ROVESCIARE IL GOVERNO Brano tratto dal romanzo La preda Irene Némirovsky
Nelle tribune della Camera, una folle immobile, stipata tra le colonne, aspettava le sue star con silenziosa soddisfazione. Una folla sensibile non tanto alla precisione o alla profondità delle argomentazioni quanto al tono della voce, all’efficacia di una parola, di un gesto, di un’esclamazione. Giù, la sala era ancora vuota; le statue, le nicchie bianche, le colonne di stucco erano avvolte in drappi rossi il cui colore non evocava più il sangue delle rivoluzioni ma solo la porpora e la pompa dei teatri. Il pubblico delle gallerie diceva con divertita curiosità:
“Oggi Calixte-Langon parlerà degli affari della banca Sarlat. Lui ci è dentro fino al collo. Lo avete sentito? Non è niente male ….”.
Fuori, un crepuscolo di gennaio, in anticipo sulla stagione; un vento quasi primaverile soffiava violento sul lungosenna che Jean-Luc aveva percorso uscendo dal Palazzo di Giustizia. Le sue guance brucianti conservavano ancora il morso di quell’aria fredda e pura. Aveva lasciato il posto a un uomo anziano e stava in piedi, addossato a una colonna. Dall’alto di quello straordinario congegno che era la tribuna dell’oratore, sormontato dall’impalcatura aerea in cui si librava il presidente della Camera, Calixte-Langon si accingeva a pronunciare parole che lui, Jean-Luc, aveva preparato, a recitare la sua parte secondo il copione che lui, Jean-Luc, aveva predisposto.
Quale sarebbe stata la conclusione dello spettacolo? …
Il trionfo del primo attore, o la sua sparizione, il suo eclissarsi dietro le quinte, la sua rovina e la sua morte? …
La sorte di Calixte-Langon oscillava tra i due edifici in cui Jean-Luc era entrato quel giorno: la Camera e il Palazzo di Giustizia. Se le cose si fossero messe male, era indubbio che anche Calixte-Langon sarebbe finito nella piccola, fredda sala delle assise, nello stesso posto in cui, poco prima, Dourdan …
Jean-Luc scrollò il capo: non doveva pensare a Dourdan. Era … letteralmente intollerabile … Doveva dedicare tutta la sua passione, tutta la sua attenzione al presente, a quello che stava per svolgersi lì, a quello che già si stava svolgendo.
A un segnale che gli era sfuggito, infatti, la platea si era riempita da ogni parte contemporaneamente. Da tutte le uscite, da tutti i settori affluivano degli uomini. In un batter d’occhio, l’assemblea dei deputati – le comparse – aveva preso posto sui sedili imbottiti di velluto rosso. I loro volti esprimevano un’attenzione vaga, una certa noia. Nel corso della legislatura avevano sentito così tanti discorsi, recitato la loro parte in così tante rappresentazioni che la sensazione di novità si era attenuata.
Tuttavia, si accingevano a interpretare correttamente il loro ruolo. Quando Langon apparve, raggiunse la tribuna circondato dal cordone vivente formato dagli uscieri e si posizionò di fronte agli stenografi e ai giornalisti, i deputati lo accolsero con quello straordinario brontolio, cupo e profondo, che sale dalle viscere di una folla e sembra assecondare nell’uomo un istinto musicale. Come alle prime battute dell’orchestra, che segnalano l’inizio dello spettacolo, il pubblico si sporse in avanti con un brivido di piacere.
Langon attaccò quasi subito. Il mormorio che saliva dalla sala sottolineava ogni sua parola, ogni suo gesto. Jean-Luc ascoltava affascinato. Che magnifico attore … Che uso sapiente faceva della sua voce, del suo volto, della sua sincerità. Forse si sarebbe potuto rimproverargli un’eccessiva insistenza, uno sforzo inutile su frasi che da sole coglievano nel segno, ma l’acustica non era buona, bisognava alzare il volume della voce, e in ogni caso quelle stesse parole erano state così spesso usate da attori diversi che si erano in qualche modo logorate, avevano perso il loro significato, e bisognava sottolinearle con toni patetici o accentuarne l’ironia.
Con quanta attenzione lo ascoltavano adesso … Aveva cominciato a censurare la politica del proprio partito, pacatamente, con accenni prudenti, e quelli che non erano al corrente trattenevano il fiato, temendo il veleno del serpente nascosto sotto ai fiori. Brevi applausi si levavano a tratti dal settore degli avversari e subito si spegnevano, perché i suoi oppositori non avevano ancora ben chiaro dove Langon volesse andare a parare. Era davvero deciso ad abbandonare i suoi? … O si trattava di un’abile messa in scena? … Langon li lasciava aspettare, struggersi nel dubbio …
Ma ecco che la voce si alzava, lasciava cadere sulla folla frasi forbite e retoriche, che lo stesso Jean-Luc aveva scritto e che adesso non riconosceva. Quel Calixte-Langon, così mediocre in vestaglia e pantofole, sembrava a un tratto un’altra persona. A poco a poco Jean-Luc dimenticava il Langon con cui aveva a che fare, per vedere solo il personaggio pubblico che si esibiva su quella ribalta. Era una sensazione strana. Aveva conosciuto quell’uomo nella sua meschinità, nella sua debolezza, ed ecco che lo rivedeva nobilitato dal prestigio legato a un nome, a un volto noto, dall’attenzione dei suoi pari, dal silenzio e dall’immobilità della folla in ascolto.
Langon aveva allontanato con un gesto brusco i fogli che teneva davanti; era sceso dalla tribuna e adesso improvvisava. Si abbandonava all’audacia, all’ironia, al sarcasmo; infangava e adulava di volta in volta i suoi avversari. A tratti, il tono ardente, quasi ieratico con il quale pronunciava certe parole come “libertà”, “ideale”, “progresso” faceva fremere non solo la folla, ma lo stesso Jean-Luc, di un’emozione in qualche modo fisica, legata non tanto al significato delle parole stesse, al loro contenuto, quanto alla vibrazione della voce.
Con una sola frase, Calixte-Langon aveva demolito le accuse che gli venivano rivolte. Nella sua ingenuità, Jean-Luc aveva raccolto le prove, ma lui, con istinto infallibile, non ne teneva conto, le disdegnava, le sostituiva non già con delle cifre o dei riferimenti precisi, ma con l’eloquio appassionato, con battute folgoranti. Alle proteste rispondeva alzando la voce così da coprire senza sforzo apparente i clamori della sala, e questo suscitava l’ammirazione come avviene per la qualità fisica della voce di un attore, che sale ai toni più alti con naturalezza e grazia, come se niente fosse.
Adesso poteva permettersi di lasciarli schiamazzare, perché era sicuro di riprenderne il controllo quando avesse voluto. Tirò il fiato e li guardò: erano tutti ai suoi piedi, gli amici del giorno prima, i rivali, gli invidiosi, gli indifferenti, tutti quelli che gli avevano voltato le spalle. Le loro grida lo investivano come un’ondata. Gli scoppi di risa, ironici, tonanti, gli “Ah! Ah! Ah!” si propagavano via via e galvanizzavano i banchi fino a formare un’unica linea invisibile, come tracciata con il righello, al di là della quale si scatenavano applausi fragorosi.
Jean-Luc pensava che stava lì la loro forza, una forza terribile che non bisognava misconoscere e che consisteva nel fare numero, nel fare blocco. Ed era stato proprio lui a dare forma a quella massa? … Ma no, lui era soltanto l’artefice occulto. Tutto il merito spettava all’impareggiabile interprete, che adesso aveva ripreso a parlare, senza dare segni di stanchezza, e parlava di sé, della sua vita, dei suoi sentimenti. Nella sua voce vibravano note isteriche, come se faticasse a trattenere le lacrime ma, anziché vergognarsene, si apprestasse a lasciarle scorrere sotto gli occhi di tutti. Un ampio gesto delle braccia aperte e poi richiuse sul petto sembrava mettere a nudo non solo il suo cuore, ma le sue pene, le prove che aveva subito e la purezza dei suoi propositi. Fu l’ultimo exploit: scrosciarono le ovazioni, era un trionfo. Circondato da amici, Calixte-Langon si stava allontanando dalla tribuna, un po’ malfermo sulle gambe ma raggiante. Lo spettacolo era finito; restava solo la formalità che consisteva nel rovesciare il governo, dare a Calixte-Langon un ministero in quello che avrebbero formato i suoi ex avversari, e procurare a Jean-Luc un posto di capogabinetto. Il mondo, finalmente, offriva una breccia attraverso la quale si poteva penetrare, una porta che si poteva forzare. Brano tratto da La Preda. Adelphi Edizioni, Milano, 2012. Traduzione Laura Frausin Guarino. Irčne Némirovsky (Kiev, 11 febbraio 1903 – Auschwitz, 17 agosto 1942) č stata una scrittrice francese. Nata in Ucraina, di religione ebraica convertitasi poi al cattolicesimo nel 1939, ha vissuto e lavorato in Francia. Arrestata dai nazisti, in quanto ebrea, Irčne Némirovsky fu deportata nel luglio del 1942 ad Auschwitz, dove morě un mese piů tardi di tifo. Anche il marito, Michel Epstein, che aveva cercato di farla liberare, verrŕ gasato nel novembre dello stesso anno al suo arrivo ad Auschwitz.
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