I CETI MEDI: CAMBIAMENTI, CULTURE E DIVISIONI POLITICHE Tratto dalla raccolta di saggi Berlusconismo Paul Ginsborg
Tutti gli studiosi concordano sul fatto che la struttura sociale dei paesi del capitalismo avanzato si sia fatta sempre più complessa, caratterizzata da una proliferazione, se non addirittura una cacofonia, di voci e di interessi. I ceti medi ne sono esempio, più di ogni altro gruppo sociale. Infatti, come dice Arnaldo Bagnasco, è estremamente difficile fare dei ceti medi un oggetto unitario di analisi. L’uso spesso indifferente dei termini «classe» e «ceto» (sia al singolare che al plurale) è una spia efficace delle difficoltà di individuare dei gruppi sociali omogenei, che parlino con una voce distinta, loro propria. Se si aggiungono poi le infinite variazioni della formazione individuale e familiare, il compito dello studioso diventa immane. Ma egli non deve mai sottrarsi, in nome della infinita complessità dell’oggetto della sua ricerca, al tentativo di proporre delle «generalizzazioni eroiche», potrei definirle così, che senza distorcere eccessivamente la realtà offrano una possibile chiave di lettura generale.
È in questo spirito che cerco di affrontare il tema dei ceti medi italiani contemporanei, la loro struttura, cultura e scelte politiche. Tre elementi ci colpiscono subito. In primo luogo l’incessante crescita numerica dei ceti medi. In base ai dati occupazionali forniti da Paolo Sylos Labini, i ceti medi urbani italiani, in cui l’autore raggruppa le principali categorie dei piccoli imprenditori, degli impiegati pubblici e privati, degli artigiani e dei commercianti (ma anche questa, come vedremo, è una terminologia piuttosto antiquata), rappresentavano nel 1951 il 26% della popolazione, mentre nel 1993 toccavano il 52%. Oggi secondo le stime si attestano attorno al 55%. I ceti medi urbani sono cresciuti moltissimo, molto più di qualsiasi altra componente della società italiana. Per tanto tempo l’analisi marxista si è rivolta a questi ceti utilizzando il termine «piccola borghesia», spesso con toni spregiativi. Perfino molto recentemente, una parte della sinistra italiana descriveva – per liquidarli – i ceti medi dei «Girotondini» come una piccola borghesia con tendenze populiste. È ormai evidente quanto una griglia interpretativa di questo tipo sia non solo povera, bensì dannosa.
Accanto a questo primo, grande fatto strutturale – il dominio numerico dei ceti medi nella società italiana – ve n’è un secondo: il livello sempre più alto di istruzione che li caratterizza. Nel 1951 gli italiani analfabeti, senza titolo di studio o con il solo diploma di scuola elementare costituivano l’89,8% della popolazione. Cinquant’anni dopo gli italiani in possesso di un titolo di studio medio, superiore o universitario erano diventati il 63,4% della popolazione[134]. Questa rivoluzione scolastica non colma il divario esistente rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna, ma è innegabile che il paese possa vantare un ceto medio non solo sempre più esteso ma anche più istruito.
Il terzo elemento strutturale riguarda la composizione interna dei ceti medi. L’Italia ha una quota di self-employed (lavoro autonomo) molto alta – secondo l’ISTAT pari a circa il 26,4% dell’occupazione totale nel 2006 –, più elevata di qualsiasi altro paese europeo. Ma attenzione: in questi anni i media e la destra politica hanno tentato con martellante insistenza di presentare il mondo del lavoro autonomo come predominante nel paese, sotto il profilo culturale e perfino numerico. In realtà, il lavoro autonomo è in lento declino dal 2003, costituisce solo un quarto del lavoro complessivo in Italia e meno della metà dell’occupazione dei ceti medi presi nel loro insieme[135]. Esso cela in sé un gran numero di figure diverse – non solo quella del piccolo imprenditore dinamico ma anche il vasto e perdurante mondo dei commercianti e degli artigiani, nonché moltissimi «autonomi precari», specialmente giovani, che hanno la partita Iva ma non un’occupazione stabile.
Che conseguenze hanno in termini culturali, politici, di life style, questi tre elementi strutturali dei ceti medi – il loro crescente peso numerico, il nuovo livello di istruzione e la presenza abnorme del lavoro autonomo? Suggerisco, e qui arrivo alla mia prima generalizzazione «eroica», che negli ultimi trent’anni circa il ceto medio italiano si è diviso in due mondi, piuttosto diversi l’uno dall’altro. Si può misurare questa diversità in vari modi – in termini geografici e regionali, in rapporto ai processi produttivi, in termini culturali e di consumo, perfino nella capacità di bridging o di bonding, per adoperare un’utilissima distinzione della sociologia americana, la capacità cioè di costruire ponti verso altri o la tendenza a rafforzare soprattutto i legami al proprio interno. Sono mondi che ovviamente sotto molti profili si sovrappongono, perfino all’interno delle famiglie stesse, ma resta presente una distinzione di base che merita di essere esplorata. Esito a etichettare queste due componenti dei ceti medi, ma, se costretto, chiamerei l’una «ceto medio riflessivo», capace di bridging e, in termini occupazionali, caratterizzato prevalentemente dal lavoro dipendente; l’altra «ceto medio concorrenziale» o «market oriented», tendente al bonding e soprattutto dedito al lavoro autonomo. Mi concentro su questi due agglomerati anche se sono conscio che non coprono tutto l’orizzonte dei ceti medi e che esiste almeno un’altra componente molto importante – i «topi nel formaggio», come li definisce Sylos Labini, analizzati anche da Pizzorno, individui e famiglie a suo tempo strettamente dipendenti dagli appoggi clientelari offerti dall’impiego pubblico e dal sistema di potere democristiano, e riconoscenti dei favori ricevuti.
Due mondi diversi
Partiamo con la prima componente, il «ceto medio riflessivo». In tutta l’Europa si è sviluppato un ceto medio attivo nelle professioni socialmente utili, nel terzo settore e nel servizio sanitario nazionale, ma anche tra gli insegnanti e gli studenti, gli impiegati direttivi e di concetto del settore pubblico, i nuovi operatori nel mondo dell’informazione e della cultura, che hanno maturato una prospettiva diversa da quella tradizionale rispetto al proprio ruolo e alla propria responsabilità sociale.
Bisogna notare subito che in Italia i presupposti strutturali per lo sviluppo di questa sezione del ceto medio sono più deboli che negli altri principali paesi europei. Le condizioni attraverso cui, per effetto di una forte spesa sociale, i ceti medi hanno prosperato in Gran Bretagna, Germania e Francia si sono verificate molto più tardi in Italia. Ancora nel 1981, dopo la tardiva introduzione del servizio sanitario nazionale (1978), l’Italia impiegava soltanto la metà dei lavoratori del settore sanitario pubblico inglese. Nei decenni del dopoguerra, unicamente nell’istruzione l’impiego pubblico in Italia era al passo con la Francia e la Germania, ma non con la Gran Bretagna.
Nonostante ciò, questa sezione dei ceti medi italiani è stata in costante espansione e ad ingrossarne le fila è stato un numero sempre crescente di donne molto istruite, alla ricerca di un impiego adeguato alla loro professionalità, ma in forte difficoltà nel trovarlo, soprattutto al Sud. Alcuni studiosi, tra i quali chi scrive, hanno scelto di definire questa componente «ceto medio riflessivo», non perché i suoi membri assumano la posa del Pensatore di Rodin, chino in perenne contemplazione, ma nel senso che volge un occhio critico allo sviluppo stesso della modernità, alle sue stesse radici e attività. Anziché essere acriticamente dedita ai ritmi intensi e al consumo materiale del mondo moderno, questa classe media ha maturato una maggiore consapevolezza dei pericoli globali, del danno provocato da un consumo irresponsabile alla qualità della vita quotidiana, dei nessi tra scelte private e la conservazione dei beni pubblici.
Questa componente dei ceti medi contemporanei è dotata di notevole potenziale civico. Se guardiamo il caso italiano degli ultimi quindici anni vediamo come le mobilitazioni in difesa della democrazia repubblicana – della sua Costituzione e delle sue istituzioni, dell’autonomia della magistratura e del pluralismo mediatico – provengano in parte considerevole da questi settori dei ceti medi. A partire dalle grandi manifestazioni della primavera e dell’autunno 2002, fino alle dimostrazioni organizzate attraverso internet dal «Popolo Viola» del dicembre 2009 e di ottobre 2010, numerosi appartenenti a questi strati sociali si sono mobilitati contro il regime berlusconiano. Ovviamente nel corso di questi dieci anni si sono evidenziate differenze di composizione sociale. L’anima della prima tornata di proteste, i cosiddetti «Girotondini», cresciuti culturalmente con il ’68 e occupati soprattutto nel settore pubblico, godevano in gran parte di un lavoro stabile e avevano in media più di quarant’anni. I giovani delle manifestazioni più recenti fanno invece parte di una generazione che per la prima volta nella storia della Repubblica è costretta a subire in modo massiccio la mobilità sociale discendente. Spesso i membri di questa generazione possono vantare a loro volta un capitale culturale alto, ma accompagnato da un capitale economico pressappoco inesistente. La loro voce è un grido di angoscia ma anche, straordinariamente, di rispetto della legge e della Costituzione.
Non bisogna in nessun modo esagerare le capacità civiche di questa parte dei ceti medi, né la loro consapevolezza di formare un ceto sociale potenzialmente capace di azione unitaria. Il quadro complessivo è meno confortante di quanto appaia ad un primo sguardo. Il movimento di questi anni è stato spesso descritto come un fiume carsico, che scorre sotterraneo per gran parte del tempo ma occasionalmente spumeggia in superficie con grande forza. È una metafora troppo facile e consolatoria. Più fedele alla realtà sarebbe un’immagine che evochi instabilità e incostanza, in cui a brevi periodi di impegno nella sfera pubblica seguano lunghi periodi di distacco e di silenzio. Molti dei ceti medi «garantiti» hanno seguito questo tipo di percorso. Essi hanno sempre possibilità di scelta e, di fronte alla ripetitività delle proteste e soprattutto allo scarso incoraggiamento proveniente da gran parte del ceto politico di sinistra, perdono slancio e speranza. Il cinismo e la passività hanno la meglio, specialmente tra molti intellettuali.
Vengo ora alla seconda agglomerazione – i ceti medi dediti al lavoro autonomo, concorrenziali e tendenti al bonding. Qui bisogna procedere con grande cautela. Emergono anche in questo contesto molte nuove figure legate al mondo dei servizi in forte espansione, un tipo di «lavoro autonomo di seconda generazione». Ma una componente di spicco di questo mondo sono sempre stati i distretti industriali italiani, apprezzati da numerosi studi internazionali e considerati anche portatori di uno specifico modello di coesione sociale. In un suo lavoro del 2003, Bagnasco torna all’esperienza dei distretti industriali per identificare, pur con tutte le difficoltà e i limiti, un processo positivo di lungo termine. Prende come modello di partenza i tre elementi proposti da Ralf Dahrendorf come basi di una società moderna armoniosa e funzionante – l’efficienza economica, l’equità sociale e la democrazia – e individua nei distretti industriali italiani una perdurante combinazione di questo tipo: «La crescita è stata attivata da classi medie che hanno coinvolto le società locali in un processo di mobilitazione di mercato, assai diverso dalla mobilitazione individualistica nei meccanismi di consenso [...]. I ceti medi hanno esercitato una specie di egemonia culturale nel dare forma alla nuova società, ottenendo in complesso livelli elevati di integrazione e coesione sociale». Viene da chiedersi, però, quanto questo quadro sia ancora valido nel Nord Italia, di fronte alla crescita della Lega, che propone valori abbastanza lontani da quelli identificati da Dahrendorf. Nella Lombardia e nel Veneto, se non nella Toscana e nell’Emilia-Romagna, si è sviluppato un modello diverso, fortemente basato sul bonding territoriale e sull’appartenenza etnica, sullo sfruttamento di una sottoclasse di immigrati che si trovano impediti a costruire luoghi di culto islamici, sulla scarsa presenza di equità sociale e su una forma di democrazia limitata – personalizzata, localistica e di partito. Davanti a quest’onda gli studiosi devono dirci cosa resta dell’ethos dei vecchi gloriosi distretti industriali. Naturalmente, non tutto il lavoro autonomo si esprime nei distretti industriali. Questi ultimi, se vogliamo, sono le punte di diamante, le espressioni più alte di questo mondo. Altrove troviamo un mondo del lavoro molto più frammentato e precario, «molecolare», dipendente da alte percentuali di lavoro in nero e di evasione fiscale (ovviamente si parla qui non solo del Lombardo-Veneto, ma anche di molte zone del Sud del paese).
In queste realtà il modello di Dahrendorf sembra lontanissimo. Ma anche qui eviterei delle distinzioni troppo manichee. Le mobilitazioni recenti della Camera di Commercio di Palermo contro il «pizzo» dimostrano le potenzialità civiche anche tra i ceti medi autonomi in una delle città più
difficili dell’Europa.
Il ruolo del berlusconismo
Qual è l’apporto del «berlusconismo» a questo quadro generale? Innanzitutto non gli si attribuiscano elementi di trasformazione sociale e culturale che non sono suoi, se pur li ha abbracciati. Il modello lavora e spendi, il concentrarsi sui consumi familiari e individuali, il crescente privatismo della vita quotidiana, la passività prodotta dalla televisione, non sono invenzioni berlusconiane bensì caratteristiche socio-culturali appartenenti al modello globale di origine anglo-americana imperante negli anni Ottanta e Novanta. Non a caso Berlusconi ha sempre espresso un’adorazione sconfinata per la signora Thatcher.
La singolarità del berlusconismo risiede piuttosto nell’uso particolare che Berlusconi ha fatto delle opportunità uniche che il degrado democratico italiano degli anni Ottanta gli ha offerto. In modo precoce (1984) egli ha potuto stabilire un controllo sulla televisione commerciale unico in Europa, senza la sorveglianza di un qualsiasi garante pubblico efficace, e ha potuto utilizzare questa libertà per reiterare incessantemente determinati valori e stili di vita. In un’interessante intervista del febbraio 2009, Piersilvio Berlusconi, il figlio maggiore di Silvio, spiegò la strategia del gruppo Mediaset e la sua supremazia rispetto alla concorrenza da parte della Sky di Rupert Murdoch.
Sky poteva essere guardata soltanto da 4,7 milioni di famiglie italiane, contro i 24 milioni di Mediaset. Inoltre, essa presentava un’impostazione ristretta ed elitaria, «fredda» e internazionale: «A volte le élite scambiano le proprie abitudini e i propri consumi come fossero quelli di tutti. Ma non è così». Mediaset, al contrario, secondo Piersilvio Berlusconi, offriva una visione «generalista» e «patriottica»: «Noi investiamo oltre un miliardo di euro ogni anno in contenuti italiani e offriamo gratuitamente una tv calda, fatta con i talenti forti [...]. Mediaset è un’eccellenza italiana». In realtà pubblicità e programma spesso sono diventati un tutt’uno. Inoltre, non va assolutamente dimenticato che il dominio mediatico ha permesso a Berlusconi di pilotare sistematicamente attacchi pesantissimi contro persone considerate una minaccia o potenziali nemici.
Il potere economico-mediatico, esercitato oramai da più di venticinque anni, è il primo elemento del berlusconismo. Un secondo è il suo comportamento nei confronti dello Stato e della sfera pubblica. Qui riscontriamo una forte diversità rispetto alla signora Thatcher. Quest’ultima, per quanto radicale, non mise mai in dubbio le istituzioni e le pratiche della democrazia britannica. Berlusconi, al contrario, come dimostra anche il suo videomessaggio del 26 gennaio 1994, quello della «discesa in campo», ha sempre considerato la sfera pubblica una zona di conquista, di occupazione, di trasformazione.
L’ultimo apporto del berlusconismo, quello più direttamente connesso al discorso sui ceti medi, è il flagrante appoggio a un elemento dei ceti medi – quello del lavoro autonomo e concorrenziale per intenderci – a spese dell’altro, quello più riflessivo e basato sul lavoro dipendente. Berlusconi blandisce il primo con tutta una serie di carezze – agevolazioni fiscali, condoni edilizi, la depenalizzazione sostanziale del falso in bilancio, ecc. Le sue apparizioni davanti alle platee della Confesercenti o alle assemblee di associazioni di imprenditori, soprattutto in Lombardia e nel Veneto – sono occasioni per incensarsi reciprocamente e palcoscenici per le esternazioni più estreme di Berlusconi, spesso dirette contro la magistratura. All’altro elemento dei ceti medi, Berlusconi riserva solo schiaffi – lo smantellamento progressivo della scuola e dell’università pubbliche, il degrado senza fine delle grandi istituzioni culturali, gli stipendi in calo verticale in termini di potere d’acquisto. Così Berlusconi contribuisce in modo drammatico a spaccare il ceto medio, e ad incrementare il livello di incomunicabilità tra le sue due componenti principali.
I ceti medi e la crisi
Infine, occorre considerare il possibile impatto che la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 avrà sui ceti medi italiani. Secondo gli economisti più
perspicaci la crisi è destinata a protrarsi nel tempo, assumendo sempre di più la forma prolungata delle macro-crisi globali del passato. Di conseguenza il deterioramento delle condizioni dei ceti medi diventa sempre più visibile. Cresce negli Stati Uniti come in Inghilterra la loro fear of falling («paura di cadere»), la distruzione di quegli elementi economici, sociali e culturali che li distinguevano in passato dalle classi popolari. Non a caso Barack Obama durante la campagna elettorale del 2008 dedicò un’attenzione assillante ai ceti medi americani e nondimeno una parte della middle class, delusa, lo ha privato del suo sostegno nei due anni successivi.
Fino a che punto i ceti medi dell’Europa meridionale, e dell’Italia in particolare, «cadranno» di fronte all’introduzione di nuove drastiche misure di austerità e quali conseguenze avrà la loro caduta? Non c’è dubbio che il continuo smantellamento del settore pubblico avrà delle conseguenze drastiche sul ceto medio che non solo deriva il suo sostegno economico dallo Stato ma è anche il fruitore principale del sistema dei servizi sociali. I suoi figli, istruiti ma privi di capitale economico, eviteranno con difficoltà la disoccupazione di lunga durata, intervallata solo da lavori saltuari. D’altra parte a fronte del calo della domanda interna e della feroce competizione internazionale, anche i piccoli imprenditori, artigiani e commercianti del settore del lavoro autonomo avranno grande difficoltà a mantenere il loro status differenziato.
Lo scenario è tutt’altro che rassicurante. Esiste il timore giustificato che in questa situazione il razzismo e il populismo crescano di importanza, andando ben oltre le loro basi originali. Ma molto dipenderà dall’offerta politica di ciascun paese, in Italia come in Spagna, in Grecia come in Portogallo. In Italia una parte dei ceti medi trova nell’alleanza Bossi-Berlusconi una chiara linea politica che li incoraggia a stringere alleanza tra di loro e a identificare nell’«altro» il responsabile della crisi. È una leadership politica irresponsabile ma molto efficace. I ceti medi riflessivi, dall’altra parte, non sono stati oggetto di analisi o di sostegno da parte del centrosinistra. L’offerta politica è stata debole e distratta, con il palazzo che conta molto di più delle realtà sociali. È ora di rimediare in fretta a questa situazione di abbandono.
Bibliografia minima:
Bagnasco, A. (a cura di), Ceto medio. Come e perché occuparsene, il Mulino, Bologna 2008.
Schizzerotto, A., Trasformazione e destini delle classi medie italiane, in R. Catanzaro, G. Sciortino (a cura di), La fatica di cambiare. Rapporto sulla società italiana, il Mulino, Bologna 2009, pp. 101-132.
Sylos Labini, P., Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1975 Saggio tratto dalla raccolta Berlusconismo, a cura di Paul Ginsborg e Enrica Asquer, Laterza editori, Bari, 2012. Traduzione dall’inglese del testo I ceti medi di Emilia Benghi. Paul Anthony Ginsborg (Londra, 1945) è uno storico inglese, naturalizzato italiano, tra i più noti studiosi contemporanei della storia d'Italia. Fellow del Churchill College di Cambridge, nella cui Università ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Sociali e Politiche. In Italia ha avuto incarichi di insegnamento alleUniversità degli Studi di Siena e Torino. Dal 1992 insegna Storia dell’Europa contemporanea nella Facoltà di Lettere di Firenze. È conosciuto al grande pubblico per aver collaborato con Francesco Pardi, detto Pancho, al lancio del movimento dei girotondi. Nel 2012 è tra i promotori (insieme allo storico Marco Revelli) del nuovo soggetto politico ALBA (Alleanza Lavoro Benicomuni Ambiente).
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