fatto vibrare quelle chiavi da sole nelle tasche del ragazzo. Sbucando dalla rua Marquês d Abrantes sulla spiaggia di Botafogo, Xavier scorse, sull’aiuola centrale, due o tre signore che portavano a spasso i loro cagnolini, e, intimamente divertito all’idea che stava per fare la stessa identica cosa, attraversò la strada, tenendo Jaci per mano. Non aveva fatto i conti, però, con l’ardore concentrato del cane che conduceva, le cui astuzie gli erano ancore ignote, e, soprattutto, col fatto che non lo portava attaccato con guinzaglio e collare: quando Jaci si impuntò davanti alla prospettiva dei giardini di Botafogo – la terra fresca, gli alberi, il viale verde e vivo come un serpente, ingabbiato a destra dai palazzi, dai negozi, dai cinema, e a sinistra dal placido mare costellato di barche a vela – prima ancora che Xavier avesse avuto il tempo di un qualsiasi avvertimento, di un’esclamazione di “attenzione” o di “guarda le macchine!”, il ragazzo era letteralmente schizzato via. Quando si accorse che Jaci, senza guardare da nessuna parte, attraversava il primo incrocio che intersecava il giardino, quello della rua Farani, in un salto, in un balzo, come un levriero da corsa sulla scia della lepre meccanica, e proseguiva, e andava avanti. Xavier, dapprima, trattenne il respiro, con l’intenzione di schizzare anche lui nel tentativo di accompagnare la folle corsa di Jaci, o di mettersi a correre e a gridare, chiedendo che qualcuno fermasse il ragazzo prima di vederlo morire fatto a pezzi dalle macchine ad un angolo di strada. Subito dopo, però, nonostante sentisse che il cuore gli batteva forte, si trattenne e continuò a camminare, tentando ancora di avvistare Jaci, che era un punto che si dissolveva in lontananza, sulle alture di rua Marquês de Olinda, ma già a quel punto chiedendosi , composto, intimamente calmo, se non sarebbe stata una soluzione, se l’incidente non sarebbe stato la cosa più spiegabile, la più comprensibile che si potesse immaginare. Avrebbe convinto la suora-portinaia prima, e Teodoro poi, che nessuno al mondo avrebbe potuto prevedere l’esplosione vulcanica, lo scoppio della bomba, il lampo del fulmine, o qualunque altro paragone di folgorante sorpresa fosse più giusto e più adatto (avrebbe scelto il migliore) a descrivere la corsa di Jaci senza alcun preavviso o indizio, corsa che solamente poteva finire, come malauguratamente era finita, in quel pauroso incidente, tragico, sanguinoso, che aveva reciso in un colpo brutale quel fiore delle foreste brasiliane, quel bambino a cui chiunque si affezionava a prima vista, come era capitato a lui, quando lo aveva visto comparire in cima alle scale, nell’atrio del…
S’improvviso l’urto di un braccio che si infilava nel suo, l’impatto del suo corpo, che descriveva quasi un giro completo, con la forza dell’arrivo di Jaci al punto di partenza, sudato, sorridente, stanco e riposato, una volta smaltite, in altre parole, la tensione e la concentrazione, come una corda d’arco che s’affloscia dopo avere scoccato la freccia, e il racconto trafelato, inframmezzato di risate e di smorfie, del rumore delle macchine che frenavano di colpo mentre lui attraversava, da parte a parte, la spiaggia di Botafogo, saliva il cavalcavia, faceva la curva e tornava dal lato opposto, dall’altra aiuola, fino ad arrivare lì da Xavier.
Xavier non alzò la voce, non fece rimproveri o partacce, pensando, mentre mentalmente scrollava le spalle, a future camminate, ad altre corse con attraversamenti di corsie per mezzi veloci. Per la prima volta sorrise persino a Jaci – e per la prima volta sembrarono amici – mentre risalivano insieme, lì di fronte, la rua São Clemente. (…) (Brano tratto dal romanzo Concerto Carioca, Editori Riuniti, Roma, 1990. Traduzione di Enzo Barca.) Antônio Callado, giornalista, biografo, romanziere e commediografo, è nato a Niterói nel 1917 ed è morto a Rio de Janeiro nel 1997. Le sue opere più importanti sono i romanzi: Quarup (1967), Bar Don Juan (1971), Reflexos do baile (1976), e Sempreviva (1981). Concerto carioca (1985) da cui è stato estratto questo brano, è il suo ultimo romanzo.
|