STORIA DI UN BRILLANTE Brano tratto dal romanzo Venti ore di lettiga Camilo Castelo Branco ─ Raccontami tu una storia ora ─ disse António Joaquim.
─ Io di solito le vendo ─ risposi con un grave e sofisticato disinteresse per l’arte. ─ Ti racconterei una bella storia, se mi dessi questo brillante, che mi sta accecando come lo splendore di Geova sul popolo eletto.
─ Questa pietra ─ osservò il mio amico, mostrandomi l’anello ─ anche lei ha una storia. Faceva parte dei brillanti di mia cugina Adriana.
─ Ascoltiamo, quindi, la storia dei brillanti di tua cugina Adriana.
─ È sentimentale!... Rallegrati! Mia cugina è nata a Oporto. È rimasta orfana a dieci anni, in semipovertà. I brillanti della madre, e quel poco, che si riuscì a salvare dell’onorato fallimento del padre, fu quello che le spettò, quando, ai sedici anni, uscì dal Recolhimento de S. Lázaro per sposarsi con un vecchio, ex socio della sua famiglia. Le dissero che era suprema dimostrazione di giudizio sposarsi con il socio del padre, perché era vecchio e perché era ricco: essendo vecchio, l’avrebbe amata come i giovani non amano; essendo ricco, l’avrebbe lasciata ricca e abbastanza giovane per potersi poi scegliere un marito. Adriana, ascoltate queste ragioni da signore anziane ed esperte, soffocò quelle del cuore, e si concesse all’amore e alla ricchezza del vecchio, con la tacita condizione di desiderare incessantemente che lui morisse per sposare un giovane. La società perdona tale immoralità.
Il marito oltrepassò le promesse di amore infinito. L’amava quasi con la ferocia di un molosso che spia la caverna, nella quale si è nascosto il capriolo. Nessuno la vedeva: espediente unico di sua invenzione per far sì che lei non vedesse nessuno. Non la portava al teatro nazionale, perché le commedie erano attentatrici dei sani costumi. Non la portava ai balli, perché era indecoroso per signore sposate, consegnarsi alle furie acrobatiche di un ballerino. Se non ci fosse stata una messa all’alba, il marito sarebbe stato capace di rinnegare la religione dei suoi genitori per non portarvi la sposa. La mia povera cugina, allo spuntare dei giorni santificati, si copriva con lo scialle, e seguiva il marito, che, nonostante tutto, la spiava dall’alto del bavero del cappotto in cui si imbacuccava. Se lui vedeva nella Chiesa do Carmo, due volte, lo stesso uomo, la domenica successiva cambiava per la Trindade, e da questa, per lo stesso motivo, per quella di S. Nicolau, anche se i soggetti sospettati si trovavano in devota estasi davanti all’altare, e la luce del tempio non permetteva tali albe d’amore a cuori mondani.
Adriana era una ingenua ed eccellente ragazza. La pazienza con la quale sopportava questo sequestro dei minimi piaceri della vita l’avrebbe resa beata, se una compagna del Recolhimento, fortunatamente sposata con un marito discreto, non l’avesse incitata alla ribellione contro la tirannia matrimoniale. Si parlavano di rado; ma si scrivevano una volta alla settimana. È evidente che mia cugina contrabbandava tale corrispondenza dalle grate coniugali, da quando l’onnipresente sposo le aveva fatto notare che non era contento di tali letterine, nonostante le prime fossero innocentissime. Dopo la proibizione, Adriana sfogò le proprie pene all’amica; riferì minuziosamente la sconsolatezza delle sue trascinate ore; il supplizio della sua solitudine e del suo derelitto cuore; l’invidia che provava per le sue domestiche; il desiderio che aveva di morire… Ma parole che denunciassero un indebolimento della dignità, neanche una ne scrisse mia cugina, nonostante l’amica non evitasse di insinuarle una luce infernale nel cuore ottenebrato.
Francisco Elisário, così si chiamava il marito di Adriana, non aveva studiato il sesso femminile, come certi saggi sono abituati a farlo, sbagliandosi di continuo e imparando soltanto di essersi sbagliati, come altri che mai che si cimentarono con materia tanto incomprensibile. Il miglior maestro, in una scienza così astratta, è l’amore. Amore così smisurato e scaltro era quello che Francisco Elisário custodiva nel profondo dell’anima, che tu potresti attribuirlo a eroi e poeti; ma io, nella piccola sfera delle mie relazioni con l’umanità, conobbi amori straordinari e duraturi solo negli Elisário. Le passioni degli eroi, celebrate nei secoli, siano esse dei Petrarca o dei Camões, restano scolpite in medaglioni, appesi ai frontali della storia; la critica, ciò nonostante, se, una bella mattina, si svegliasse sincera e giusta, ridurrebbe a dimensione umana i cuori dei semidei, e ci dimostrerebbe, di fronte alle confessioni degli eroi stessi, che Petrarca, nonostante piangesse in sonetti una Laura, signora di sano giudizio, e senza tener conto degli ordini sacri, lasciò numerosi figli, e morì allegramente tra di loro. Luís de Camões, che buoni autori fanno morire di nostalgia per Catarina e di compassione del nido paterno, non morì di questo, né di miseria, come altri dicono: morì di malattia, di cachessia forse, dovuta alla sregolatezza della vita in Oriente. In quanto alla celebrità dei suoi infausti amori, con la dama della regina, amico mio, devi sapere che sono molte le dame incensate nei suoi sonetti, e così bassi alcuni dei suoi amori, che lui stesso si confessa pieno di vergogna per aver amato una nera. Ecco le passioni dei grandi poeti che devono stupire le generazioni per l’eternità… Io credo generalmente nell’amore dei Francisco Elisário, e in particolare nell’amore del marito di mia cugina. Non credo nella solidità di nessun altro amore, né nella perspicacia di coloro che studiano le donne, e pensano che ci sia una ortopedia con la quale le storpiature dell’anima vengano raddrizzate.
Francisco Elisário indovinò che Adriana prestava attento orecchio alle istigazioni di qualche demonio di natura malvagia. Si mise di guardia, e sorprese una domestica con una lettera. Avrebbe voluto strappargliela dal seno a filo di spada, visto che l’onestà dei suoi costumi non gli consentiva di impossessarsene a mano nuda, in un luogo tanto vulnerabile e di intangibile pudicizia. La domestica, tremante di terrore, consegnò la lettera, che, pressappoco, diceva così:
«… Sono stata ieri al teatro lirico. Che musica deliziosa quella del «Trovador», mia cara Adriana!... Ti ho sempre ricordata: sei stata il mio pensiero triste in quelle ore allegre! Tu, così giovane e bella, lì chiusa, a sentire russare il mostro!... Che vita la tua! che giovinezza sacrificata all’oro maledetto e pesante come la lapide di una sepolcro!... E quello che è , più di ogni altra cosa, atroce è che tuo marito gode di una salute invidiabile! Sei sposata da tre anni, e non mi hai mai detto che tuo marito era pallido!... Muoiono gli angeli, patiscono gli uomini di buon cuore, come il mio sposo, e quel grassone vive nella gioia di una salute di ferro!...», ecc.
Elisário andò al cospetto dalla moglie con questa lettera, e ululò per lungo tempo. Adriana ribatté, quando la pazienza le venne meno, e lui, accecato dalla minaccia della separazione, arrivò ad alzare una sedia per abbattere l’alterigia della moglie.
Il giorno dopo, mia cugina fuggì a casa della sua amica, e di lì scrisse a mia madre, chiedendole di accoglierla, fino a quando non avesse trovato un convento dove rifugiarsi.
Mia madre andò a Oporto, e condusse Adriana a casa nostra, con la clausola di non rimanere molti giorni fuori dal convento, affinché le male lingue non le avvelenassero la fuga.
Francisco Elisário, nel frattempo, impegnò alcuni mezzi giudiziari per riprendersi la moglie; ma Adriana, difesa dal marito della sua amica, trovò il modo di eludere la legge protettrice dei mariti.
Pochi giorni rimase con noi mia cugina. Mia madre agì con austerità, rifiutandosi di dare asilo permanente a una signora sposata, che avrebbe intentato un’azione mal fondata di divorzio, contro la volontà del marito.
Elisário aveva dotato la moglie di trenta contos de réis. Adriana, oltre ai mezzi sufficienti alla sua sussistenza in un convento, voleva i suoi gioielli, valutati quattromila cruzados, e nient’altro.
Adriana si era ritirata a Vairão. Viveva più serena. Aveva dalla sua la purezza della coscienza. Nessuna la vigilava o la sospettava. Ogni quindici giorni, andavamo a trovarla, mia madre, mia moglie e io. Tuttavia, il marito, indementito dall’ira, in cui era degenerato l’amore, sosteneva che sua moglie gli era fuggita per sciogliere i vincoli sacri, accettati sull’altare. Questa frase, che suscita i calorosi plausi della morale pubblica, era stile da giureconsulto; ma Francisco Elisário non era uomo da frasi del genere, né avrebbe difeso la tesi della santità dei vincoli coniugali. È certo, che era la gelosia a bruciargli le viscere, il fegato specialmente, organo ammalatosi nelle regioni africane dove era stato. L’uomo concepì lentamente il sospetto che ero io il concorrente nel cuore di Adriana, povera ragazza, che a malapena sentiva l’organo nella piena delle lacrime, che le straripavano sulle gote esangui.
Un giorno, appare a casa mia un uomo grasso e sanguigno, con due occhi scintillanti, e impermeabile di caucciù. Era Francisco Elisário, che veniva a chiedere a mia madre notizie della sposa. La stupita signora, quando vide, per la prima volta, il marito di sua nipote, comprese la flagellazione dell’infelice Adriana, nei tre anni di sottomissione e di terrore con una creatura tanto inusuale! Eppure, siccome lui, in linguaggio umano, diceva di amare la moglie, mia madre mi ordinò di accompagnare a Vairão il signor Elisário, e di farlo ascoltare da mia cugina.
Ottenni che Adriana l’ascoltasse. Mi risulta che Elisário, appena entrato nei penetrali della grata, volendo inginocchiarsi davanti alla pallida e bella sposa, rimase accoccolato, a causa del fegato appesantito, della milza e delle viscere circostanti. Quella posizione, così naturale, e non imitata dai damerini, commosse Adriana, che gli ordinò di alzarsi in tono di affettuosa compassione. Espose Elisário le sue angustie, e concluse chiedendo alla sposa di tornare ad assumere il governo della casa, che andava a rotoli.
Quell’espressione «a rotoli» stonò alle orecchie di Adriana. Si addolorò di sentirsi meramente necessaria all’amministrazione domestica.
─ Sente la mancanza di una serva, non è così? ─ domandò la sposa. ─ Non le mancherà chi amministri la sua casa con più zelo. Quello che io le chiedo, signor Elisário, sono i gioielli che erano di quella santa donna di mia madre. Se ritiene che sostentarmi sia un’elemosina, la dispenso da tale incombenza; i miei parenti mi daranno gli avanzi della loro tavola.
Il marito abbandonò il tono supplicante per assumere quello dell’insolenza. Dichiarò che non avrebbe dato niente alla sposa infedele che non lo amava. L’epiteto infedele inasprì la piaga e il rancore. Elisário, sollecitato a spiegare il significato della parola, rispose che una moglie, che acconsentiva che chiamassero mostro il marito, era oltremodo perfida. Questa ragione, che non mi sembra del tutto sciocca, fu l’ultima che mia cugina ascoltò. Si alzò allora schiumante d’amor proprio, e si allontanò dalla grata.
Francisco Elisário uscì nel cortile del convento, e mi disse:
─ Molto bene!
─ Vi siete rappacificati? ─ domandai io con sincero interesse.
─ No, signore… Si è impossessato di lei il diavolo; ma se lei, signore, crede che la mia fortuna andrà nelle mani di mia moglie, si sbaglia … neanche nelle sue… ─ aggiunse lui, comprimendo tra i pugni il prominente addome adiposo.
Io lo fissai con stupore, perché non mi sembrava cosa facile impiccare quell’uomo senza un patibolo ad hoc, un patibolo speciale per lo strangolamento di quello sferoide.
Francisco Elisário montò, colpì con le gambe i fianchi espiatori del mulo e si diresse verso Oporto. Io tornai al parlatorio per manifestare il mio stupore, e trovai mia cugina mediamente costernata, e più disposta a scherzare sul mio risentimento che a compatirsi per l’offensiva gelosia del marito. Mi riferì l’essenziale del loro dialogo, e concluse incaricandomi di dire a mia madre di non preoccuparsi di dover provvedere a lei, che lei, abituata al lavoro e alla pazienza, si sarebbe sostentata con mezzi propri, senza ricorrere a favori dovuti. Adriana, come vedi, aveva preso a male che mia madre le avesse spedito a Vairão lo sposo e una lettera di pii consigli per farli riconciliare.
Di lì andai a casa, assai commosso per le disavventure di mia cugina, nonostante lei dissimulasse con il finto sorriso dell’onesta povertà. Povera ragazza! Né la felicità del cuore, che è la vera moneta fabbricata dagli angeli; né la felicità della mente, che è la falsa moneta fabbricata dagli uomini! Vedersi così, tanto giovane e graziosa, sequestrata al mondo, nutrita di illusioni ingannevoli, sperando di trovarvi quanto non le era stato dato: un’anima, che sembra cosa tanto facile da trovare, eppure ci sono persone che hanno due, tre, più anime, a disposizione! Adriana reclusa in un convento, in un sepolcro, popolato di mummie semoventi, monache che avevano già mandato al cielo lo spirito, ed erano rimaste sulla terra a spurgare in povertà alcuni peccatucci che nulla avevano a che fare con l’ anima! Come doveva passare la vita una donna di venti anni in quel divorarsi continuo, incapace di chiedere alla società un posto al banchetto delle sue facili allegrie, forse criminali, ma esemplificate da molte donne prive di colpe!
Feci queste e altre riflessioni a mia madre, che pianse copiosamente, promettendo di andare a prendere Adriana al convento, e di non badare alle maldicenze del mondo, rimettendo l’ingannevole giudizio degli uomini al tribunale divino. Tuttavia, prima di ricorrere a questo lodevole espediente, andò lei stessa a Vairão, con l’intento di convincere la nipote a sacrificare alcuni anni della sua gioventù a una vecchiaia tranquilla. Le chiese di scrivere al marito in termini miti, invitandolo alla riconciliazione, avendo dalla sua che lui non poteva rinchiuderla come sposa indegna di fiducia.
Adriana obbedì: è che ormai aveva obbedito alla ragione che le parlava dalla serratura della cassaforte di Francisco Elisário. Perdoniamola, la perdonino le donne, che hanno più poesia nel petto che tutti i sonetti di Petrarca; la perdonino quelle vergini dagli occhi umidi, che passano accanto ai letamai di questo mondo, e per miracolo non vi cadono, con gli occhi fissi sull’azzurro del firmamento! La perdonino, infine, le anime scaltre che sanno cos’è la ragione che parla dalla serratura di una cassaforte con nelle viscere cento contos, sebbene sopra vi sia seduto, come su di una botte, un Sileno, che, beffandosi del mondo, disegna da orecchio a orecchio una bocca, simile a quella dell’inferno, affamata di tutte le intenzioni generose, di tutta la poesia dorata, di tutte le bionde e angeliche visioni del cuore migliore!
─ È perdonata! ─ interruppi io. ─ Dichiaro in nome dell’intero pianeta, che ha l’onore di ospitarci, che tua cugina è perdonata. Scrisse, quindi, al marito…
─ Sì, gli scrisse. Accompagnai a Oporto mia madre che aveva con sé la lettera, la quale, disgraziatamente, aveva stile, era una lettera di testa, composta con ripugnanza del cuore, lettera che poteva essere santa o immorale ─ santa perché offriva il collo al giogo, immorale perché mentiva per amore della ricchezza.
Non la capì Francisco Elisário, neanche mia madre ne capì granché, quando il marito di Adriana le chiedeva spiegazioni dello sproloquio
─ Non si capisce! ─ gridava lui. ─ Mia moglie dice qui…
E lesse:
─ «Ti do la mia anima; ti do la mia vita; ma voglio aria, voglio la libertà di respirare.» Le ho mai proibito io di respirare?! ─ domandò iracondo lui. ─ Sua nipote le ha detto che io non le facevo prendere aria?!
─ No, signor Francisco; ─ rispose mia madre. ─ Adriana vuol dire, penso, che ha bisogno di maggior libertà, e di maggiore fiducia da parte sua, signore.
─ Allora sta fresca! ─ esclamò lo sposo in modo pittoresco. ─ Per favore mi guardi in faccia! Ci vede la S di stupido?
─ Nossignore.
─ E allora, amica mia, non so che farci. Libertà è il governo della casa di suo marito. Commedie e balli è questo che vuole? Le commedie sono la perdizione del genere umano; e i balli i lacci che il demonio mette alle creature del sesso debole. Ne so di storie al riguardo, signora, da far mettere le mani nei capelli!... La sa un’altra cosa? Ho fatto una grande ragazzata a sposare sua nipote. Me lo dicono tutti.
─ Ragazzata! ─ interruppe mia madre con indiscreta franchezza. ─ Quello che lei ha fatto a sessanta anni è stata una ragazzata molto tardiva… Aveva già l’età per riflettere…
─ Mi trova molto vecchio?! ─ interruppe lui adirato. ─ Guardi che potevo scegliere, e mi sono sposato per carità… Un uomo con cento contos…
─ Si sposa per carità…
─ Proprio così e basta! Insomma, risponderò alla lettera di mia moglie, dopo aver valutato il caso. Consulterò il mio socio.
─ Non lo faccia, signor Francisco ─ disse mia madre, mentre si alzava per uscire. ─ Sua moglie avrà un piatto alla mia tavola, e ha sufficienti virtù per meritare che Dio le faccia sentire il rimorso di averla calunniata.
Presumo che Francisco Elisário rimase un po’ scosso; ma volle consultare il socio.
─ Conosci il signor Eusébio Luís Trofa?
─ Lo conosco e rispetto quell’uomo. È onesto: lo dicono tutti quelli che si intendono di uomini onesti.
─ Non per contraddire te e tutte queste persone, chiedo il permesso di riferirti su quali fondamenta poggia l’onestà del signor Eusébio Luís Trofa, Càstore del Polluce-Elisário. Ma anche Castoro, anfibio, che appartiene ai mammiferi della famiglia dei roditori (Castoro-Eusébius di Linneo). Francisco Elisário raggranellò un bel capitale con la sua scaltrezza…
─ Ha fatto benissimo ─ lo interruppi. ─ Considero onorata l’intelligenza universale di coloro che la impiegano per arricchirsi. Nella prostrazione della mia stupida povertà ancora mi resta l’occhio penetrante della coscienza per vedere e ammirare la perspicacia degli uomini che si arricchiscono, e ancor di più quella di coloro che nella loro opulenza conservano, con approvazione pubblica, il titolo di onesti. Questa sì che è sapienza, questa sì che è la prova delle grandi capacità dell’intelletto umano!... Mi racconterai ora con frasi circonvolute la storia di Eusébio Luís, facendomi fare smorfie di stupore. Quest’uomo ha decapitato qualche amico milionario? Ha avvelenato tre famiglie che l’avevano nominato erede?
─ Niente di tutto ciò, no: si è sposato con la madre di un suo amico defunto, che aveva ereditato molti contos de réis…
─ È, quindi, questo il peccato, che prova l’astuzia di Eusébio Luís Trofa!? Mi sembri… La gratitudine per cui ti sono debitore per venire con te in lettiga, mi trattiene dal dire che mi sembri un arcistupido!
─ Aspetta, l’immoralità del matrimonio è nel prologo. Nella cittadina di Arcos c’era una povera giornaliera che, da circa quattordici anni, andava a spaccare il pietrisco sulla strada da Oporto a Braga. Era una creatura sporca e lacera, di cinquanta e più anni, incartapecorita dal sole, con mani e piedi rovinati e disarticolati dal pesante lavoro di caricare e martellare pietre.
La donna aveva mandato un figlio in Brasile, che a malapena sapeva il nome del padre, e che riuscì facilmente a dimenticare quello della madre. Questo tipo, mentre rendeva liquidi cento contos de réis con i quali sarebbe tornato in Europa, morì senza lasciare disposizioni. L’eredità fu depositata al consolato portoghese, in attesa di accertamenti.
Eusébio Luís, originario di Arcos, sapeva da dove veniva il defunto, e così dichiarò al consolato. Arrivarono in Portogallo i dovuti avvisi, ed Eusébio uscì dallo stesso piroscafo che li portava.
Arrivò ad Arcos, e si informò con abilità sull’esistenza della madre del defunto. Dopo vari tentativi, la trovò a spaccare pietre sul viadotto di Arnoso. La chiamò in disparte, e le disse che aveva conosciuto il figlio in Brasile, e aveva l’ordine di cercare e soccorrere la madre del suo amico, tirarla subito fuori dalla brutta situazione in cui l’avesse trovata. Detto questo, la portò con sé a Braga, le fece indossare vestiti modesti e puliti, la fece sedere con lui a una tavola imbandita, e fece in modo di non farle venire un’indigestione.
Dopo tre giorni andò con lei a Oporto.
In quel periodo, più di sei persone cercavano ad Arcos la signore Antónia Pires, madre del defunto João Pires de Almeida, e uscivano da Arcos per cercarla in strada. Il capo ingegnere era infastidito dalle domande degli intermediari dell’eredità, che si nascondevano gli uni agli altri. Eusébio Luís Trofa lesse annunci nei quali Antónia Pires veniva avvisata di non lasciarsi convincere da un vagabondo, che era andato a cercarla al viadotto di Arnoso. Alla prefettura di Oporto c’erano istruzioni per trovare la donna rapita; ed erano già state prese precauzioni per inabilitare qualsiasi forma di contratto, frode o dolo, che sarebbe venuto alla luce. Eusébio chiese consiglio al suo amico Francisco Elisário.
Risposta dell’uomo onesto:
─ Quello che deve fare lei, signore, e subito, è sposarla; e a quel punto sarà inutile starle alle calcagna.
Antónia Pires rimase atterrita, quando Eusébio le offrì la grande e grassa mano, e, per vestito da sposa, un ritaglio di seta gialla, e un cappello verde con nastri rossi, e per rifinire il tutto due grappoli di uva, e un uccellino tra le foglie, che si dava arie da calandra.
Tutto questo incantò la signora Antónia Pires, che spesso aveva ammollato con le lacrime le croste del suo pane.
Il matrimonio si celebrò a Cedofeita con dispensa dalle pubblicazioni, ritornarono in vettura, loro e i testimoni, e andarono a cena a Reimão.
Di lì a qualche giorno, Eusébio mise al corrente la sposa che le era morto il figlio. Antónia pianse, come tutte le madri; e, dopo aver saputo la perdonabile astuzia del marito, che l’amava con tutto il cuore, pianse ancora per essersi arricchita contro la volontà del figlio ingrato.
Eusébio lasciò la moglie a Oporto alle cure del suo amico Elisário, e prese il primo piroscafo per riscuotere l’eredità del figliastro. Questo è un assaggio della biografia di Eusébio Luís Trofa.
─ Non vedo nessuna immoralità nell’accaduto, António Joaquim! ─ osservai io. ─ Se Eusébio Luís non si fosse sposato con la signora Dona Antoninha Pires, signora per cui provo gran rispetto, l’avrei sposata io, e non so se l’avresti sposata tu, in un paese dove la bigamia fosse permessa. Ho l’onore di conoscere Dona Antónia, per averla vista molte sere al teatro S. João, in lacrime, quando il tiranno nei drammi vuole fare a pezzi le ingenue vittime. Quel pianto denota sensibilità e intelligenza. Quanto all’aspetto, se non attrae, neanche disgusta. Le piume di marabù, i nastri, i fiori, le spille, e l’aureola ideale che impreziosisce tutte le teste quotate a cento contos de réis, non ti dirò che la abbelliscano, ma, parlando in senso plastico ed estetico, le donano, non so come, un non so che, chiamato simpatia. Io non so davvero con quale diritto tu censuri in Eusébio Luís quello che in giro è tollerato e lodato in individui, che beffeggiano gli Eusébio. Lui ha negoziato il cuore della donna? Si è sposato con lei proprio perché era ricca? Be’, è ammirevole!... Quanti argonauti conosco che hanno conquistato il vello d’oro attraverso mari ben più melmosi!... Quanti giovani, che sembravano incendiati dalla sete degli ideali, ho visto abbassare la testa alla fonte sudicia di una sordida cupidigia! E tu credi che la derisione pubblica li mortifichi? Che Dio ci scampi! La derisione pubblica ha smesso di mortificarli da quando hanno cominciato a sguazzare nel pantano comune, dimostrando che le leggi dello spirito tanto elevano le persone all’ideale, quanto le leggi inviolabili della materia ci tirano verso la dolce e soave stupidità di possedere cento contos de réis. Il sentimentalismo, la poesia, quel sottile e puro intelletto, che ci rende eterei e ci fa giungere in cielo, è quanto ci è rimasto dell’Adamo primitivo, prima della colpa; è una reminiscenza della prima capanna, che il Creatore costruì per l’uomo al centro del creato, suo regno; tuttavia, dopo la caduta che ha subito l’umanità, è necessario che tutti cadano nel fango, dove fermenta quella cosa putrida chiamata denaro. Non hai visto il poeta Lamartine mentre conversa tra le nuvole con gli angeli? Quindi saprai anche che lui ieri è sceso da lì, per chiedere, quaggiù, denaro alla Francia. Non senti in Portogallo, e in tutte le parti del mondo dove ci siano scrittori, grandi poeti, interpreti degli uccellini, e dei manti erbosi, dei venticelli, gridare affinché si faccia una legge sulla proprietà letteraria, proprietà di un’ode alla luna, e di un’altra al sole, e di una quartina a una ragazza con tre stelle? Non senti quest’urlo che chiede denaro? Come giustifichi, quindi, il tuo stupore se uomini come questi, come Eusébio, si accaparrano un centinaio di contos con il più onesto e lecito dei mezzi? Che pensi tu del principe di Polignac, sposato con la figlia del capitalista Mirés? Chi può prendersi gioco di matrimoni tanto frequenti in Portogallo, spesso preceduti da episodi molto più irrisori del matrimonio di sua eccellenza Dona Antónia Pires?
─ Sono costernato! ─ esclamò António Joaquim. ─ Hai a tua disposizione profluvi di parole, che sono cataplasmi emollienti per il mio spirito. La lettiga ti abbruttisce, amico mio! Se vuoi, sporgiti, e prendi aria.
─ Sto bene, sono rozzo, ma meno del necessario per essere beato; ma queste riforme si fanno lentamente. Torniamo al racconto.
─ A Oporto subito mi dissero ─ continuò il mio amico ─ che Eusébio Luís Trofa era un individuo pestilenziale, che condizionava pesantemente l’anima e lo spirito di Francisco Elisário ma che per mancanza di ingegno si affidava ai lombi di quest’ultimo. Appena venni a sapere chi era la seconda coscienza del marito di mia cugina, andai a trovare il riccastro, per renderlo favorevole alla reclusa di Vairão. Sapevo che mi sarei confrontato con un uomo furbo, un furbo-cattivo per vigliaccheria e malvagità, che è il grado supremo della scaltrezza umana. A quei tempi, la mia energia morale andava di pari passo con i santi insegnamenti degli antichi apostoli, che predicavano ai principi barbari le leggi di Cristo, civilizzatore delle anime…
─ E in questo momento ─ interruppi io ─ mi sembri un apostolo! In merito al signor Trofa, penso che hai stile da vendere! António, dove sei andato a predicare!...
─ Ammirerai la mia parola onnipotente e il posto scelto per il discorso. Mi avevano detto che Eusébio Luís e la moglie erano al teatro S. João ad assistere per la dodicesima volta alla rappresentazione della Strage degli innocenti, tragedia che aveva un tale potere di commuovere gli animi, che chiunque la vedesse migliorava. Entrai nel palco, nel momento in cui Erode ordina di sgozzare tutti i bambini della Giudea, e si chiude il sipario sull’orrenda carneficina, che sarebbe stata messa in scena dietro il telone. Dona Antónia Pires, in quel momento, inzuppava di lacrime il fazzoletto; ed Eusébio Luís con il pollice della mano destra, e l’altro della sinistra si sfregava gli occhi, come se le lacrime gli procurassero prurito. Questo vedevo dalla fessura della porta del palco, ed entrai, prima che i rubinetti della sensibilità, aperti da Erode, si chiudessero. Fatti i convenevoli, invocai l’ispirazione. Eusébio, all’inizio, credette che fossi un attore che veniva a offrirgli un biglietto per uno spettacolo, e disse subito:
─ Se mette in scena la Strage degli innocenti, prendo un palco.
─ Non sono un attore ─ dissi con un gesto abbattuto e voce cavernosa, ─ sono il messaggero di un’anima che soffre, di una creatura che patisce, tanto innocente quanto i bambini che l’empio Erode ha appena ordinato di sgozzare!
Dona Antónia aprì la bocca e il marito chiuse la sua. Osservai questa dinamica e pensai che lo stesso identico sentimento produceva effetti contrari alle articolazioni mandibolari dei due coniugi; e da questa reazione meccanica dedussi che la bocca dei due era l’organo indicativo delle sensazioni della loro anima, fatto importante, se non unico, per provare che può rinascere il sospetto che non ci sia anima alcuna, né essenza incorporea, e che la sede delle sensazioni si trovi nel mento.
Appena Dona Antónia cominciò a chiudere la bocca, ed Eusébio ad aprire la sua, a seconda della loro indole, approfittai abilmente dei due minuti di sorpresa, e dissi con tono lamentoso:
─ L’infelice che soffre è Adriana, la disgraziata sposa di Francisco Elisário, uomo d’onore, ma ingiusto; cuore di angelo, ma angelo decaduto dalla sua grandezza. Sì! ─ continuai io, con un occhio su ognuno degli ascoltatori sospesi. ─ Sì! Adriana, in questo momento, avrebbe potuto, come lei, Dona Antónia, stare qui a gioire del dolce piacere di assistere all’infanzia sgozzata, piacere innocente che gli Erodi del nostro tempo perseguono in modo tirannico. Che male ha fatto al mondo, che male ha fatto a suo marito la nobile Adriana, per, nel fiore degli anni, stare tra le inferiate di un convento, nostalgica dello sposo, nonostante… sì, nonostante, dico, lui l’abbia voluta seppellire viva!
─ Questo non mi risulta! ─ interruppe Eusébio, indurendo il volto in difesa dell’amico. ─ Il mio socio Francisco Elisário sarebbe incapace di farlo… Seppellirla viva!... Signore, chiunque lei sia, si sbaglia. Il mio amico ha avuto un diverbio con la moglie, le voleva tirare una sedia; ma non ci è riuscito. Questo è quello che è successo. Ma ucciderla viva, una fandonia!
─ Vorrei il permesso per spiegarmi, signor Eusébio Luís ─ ripresi io. ─ Seppellire viva una moglie è… sa lei che cosa significa? Lo sa lei, lo sa Dona Antónia? Oh! Lei di certo non lo sa, perché Dio le ha procurato un marito, che è la bontà in persona, e il cuore più generoso che si possa trovare nel petto di un marito! Un marito che l’accompagna ai giardini di S. Lázaro e alle Fontaínhas; un marito che le ha offerto le saporite merende di Reimão; un marito che la porta a teatro; e infine, un marito che indovina i suoi desideri per riempirle di fiori il sentiero della vita. Chi ha un marito come il suo, Dona Antónia?
─ Grazie a Dio! – interruppe lei scossa ed intenerita sul punto di piangere. ─ Ho un marito come ce ne sono pochi.
─ Io non ne conosco altri ─ aggiunsi io.
─ Siete gentili! ─ mormorò Eusébio; continuando ad aspirare il tabacco, scrollandosi i resti di rapè dalla camicia con schicchere sicure; ─ ma guardi che anche il mio amico Francisco Elisário non è un cattivo marito ─ aggiunse lui.
─ Anch’io credo di no; tuttavia, un’ingiusta gelosia pregiudica la sua bontà, e la sorte della sposa. Lei, signor Eusébio, sposato con Adriana, la chiuderebbe in casa, privandola di tutti gli onesti piaceri di questa vita? Vorrebbe che lei piangesse in una silenziosa solitudine i genitori che tanto l’avevano amata? La lascerebbe abbandonata al suo proprio dolore, a consumarsi nell’impossibilità di conversare con le sue amiche, di andare alle feste di chiesa, di far visita agli altari nella settimana santa, di distrarsi una domenica in campagna, di vedere la Strage degli innocenti, o Sant’Antonio, Taumaturgo? Lei farebbe questo a sua moglie?
─ No, io no!
─ Ecco che cosa significa seppellire viva una moglie, signor Eusébio! Ecco quello che ha fatto il suo socio alla candida e innocente sposa che, per sfortuna di entrambi, gli ha affidato giovinezza, bellezza, virtù, speranze, tutto, signor Eusébio e Dona Antónia, tutto!
A questo punto, D. Antónia riempì la mano destra con il fazzoletto, e lo appiccicò all’occhio destro, come se si attaccasse una ventosa. Il marito prendeva pizzichi di tabacco con le dita e lo inalava come se volesse ostruire i condotti lacrimali, che gli provenivano dall’intimità del petto.
Si alzò il sipario, per mostrare sul palco insanguinato i carnefici del tetrarca della Giudea. Feci per ritirarmi; ma Eusébio, con la sua figura, mi impedì l’uscita, dicendomi:
─ Le voglio parlare ancora; si fermi fino alla fine dello spettacolo, se non le reca disturbo.
Assistetti all’atto finale della «Strage». Talvolta, quando la sciocchezza della tragedia era all’apice, mi sembrava che una lama mi tagliasse le carni del collo. La lingua portoghese e il buon senso non piangevano meno delle mamme dei bambini massacrati; ma chi piangeva di più delle mamme ebree e della grammatica dei nostri cristianissimi nonni, era Dona Antónia.
In verità ti dico che non c’è virtù se manca al cuore la sensibilità di compatire le disavventure fantastiche. Dio mi liberi dalle anime aride che osservano gli spettacoli tragici con lo sguardo sdegnoso dell’arte! Io mi rallegro, e già te l’ho detto, che mia moglie pianga leggendo i tuoi romanzi. Se lei ridesse dell’intruglio di lamenti che scrivi e mettesse in dubbio la verosimiglianza delle angustie dei tuoi personaggi, mi metterei in guardia da lei. Nel palco, vicino a quello di Dona Antónia, c’erano quattro fanciulle con vestiti bianchi e rosa: sembravano serafini, a cui il Signore aveva concesso di scendere dal cielo al teatro S. João, per vedere come più di milleottocentocinquanta anni prima, i loro innocenti fratellini fossero stati massacrati. Be’, quelle fanciulle, a ogni frase grondante lacrime che esplodeva sul palco, scoppiavano in risate che richiamavano l’attenzione dei palchi vicini. Se, guardando Dona Antónia, le vedevano gli occhi rossi di tanto piangere, avvicinavano le teste e sghignazzavano per non esplodere dentro i corpetti. Queste quattro fanciulle dovevano avere in platea quattro innamorati che ammiravano il loro spirito e che si vantavano di essere amati da donne dall’animo critico, donne superiori alle sciocchezze del dramma. Mi dispiace di non conoscerne il nome per chiederti ora se quei quattro serafini hanno dato la felicità domestica ai mariti. Oh, amico mio, la donna, la vera donna, è colei che ha il cuore per distinguere i pensieri dolorosi dalle forme grottesche con cui gli incolti lo rivestono. Che cosa ha a che vedere il contegno dell’arte con l’anima schietta alla quale bastano le mille tristezze senza artificio che la natura le rivela?...
─ E dopo Eusébio Luís che ti disse? ─ interruppi io, prima che il lettore interrompesse me.
─ Eusébio ─ rispose António Joaquim ─ mi disse di andarlo a trovare il giorno dopo, nel suo ufficio, verso mezzogiorno.
Mia madre si rallegrò della mia speranza e volle a tutti i costi conoscere Dona Antónia Pires, appena le dissi che piangeva copiosamente. Capii che mettere in contatto due persone lacrimose, significava assicurare il buon esito della mia impresa, cominciata con uno sproposito, che solo la buona sorte degli stupidi poteva sistemare.
Quando entrai nell’ufficio chiesi a Eusébio il permesso di presentare mia madre a Dona Antónia.
Ora capirai che non sono totalmente privo d’ingegno per tessere un intreccio da romanzo.
Ti preparo una sorpresa! Se fossi un narratore qualunque, la mia storia – penseranno i tuoi lettori – potrebbe essermi stata raccontata da uno di questi muli, ma non per questo l’asina contastorie ha onorato la nonna, che a sua volta aveva raccontato storie, accovacciata sotto Balaam.
Eusébio aveva incaricato un fattorino di farci accomodare in sala, dove Dona Antónia sarebbe venuta a ricevere i nostri saluti.
Siccome la signora tardò alcuni minuti, come sempre accade alle donne che non si sistemano né si imbellettano per governare la casa, mia madre trovò scarso il ritardo per poter ammirare lo sfarzo e le raffinatezze della sala del signor Eusébio Luís Trofa.
Anch’io ero intento a esaminare un negretto di argilla che mostrava la lingua di cartone rosso e sgranava gli occhi di vetro. Questo negretto, che sarà costato una dozzina di vinténs, stava tra due ricchi vasi cinesi, con fiori di Costantino.
Sul piedistallo di un cronometro, il cui vertice era la statua di Wellington, vidi un cagnolino di vetro con un cestino in bocca, e un portasigarette di perline con le iniziali di Eusébio Luís.
Sulle étagères laccate agli angoli della sala splendevano i più orignali giocattoli da bambino, gatti che miagolavano, galline che chiocciavano in mezzo ai pulcini, il tutto a molla, e squadroni di soldatini di piombo pronti a dar battaglia contro altri squadroni.
Mia madre trovava tutto bellissimo e io ben volentieri avrei passato lì qualche ora ad ammirare il buon gusto di un uomo ricco.
Non devo dimenticare che il tappeto era di un pelo vellutato, che sembrava adatto alla siesta di principesse more, mentre alla soglia delle porte e ai davanzali delle finestre c’erano delle specie di zerbini di paglia, che valevano circa 110 vinténs ognuno.
Su una parete c’erano i due ritratti a figura intera di Eusébio Luís e della sua signora, perfette riproduzioni del preciso e vezzoso pennello di Resende: su l’altra, risaltavano i colori vivi di un quadro con frutti, nel quale spiccava in primo piano lo scarlatto appetitoso di un’anguria tagliata a fette, e un cesto di pesche, irrorate del loro dolce succo.
Sull’altra ancora, pendevano da cordoni di seta, rifiniti con nappe frangiate di oro, dieci formelle con la storia del figliol prodigo, non con una casacca nera, come lo ha vestito l’immaginazione di un manovale francese, ma con vesti patriarcali, in conformità con l’epoca biblica dell’edificante evento.
Sull’ultima parete della grande sala quadrata, c’erano finestre guarnite di tende damascate di diversi colori, splendide, maestose, raccolte con bracciali smaltati. E, come ti ho detto, gli orli delle tende ricadevano su zerbini di paglia.
Mi stava venendo da ridere, quando Dona Antónia fece il suo ingresso in sala. Mia madre si alzò a fatica dalla poltrona imbottita, nella quale era sprofondata, e tese la mano alla eventuale protettrice di sua nipote. Dona Antónia si ferma, fissa a lungo e con attenzione il volto di mia madre e mormora:
─ Lei…
─ Sono la zia di Adriana e vengo a chiederle il favore di intercedere presso il signor Francisco Elisário, non perché perdoni la moglie di qualche colpa, poiché lei è innocente come gli angeli del cielo; ma per far sì che lui la tratti con l’amore che merita e non la obblighi alla disgraziata schiavitù che una sposa di venti anni non può sopportare.
─ Ma lei ─ continuò Dona Antónia agitata e con le lacrime agli occhi ─ come si chiama?
─ Sono Maria Carlota.
─ Della famiglia dei Rebordães?
─ Si, mia signora… ─ replicò mia madre ─ Lei conosce la mia famiglia?!
─ Questo è suo figlio il signor Antoninho? ─ continuò Dona Antónia.
─ Sì, è lui, signora.
La sposa di Eusébio Luís corse verso di me, mi strinse al petto, ed esclamò:
─ Il mio Antoninho!
In quel frangente e in questa posizione ci sorprese il marito.
─ Lui di certo non si sorprese più di me! ─ feci notare al mio sincero amico António Joaquim. ─ Liberami da quest’ansia! Credo che tu stia inventando con la più disastrata fantasia, se non ti svincoli con naturalezza dalle braccia di Dona Antónia! Mi sembra che la natura non ha più ripetuto simili spropositi.
─ E be’! Ti sorprenderai di nuovo per la semplicissima spontaneità di quell’incontro. Dona Antónia, in un pianto torrenziale, si sedette, e disse al marito, tra un singhiozzo e l’altro:
─ Eusébio, già ti ho raccontato la triste storia della mia vita. Ricordi quella signora che pagò affinché badassero a mio figlio per poter io badare al suo, quando ero disperata? Questo è il bambino che ho cresciuto al mio seno.
Mia madre corse ad abbracciare Dona Antónia, con aria di chi è stato svegliato di soprassalto da un allegro sogno. Eusébio Luís manifestò la più genuina espressione di bontà. A me, assai commosso dall’abbraccio delle due donne, correvano brividi nel sangue e nei capelli. Ai miei occhi, ai quali a volte la poesia del cielo sovrappone il suo prisma, le due figure mi sembravano una, per l’identificazione dei benefici materni: una mi aveva messo al mondo; l’altra mi aveva dato il suo sangue.
Ora, in poche parole, ti dirò che Antónia Pires era stata sposata con un uomo malvagio che l’aveva lasciata madre di un bambino di dieci giorni, ed era sparito da Arcos. Antónia andò a finire a Braga, con il figlio al petto, con l’intenzione di abbandonarlo, se le avessero offerto di allattare un figlio altrui. In quel periodo, mia madre aveva deciso di farsi aiutare da una balia per allevarmi. Antónia il giorno in cui sono nato venne a casa mia, avendo con sé ancora il figlio di ventidue giorni, decisa ad abbandonarlo. Mia madre guardò la creaturina e gli vide in volto le lacrime della madre. Compatì entrambi e aumentò la paga della mia balia di modo che potesse provvedere al sostentamento del figlio. Quando ormai ero cresciuto e robusto, il marito di Antónia ritornò alla cittadina, e si informò sul domicilio della moglie. Si presentò a mia madre con autorità di marito, e portò con sé Antónia. Mia madre non seppe più nulla della mia balia, fino a quell’incontro in cui era stata riconosciuta, seduta in quell’ottomana di velluto imbottito.
Anche il seguito della storia te lo racconterò in poche parole.
Il marito di Antónia morì, quando il figlio aveva sei anni. Lei, con i soldi del suo lavoro e l’aiuto di un padrino, lo mandò in Brasile. Il ragazzo si arricchì, e morì ingrato dei sacrifici materni. Sai già che vita pesante facesse la povera donna, quando Eusébio Luís Trofa l’andò a cercare al viadotto di Arnoso.
Dona Antónia chiuse le porte di casa per non farci più uscire. Dopo tre giorni, e alcuni incontri tra l’uomo d’affari e il socio, partimmo tutti per Vairão. Francisco Elisário era commosso e allegro, mi chiedeva perdono per avermi trattato in modo burbero, baciava le mani di mia madre, e prometteva che sarebbe stato un degno marito per la nipote.
Adriana uscì dal convento, rasserenata dalle parole di Dona Antónia: ─ Lei da ora in poi avrà una madre, che la proteggerà dalla severità di suo marito. A me piace molto il divertimento: e lei, figlia mia, mi seguirà ovunque e andrà dove vuole a passare ore serene.
Ritornammo a Oporto. Il giorno dopo sgozzavano gli innocenti al teatro D. João. Andammo all’esecuzione. Mia cugina pianse più di Dona Antónia; e Francisco Elisário interruppe di tanto in tanto lo spettacolo, censurando la furfanteria di Erode, con apostrofi più eloquenti di quelli degli attori dell’opera teatrale.
Mia madre non pianse né rise, impegnata a esaminare i vestiti e le acconciature della signore che a loro volta la esaminavano, con sorrisi sarcastici. Adriana era venuta a teatro vestita e pettinata come se fosse stata da un anno in attesa di quella sera.
Il giorno dopo, Eusébio Luís diede una cena danzante. Dalle cinque del pomeriggio alle due di notte gli opulenti saloni, aperti per la prima volta, furono animatissimi. Il servizio fu così abbondante , che io, che scrivevo per la prima volta una cronaca locale, capii che avrei dovuto scrivere abbondante con due d, per creare una distinzione, che non trovavo nel dizionario dei sinonimi. Non so se fosti tu, o un altro giornalista a farmi notare che non era lecito alterare l’ortografia per favorire un amico, e che la copiosità dei liquori non avrebbe dovuto portare il mio istinto rivoluzionario fino all’etimologia delle parole. Non sfidai lo stolto che mi provocò, perché ero inebriato dalla felicità che perdona gli stupidi grammaticali. Era la felicità di mia cugina a deliziarmi il cuore.
Anche Francisco Elisário diede una cena danzante. Adriana arrivò al ballo ornata dai gioielli della madre, e da altri che il marito le aveva regalato come pegno di unione eterna. Alla mezzanotte di quel giorno di festa, mia cugina staccò dal corsetto un bel brillante, e, in presenza del marito, mi disse:
─ Cugino mio, accetta questa pietra, come ricordo dell’anima grata di una moglie che ti ringrazia della felicità del marito.
Accettai la pietra che qui vedi.
È finita la storia.
Francisco Elisário è un marito che con ardore può affermare, nel mezzo della più degenerata società che tu puoi immaginare, che il suo onore è custodito nell’immacolato cuore della moglie, come lo sono gli incensi sacri a Dio nell’urna d’oro nelle mani di un levita. E, ora, Adriana va a tutti i balli, a tutti gli spettacoli, visita tutte le amiche, eccetto una che aveva dato del mostro al marito, se ancora ricordi l’inizio della storia.
Brano tradotto specialmente per Sagarana da Cristina Maciariello, e tratto dal romanzo (capitolo XII) Vinte horas de liteira (Venti ore di lettiga), pubblicato originalmente nel Portogallo nelle seguenti edizioni: Camilo Castelo Branco nasce a Lisbona il 16 Marzo del 1825. Figlio illegittimo, a dieci anni, rimane orfano di entrambi i genitori, e si stabilisce dalla zia a Vila Real. Trasferitosi dalla sorella, familiarizza con la montagna, e apprende, grazie alle lezioni di Padre António de Azevedo, il latino e il francese. A sedici anni, sposa Joaquina Pereira, che abbandona due anni dopo con un figlio. Nel 1846, torna a Samardã, Joaquina Pereira era ancora viva, ma Camilo, neanche la cerca, le sue attenzioni sono per una ragazza orfana. Dopo averla rapita, arrestato, trascorre undici giorni nella prigione di Relação do Norte. Nel 1848 si trasferisce a Oporto per lavorare a tempo pieno come giornalista. Incontra la donna della sua vita: Ana Plácido, promessa sposa, e poco dopo sposa, del consigliere Pinheiro Alves. Quest’amore, rappresenta, per Camilo, una vera crisi sentimentale, dalla quale prova a uscire con vari sotterfugi. Ritiratosi a Lisbona si dedica con tutte sue le forze alla letteratura, scrive: Anátema (1851), il suo primo romanzo di successo. Ritorna a Oporto e frequenta il seminario (1850-52), per spazzar via il pensiero dell’amata con l’influenza del misticismo. Abbandonato il seminario, lavora freneticamnete e pubblica Mistérios de Lisboa (1854), Livro Negro do Padre Dinis (1855), Onde está a Felicidade? e Um Homem de Brios (entrambi del 1856). Nel 1859, Ana Plácido, gli si lega definitivamente. Il romanziere, pubblica in questo periodo: Carlota Ângela e O Que Fazem Mulheres. Il nome dello scrittore si va affermando. Pinheiros Alves, marito di Ana, non tarda però a muovere un processo contro gli adulteri. Perseguitati dalla giustizia, i due amanti fuggiaschi vengono rinchiusi nella prigione di Relação, che Camilo già conosceva. Lì, lo scrittore rimase trecentosessantaquattro giorni, durante i quali scrisse romanzi come: Amor de Perdição (la sua opera più conosciuta e tradotta anche in italiano già alla fine dell’Ottocento), O Romance de um Homem Rico e parte di Doze Casamentos Felizes. Dopo la morte di Pinheiro Alves, i due si stabilirono a S. Miguel de Ceide, proprietà ereditata dal figlio del ricco commerciante morto. Camilo e Ana si sposarono solo nel 1888. In questa casa di campagna, Camilo scrisse molte delle sue opere, ricevette le visite di uomini di lettere come Castilho e Eça de Queirós e fu insignito del titolo di Visconte. Ma soffrì anche tutti i tipi di privazione e difficoltà dovute alle ristrettezze economiche, alla pazzia del figlio Jorge, alla vecchiaia e alla cecità incurabile che lo portarono alla disperazione che si risolse con il suicidio il 1 giugno del 1890. Il lascito letterario di Camilo Castelo Branco è enorme: 137 opere pubblicate, di cui 66 tra romanzi e raccolte di racconti e 12 opere teatrali. E, in parte, la sua fecondità letteraria è dovuta al fatto che Camilo è stato il primo autore professionista portoghese a vivere solo degli introiti derivanti dalle proprie pubblicazioni.
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