I GESUITI IN BRASILE ”I Gesuiti in Brasile” è uno dei capitoli del libro “1500 – Sguardo sulla Letteratura Brasiliana di viaggio con inquadramento storico”. Mirella Abriani
I primi rappresentanti della Chiesa cattolica a svolgere missione di catechesi nel nuovo mondo furono i francescani e i domenicani, ma i gesuiti ebbero il ruolo di maggior rilievo nella colonizzazione del Brasile.
Sotto la guida di Manuel da Nóbrega, arrivarono a Salvador di Bahia nel 1549 (lo stesso anno in cui si stabilì il Governo Generale) con il proposito di convertire gli indigeni al cattolicesimo. Il loro fu da subito un processo di colonizzazione più razionale rispetto alla forma puramente predatoria dei coloni. Si schierarono in difesa della libertà degli indios, dei loro costumi, eccetto la poligamia e l’antropofagia, ne studiarono il linguaggio, indispensabile per la comunicazione, e la cultura.
Tuttavia nei primi tempi uno stesso processo di incivilimento unì laici e religiosi e la letteratura contribuì a consolidare la conquista del territorio e il dominio portoghese.
I gesuiti, a fianco di cronisti viaggiatori, furono gli autori più assidui dell’epoca. Nelle loro Cartas (lettere) inviate al Provinciale e ai confratelli di Lisbona, predomina il contesto storico e informativo finalizzato alla catechesi. Si trovano accenni sulla condizione primitiva dell’uomo e della natura brasiliani.
Sotto il profilo letterario, si distinsero Manuel da Nóbrega, José de Anchieta e Fernão Cardim. Gli scritti di altri gesuiti sono per lo più documenti paraletterari.
Ai gesuiti si deve peraltro la fondazione di collegi, in particolare a Rio de Janeiro, Bahia e Pará, di rilevante portata nella formazione culturale del Brasile.
L’attività dei gesuiti si interruppe nel 1759 con l’espulsione dell’Ordine dal Brasile.
MANUEL DA NÓBREGA (1517-1570)
In tutti i luoghi in cui è stato, ha prestato un servizio così buono da legare il suo nome alla storia generale del paese. (Valle Cabral - 1886)
Manuel da Nớbrega nacque il 18 ottobre 1517 si suppone a Sanfins de Ouro nella regione del Minho (nord del Portogallo).
Dal 1534 al 1538 studiò all’Università di Salamanca. Trasferitosi a Coimbra si formò in diritto canonico. Nel 1544 entrò nella Compagnia di Gesù, da poco fondata, già consacrato sacerdote eodem etiam anno admissus fuit Emmanuel de Nóbrega, sacerdos etiam.
Nel 1549 il Provinciale dei gesuiti del Portogallo lo inviò in Brasile con l’incarico di fondare l’Ordine nella nuova terra. Come capo delle Missioni Portoghesi dell’Occidente, partì da Lisbona il 1° febbraio con la flotta di Tomé de Sousa, primo governatore del Brasile, e arrivò a Bahia (Salvador) il 29 marzo, nella terra più bella del mondo ma senza città, templi, diocesi, conventi contrariamente agli altri padri delle Indie Orientali (India).
Le popolazioni locali avevano una loro cultura, riti semplici, leggende tramandate oralmente, una cultura ancora allo stadio primitivo di chi non sa leggere, vive nella selva a cielo aperto o nel migliore dei casi in capanne, ignora l’uso del ferro. Una tabula rasa su cui scrivere le virtù più necessarie. (…) ci siamo impegnati a imparare la loro lingua e a tradurre le preghiere… (Nóbrega faceva frequentemente riferimento ai brasis, o lingua, ai nativi della terra, i brasileiros, indios, popolo che parlava la lingua primitiva del Brasile).
La creazione della Missione in Brasile coincise con la creazione del Governo Generale che diede l’opportunità a Nóbrega di collaborare alla fondazione di Salvador e di rivelare, oltre alle sue doti di missionario, anche quelle di statista nella formazione del Brasile persino sotto l’aspetto territoriale e politico.
Le lettere che Nóbrega inviò al Provinciale e ai confratelli di Lisbona evidenziano due periodi della sua vita nella nuova terra: il primo, quando fu Superiore delle Missioni, Vice Provinciale, Provinciale di tutto il Brasile, in cui svolse un intenso lavoro missionario iniziando subito l’opera di conversione del pagano, di educazione dei bambini, dei costumi degli adulti e di salvaguardia della loro libertà. Difese gli indios da uomo colto e di cuore qual era ma si preoccupò anche di difendere i bianchi dalla barbarie degli indios come i caetés che, approfittando del naufragio del primo vescovo del Brasile, Sardinha, lo divorarono insieme ai suoi uomini. Lì finirono clerici e laici, sposati e celibi. Ancora scrivendo mi si rinnova il dolore che ebbi quando vidi che non c’era casa in cui non ci fossero pianti di vedove e orfani.
Studiò gli indios, non avversò i loro costumi tranne la poligamia e l’antropofagia, cercò di moderare l’uso del bere mentre tentava di abituarli alla vita del villaggio. Procedendo per gradi, incominciò a insegnare a leggere e a scrivere ai bambini, a coinvolgerli con il canto e la musica, ad ammetterli in chiesa, a confessarli con l’impiego di un interprete. (I bianchi, giunti prima di Tomé de Sousa, si rivelarono preziosi come interpreti, fra cui il celebre Diogo Álvares Correia, detto il Caramurú).
Nel 1554 fondò con padre Anchieta il collegio dell’altopiano di Piratininga, nucleo della futura città di San Paolo, imparando dai bambini la lingua locale. Rinnovò il suo impegno nel cercare di dissuadere gli indios adulti dal praticare la poligamia e l’antropofagia interessando ripetutamente il secondo governatore generale Duarte da Costa affinché attivasse il suo intervento. Fu in coincidenza dell’inerzia del governatore, diversamente da Tomé de Sousa e più tardi Mem de Sá, che Nóbrega scrisse il Dialogo, documento notevole per le relazioni con gli indios.
Già nella lettera del 11 agosto 1551 manifestò il desiderio di recarsi nel sertão di São Vicente essendo stato informato che c’erano molti pagani vestiti di pelle disposti a convertirsi. (I confini del Brasile del sud arrivavano, secondo i Portoghesi dell’epoca, fino alla foce del Rio de la Plata sulla costa e, nell’interno, fin dove giunge il sertão di São Vicente, compreso il rio Paraguay).
Nel 1556, per ordine superiore, ritornò a Bahia dove il nuovo governatore Mem de Sá, uomo colto e valente, assecondò sempre Nóbrega senza limitazioni.
Nel secondo periodo (1559-1570), prevale lo statista. Nel 1560, già con esperienza di uomini e di terra, compì un viaggio con il governatore Mem de Sá nel sud del Brasile, viaggio dettato da intenzioni politiche immediate per stabilire una forte presenza portoghese che permettesse la sicurezza degli abitanti e l’espansione territoriale, condizione quest'ultima indispensabile per l’espansione della conversione. Dedicandosi alla politica, cessò di scrivere le lettere. Riprenderà a scriverle solo per difendere gli indios. E fu nel decennio del suo governo spirituale nella capitania di São Vicente che si consolidò São Paulo e venne fondata la città di Rio de Janeiro, eventi in cui si inserisce, con la collaborazione di padre Anchieta, il tentativo di stabilire la pace con i tamoios (1563).
Fondata Rio de Janeiro, divenne superiore del locale collegio gesuita.
Avrebbe voluto morire nel sertão di SãoVicente o nel Paraguay ma non gli fu consentito.
Morì a Rio de Janeiro il 18 ottobre 1570.
Gli scritti di Nóbrega sono considerati opera letteraria prodotta in Brasile. Essi danno inizio alla letteratura di informazione gesuitica inaugurata dalla prima lettera dell’aprile 1549, scritta due settimane dopo essere giunto a Salvador, in cui riferisce del suo arrivo nel territorio brasiliano e sulla gente di Bahia.
I suoi scritti sono per la maggior parte apocrifi, ma dagli autografi si desume che usasse solo il portoghese benché conoscesse lo spagnolo avendo studiato a Salamanca. Alcune lettere in spagnolo potrebbero essere state tradotte da amanuensi.
Nelle sue Cartas do Brasil (Lettere dal Brasile) si trova l’inizio della storia brasiliana. Esse rappresentano un prezioso contributo per la cosmologia e l’etnografia brasiliana, nonché per lo studio dei costumi. Sono relazioni dettagliate della vita quotidiana nell’America portoghese, portano l’eco di un’esperienza missionaria fra le più avventurose, inserendo qua e là informazioni sulla nuova terra de maravilha, che cosa offre, cosa produce e sugli animali dai molti e diversi aspetti (bradipo, tapiro, formichiere gigante, tucano, pappagallo), che Plinio mai conobbe, né di essi diede mai notizia.
Le Cartas do Brasil sono state riunite e pubblicate nel 1886.
Seguono alcuni esempi:
… siamo arrivati a Bahia (Salvador) il 29 marzo 1549. Il viaggio è durato otto settimane. Abbiamo trovato la terra in pace e quaranta o cinquanta abitanti nel villaggio già costituito. Siamo stati ricevuti molto festosamente, abbiamo trovato una chiesa dove dire messa e confessarci e, lì vicino, abbiamo trovato dove alloggiare i Padri.
… abbiamo fatto la processione con molta musica. Gli indios sono rimasti talmente impressionati che dopo hanno domandato a padre Navarro di cantare come aveva fatto durante la processione...
… la nostra chiesa, che costruimmo con paglia e fango, è crollata. Ora radunerò i signori più onorati affinché ci aiutino a restaurarla in attesa che Dio ce ne dia una più resistente...
... è così vasta questa terra che (gli indios) dicono che delle tre parti del mondo, essa ne ha due. Ha mille leghe di costa popolata da gente nuda, sia gli uomini che le donne, ma in luoghi meno caldi, dove il clima è temperato, le donne portano vesti di cotone alla gitana. L’inverno non è né freddo né caldo e l’estate, benché sia calda, è sopportabile, e la terra e il clima sono molto umidi per l’abbondante pioggia che cade. Per cui alberi e erbe sono sempre verdi e la terra è in parte impervia a causa dei monti, e le foreste sono sempre verdi.
C’è molta frutta di cui i locali si nutrono, non buona come la nostra che, se venisse piantata qui, dovrebbe crescere bene. L’uva dà frutti due volte l’anno, ma è poca a causa delle formiche. Crescono in abbondanza cedri, arance e limoni; i fichi sono buoni come i nostri. Il cibo più diffuso è una radice che si chiama mandioca da cui si ricava una farina di cui tutti si nutrono. Mescolata al miglio, dà il pane.
C’è molto pesce e molluschi, molta cacciagione nei boschi, e oche allevate dagli indios. Buoi, mucche, pecore, capre e pollame sono abbondanti.
Questa terra è molto salubre e mi sembra la migliore che si possa trovare. L’acqua è molto buona. Da quando siamo arrivati non ho mai sentito che qualcuno sia morto di febbre, ma solo di vecchiaia o di male francese o di idropisia. I cibi in genere sono difficili da digerire, ma Dio ha posto rimedio con un’erba (tabacco) il cui fumo aiuta molto la digestione e altri disturbi. Finora i cristiani non la usano per non conformarsi agli indigeni che l’apprezzano molto. Io ne avrei necessità ma mi astengo in quanto NON QUOD MIHI UTILE EST SED QUOD MULTIS UT SALVI FIANT.
Dicono che c’è una grande quantità di oro ma, a causa della scarsa resistenza fisica dei cristiani, non se ne trova. E così pure è per le pietre preziose.
(Gli indios) non hanno alcuna dottrina né monumenti che attestino visivamente questa conoscenza… non conoscono idoli (Nóbrega, abituato alle narrazioni dell’Oriente dove i Missionari trovarono grandi templi pieni di idoli, appena arrivato in Brasile non considerò idoli i maracás e oggetti simili, ma nell’agosto dello stesso anno parlò già di “capanna sacra”). Il timore reverenziale degli indios per il tuono, tupã, suggerisce l’idea di Dio. Non avendo parole idonee per portarli alla conoscenza di Dio, lo chiamiamo Pai (padre) Tupana.
… stupisce questa gente così incolta che conosce così poco la propria terra, né ha idea di Dio e crede a tutto ciò che gli si dice. Loro si meravigliano molto del nostro culto e della venerazione che abbiamo per le cose di Dio. La mentalità primitiva degli indios fa sì che domandino se Dio ha una testa, una moglie, se mangia, come si veste e cose simili.
Fra di loro esiste una cerimonia che si svolge come segue: di anno in anno arriva da lontano uno stregone che finge di portare santità. E quando arriva gli spianano il cammino, lo ricevono con feste e danze secondo le loro usanze e, prima che giunga sul posto, le donne a due a due camminano per casa dicendo pubblicamente le mancanze fatte al marito, e l’una e all’altra, chiedendo perdono. Lo stregone, quando arriva, entra in una casa buia e depone una zucca lunga, che porta con sé, dalle fattezze umane, in parte utile per la sua impostura e, parlando con voce da bambino, dice di non lavorare, che il cibo sarà più abbondante e non gli mancherà, che verrà da solo a casa, che le zappe andranno a scavare, che le frecce andranno nella foresta e uccideranno molti nemici e ne cattureranno molti per il loro mangiare. Promette lunga vita, le vecchie torneranno giovani e le figlie che si concedano a chi vogliono, e altre cose simili con cui li abbindola. Credono che dentro la zucca ci sia alcunché di santo o di divino che suggerisce allo stregone le cose alle quali essi credono. Quando lo stregone finisce di parlare cominciano a tremare in tutto il corpo, soprattutto le donne che sembrano delle indemoniate, e certamente lo sono, gettandosi per terra ed emettendo schiuma dalla bocca. Lo stregone le persuade che così facendo gli entra la santità e, se non lo facessero, la santità se ne avrebbe a male. E dopo gli offrono molte cose.
I pagani appartengono a gruppi diversi: ci sono i goianeses e i carijós, questi ultimi i migliori della costa. Ci sono i gaimurés (o aimorés, n.d.R.) che vivono sui monti (fra Bahia e Espírito Santo) e dicono che siamo loro fratelli perché portiamo anche noi la barba, mentre gli altri indios si rasano persino le ciglia e si forano labbra e narici infilandoci degli ossi tanto da sembrare dei mostri, soprattutto gli stregoni che hanno il viso pieno di ossi. In una mano tengono un arco e nell’altra un legno con il quale affrontano gli avversari e li feriscono agevolmente e in modo grave. In guerra con tutti, senza alleati, sono da tutti temuti. Ai prigionieri danno le loro figlie affinché li custodiscano, poi li uccidono e li mangiano dividendoli con gli indios che vivono vicino a loro. E, se nascono dei figli dei prigionieri, benché siano loro nipoti o fratelli, li uccidono e li mangiano. A volte anche le stesse madri perché dicono che solo i padri hanno parte in loro. Questa è la cosa più abominevole. Se uccidono qualcuno in guerra, lo portano via a pezzi e, dopo averlo affumicato, lo mangiano con solennità e festa, e questo per l’odio radicato che hanno gli uni contro gli altri e per vendetta, non per cupidigia perché non possiedono beni, hanno solo caccia e pesca e i frutti che la terra dà. Però con quelli con cui sono amici, vivono in grande concordia e mettono tutto in comune, un pesce o qualsiasi animale cacciato.
Finora comunichiamo con due gruppi, i tupeniques, o tupiniquins, e i tupinambás.
…vivono in case di palma molto grandi che ospitano cinquanta indios con mogli e figli. Dormono in reti (amache) di cotone vicino al fuoco che arde tutta la notte per il freddo essendo nudi, e anche per i demoni che, dicono, fuggono dal fuoco ed è per questa ragione che quando di notte vanno fuori, portano con sé tizzoni ardenti. Tutto è in comune, se qualcuno ha qualcosa deve dividerlo con gli altri, soprattutto cibo che non conservano. Non si preoccupano di tesaurizzare. Non danno niente alle figlie quando si sposano, i generi sono tenuti a servire il suocero.
Anche loro si servono di stregoni le cui funzioni consistono nel presiedere alle cerimonie di santità, curare gli infermi, dare pareri sulle guerre. Costoro sono i nostri peggiori nemici e fanno credere agli ammalati che gli mettiamo nel corpo dei coltelli, forbici o cose simili, e che li ammazziamo. La gente di questa terra è sempre in guerra con tutti. Quando catturano qualcuno, lo portano con grande festa con un laccio alla gola e gli danno la figlia dell’esponente più importante o un’altra che gli piace di più. E lo fanno ingrassare come un maiale fin quando lo ammazzano alla presenza anche di tutti quelli del territorio intorno. E il giorno prima lo lavano, e il giorno seguente lo mettono nel luogo del “rito” legato con una corda e arriva uno tutto adorno che gli fa una pratica dei suoi antenati. E finito il rito, il morituro gli risponde che è dei forti non temere la morte e che anche lui ne ha uccisi molti e che lì sarebbero venuti i suoi parenti a vendicarlo, e cose simili. Appena morto gli tagliano il pollice perché era col pollice che tirava le frecce mentre il resto del corpo lo fanno a pezzi per cuocerlo e arrostirlo.
I defunti li sotterrano seduti in una rete, lavati molto bene, con del cibo e dicono che le loro anime vagano per i monti e ritornano alla tomba per mangiare e riposare.
Le fosse sono rotonde e, se il defunto è importante, gli fanno una capanna di palma.
Non hanno conoscenza né di gloria né di inferno, dicono solamente che dopo la morte andranno a riposare in un bel luogo.
Per molte cose tengono conto della legge di natura.
Hanno memoria del diluvio e dicono che morirono tutti tranne una vecchia che fuggi su un albero alto. Secondo un’altra leggenda una donna e suo marito salirono su un pino e da loro, quando le acque scesero, procedettero tutti gli uomini e le donne.
Hanno solo ciò che chiamano santità, con culto e oggetti rituali: la “capanna sacra”, il maracá con tratti umani, danze, musiche e queste manifestazioni sono sul piano della magia con i loro stregoni o pajé, i loro riti, le donne in trance, il funerale e la sepoltura dei defunti in fosse rotonde, il culto dei morti e l’idea della sopravvivenza. (In queste descrizioni di santità si osservano già gli elementi essenziali delle religioni primitive: sacerdote/feiticeiro (stregone); casa buia/capanna sacra; idolo/zucca; preghiera/domanda e promessa di beni materiali.)
Speriamo di riuscire, in qualche modo, di far loro abbandonare i cattivi costumi. Non possiamo ancora raggiungere tale scopo perché rischiamo di provocare conflitti.
Diálogo sobre a Conversão do Gentio (Dialogo sulla conversione del pagano), composto fra il 1556 e il 1558 e pubblicato nel 1880, è opera che esalta il valore umano oltre che cristiano della catechesi. Il dialogo certamente si rivolgeva agli scolari delle scuole gesuitiche e ai coloni che trattavano con gli indigeni. La naturalezza colloquiale propria degli interlocutori, alternata a periodi costruiti secondo la migliore sintassi, consentono di classificare il testo come letterario. A volte il barocco in gestazione vi fa capolino.
JOSÉ de ANCHIETA (1534-1597)
Il poeta che scriveva poesie sulla sabbia
Nacque il 19 marzo 1534 a São Cristovão de Laguna (capitale dell’isola Tenerife - Canarie), da genitori biscaglini, nobili o ricchi. Compiuti i primi studi in casa col padre, studiò filosofia a Coimbra, distinguendosi per la sua applicazione allo studio, il talento letterario, il fervore religioso. A diciassette anni entrò nella Compagnia di Gesù. Nel 1549, accompagnò la missione gesuitica di Manuel da Nóbrega che si recava in Brasile per fondare l’Ordine della Compagnia. Cofondatore nel 1554 del villaggio di Piratininga, dove due anni più tardi verrà fondato il Collegio che tanta parte avrà nella crescita dell’incipiente popolamento, origine della futura città di São Paulo. Da quel momento Padre Anchieta si dedicò all’esercizio dell’apostolato a São Vicente, a Piratininga, vivendo a stretto contatto con gli indios, esponendosi non raramente a seri rischi in pericolose missioni di pace e catechesi. Da ciò derivano le minuziose conoscenze del clima e della natura rivelate in lettere e relazioni, fra cui la famosa Epistola quam plurimarum rerum naturalium quae S. Vicenti (nunc S. Pauli) provinciam incolunt del 1560. In quarantaquattro anni di missione svolse un intenso lavoro pedagogico e di catechesi. Operò a São Vicente come educatore di indigeni e di coloni, poi come rettore del collegio locale, quindi nel 1573 venne nominato Padre Provinciale di Bahia. Produsse un’ampia attività letteraria di grammatico, prosatore naturalista, poeta lirico, ma soprattutto di opere teatrali bilingue (e anche plurilingue) che venivano rappresentate dagli indios.
Morì a Reritiba (Espírito Santo) il 9 giugno 1597 in concetto di santità.
Della sua vasta attività letteraria, praticamente inedita, sia in prosa che in poesia, in latino e tupi, in portoghese e spagnolo, vide pubblicato solo nel 1595 Arte de gramática da língua mais usada na costa do Brasil (Arte della grammatica della lingua più parlata sulla costa del Brasile), la prima grammatica di una lingua indigena che dà origine alla linguistica dell’America portoghese. Anchieta notò che la lingua tupi è copiosa, ha molte sincopi come il greco, i nomi sono tutti indeclinabili, i verbi hanno coniugazioni e tempi. Nella pronuncia sono raffinati, parlano a bassa voce che sembra non si sentano e non hanno la F, I, Z, S e RR.
La sua opera ha subito nel tempo ogni sorta di vicissitudini: le Poesias sono state riunite in un’edizione completa solo nel 1954 in occasione del IV centenario della fondazione di São Paulo. Anche le lettere, le relazioni e le cronache di Padre Anchieta si caratterizzano come cronaca di informazione. Ricordiamo la famosa Quam Plurimarum Rerum Naturalium del 1560 contenente dati su flora e fauna, importanti notizie etnologiche (attitudine degli indios per la danza, il gusto per lo spettacolo). Nel 1933 le Cartas vennero riunite e pubblicate sotto il titolo di Cartas, informações, fragmentos históricos e sermões (Lettere, informazioni, frammenti e sermoni). Esse costituiscono il gruppo più importante dei suoi scritti, fonte di dati non esistenti in altre opere, di cui fa parte Informazione del Brasile e delle sue Capitanie, introdotto da una rapida descrizione della storia della scoperta portoghese, seguita da ampie notizie sulle sette province in cui era allora diviso il territorio, in particolare sulla capitania di São Paulo. Rilevanti le notizie sugli indigeni di cui documenta tutti gli aspetti (religioso, sociale, linguistico) mettendo in luce i lati buoni come la collaborazione fra gente della stessa “nazione”, il limitato ricorso alla poligamia, l’assenza di idolatria. Emozionanti le descrizioni di foreste vergini, animali feroci, burrasche marittime. Dal punto di vista storico e letterario interessanti sono i fatti riguardanti i primi decenni della storia brasiliana (fondazione di São Paulo -1554 e São Sebastião do Rio -1565, entrata dei Francesi a Bahia e arrivo e penetrazione dei Gesuiti). Fa parte della sua copiosa letteratura d’informazione l’opera Brasílica societatis história, conosciuta come Storia brasiliana della Compagnia di Gesù, comprendente gli scritti informativi che l’autore raccolse nel corso della sua opera di evangelizzazione degli indigeni, di promozione della convivenza con gli europei e della colonizzazione di quell’immenso e sconosciuto paese che difese contro l’invasione francese.
Anchieta è anche autore di Breve narrazione delle cose relative ai collegi e residenze della Compagnia in questa provincia brasiliana nel 1584, con notizie fondamentali per la conoscenza dei costumi degli indigeni, della reazione alla catechesi nella loro semplicità spirituale.
Complessivamente gli scritti di informazione di Anchieta rivelano cose viste in prima persona oltre a costituire una delle primissime ed entusiastiche testimonianze del nuovo mondo.
Padre Anchieta aveva talento per la scrittura. Se non avesse dato la priorità alla missione, avrebbe potuto diventare un grande poeta. Può comunque essere considerato il primo vero letterato della Colonia.
Fu detto l’apostolo del nuovo mondo.
L’opera Arte de gramática mais usada na costa do Brasil fu scritta da Padre Anchieta nella seconda metà del secolo XVI, nata come strumento indispensabile per la comunicazione... serviva molto per l’istruzione dei catecumeni.
Anchieta notò (come d’altronde i suoi contemporanei) la grande somiglianza delle lingue parlate dagli indigeni del litorale. I tupi… hanno una stessa lingua di grandissima utilità per la loro conversione. Questa identità sarebbe stata associata alla lingua geral (generale), come i gesuiti chiamavano il tupi universale.
Della Grámatica del gesuita nel 1556 esisteva già una copia manoscritta nel Collegio della Bahia. Il libro venne però stampato solo nel 1595, due anni prima della morte dell’autore.
Diamo un estratto dell’Epistola quam plurimarum rerum naturalium quae S. Vicenti (nunc S. Pauli) provinciam incolunt:
La divisione delle stagioni dell’anno (a ben vedere) è completamente diversa da come si comprende lì (Portogallo), e talmente confusa perché quando lì è primavera, qui è inverno e le stagioni non si possono facilmente distinguere né si può determinare il periodo preciso della primavera e dell’inverno perché il sole, nel suo percorso, crea una temperatura costante, così che l’inverno non è troppo rigido, né l’estate crea molestia per il caldo. In nessun periodo dell’anno mancano piogge copiose ogni quattro, tre, due giorni o da un giorno all’altro. Sole e pioggia si alternano, ma in alcuni anni le piogge scarseggiano rendendo improduttivo il terreno che non dà i frutti consueti, non tanto per il caldo, che non è mai eccessivo, quanto per la carenza di acqua. Per contro l’abbondanza di acqua danneggia le radici di cui ci nutriamo. (Il principale alimento di questa terra è la farina ricavata da una radice che si chiama mandioca che gli indios ci procurano insieme a verdura, carne di animali e pesce).
I tuoni fanno un tale fragore da terrorizzare, i lampi offuscano completamente la vista e sembrano, in certo senso, fare a gara con la luce del giorno, a ciò si aggiungono le furiose e violente bufere di vento a volte talmente impetuose da costringerci a ricorrere alla preghiera e scappare da casa per paura che ci crolli addosso. Vacillano le abitazioni scosse dai tuoni, cadono gli alberi e tutto finisce al suolo.
Non molti giorni fa, trovandomi a Piratininga, dopo il tramonto, improvvisamente l’aria incominciò ad offuscarsi, il cielo a rannuvolarsi, a scatenarsi lampi e tuoni, a sollevarsi il vento finché la tempesta, arrivando da nord est da dove di solito arriva, si abbatté con tale violenza da sembrare che il Signore minacciasse di distruggerci. Traballarono le case, caddero i soffitti e la furia della natura abbatté la selva, sradicò alberi altissimi, spaccò a metà i meno grandi, ne fece a pezzi altri tanto da ostruire l’accesso al bosco. Era da vedere quanta era la distruzione di alberi e case nel giro di mezz’ora (perché non durò di più) e, per la verità, se il Signore avesse prolungato quel tempo, niente avrebbe potuto resistere a tanta violenza e tutto sarebbe crollato. Ma ciò che desta maggiore stupore, in mezzo a tutto questo, è che gli indios, che in quella circostanza stavano spassandosela bevendo e cantando (come di costume), non si spaventarono per tanto marasma, né smisero di danzare e bere come se niente fosse.
Il 13 di dicembre, il sole arriva al suo più alto livello. Questo giorno è molto lungo e non c’è inclinazione d’ombra. Dura 14 ore e non passa oltre il sud; da lì però ritorna al nord quando il caldo è più intenso e le febbri tormentano con dolori. L’undicesimo giorno di giugno, che è brevissimo e nel quale il sole è molto lontano da noi, dura (credo) circa dieci ore da quando il giorno irrompe fino all’occaso. Infine il grande caldo estivo viene moderato dalle molte e abbondanti piogge, accompagnate da tempeste, tuoni e lampi.
Ci sono indios il cui più grande piacere è mangiarsi l’un l’altro. I prigionieri li ammazzano con grandi feste e canti, con molti riti pagani, bevendo molto vino ricavato da radici e quei miserabili dei prigionieri ritengono questa morte molto gloriosa…
Quelli con i quali viviamo conservano un’antichissima inimicizia con altri della stessa “nazione” e per questa ragione ora gli uni, ora gli altri, molto frequentemente si combattono con il concorso di molti provenienti da altri luoghi. Quelli che provengono da altre parti, come d’abitudine, cominciano a offrire sacrifici ai loro stregoni (chiamati pajé) in una casetta costruita appositamente, interrogandoli su ciò che dovrebbe succedere nel conflitto. Nonostante la parola di Dio sia già stata seminata, essi danno credito a quelle menzogne. Gli stregoni sono tenuti da tutti i pagani in grande considerazione benché ne approfittino di loro quando sono colpiti da una malattia. E così li liberano dall’infermità e affermano che la vita e la morte sono in loro potere. Ma nessuno di questi stregoni si presenta a noi perché abbiamo scoperto la loro impostura.
Voglio riferire un fatto che non so se fa più ridere che piangere. Sicuramente non farà piacere la cecità e verrà schernita la dissennatezza. In un certo villaggio di indios, dove andai con alcuni sacerdoti a portare la medicina dell’anima e del corpo a un infermo, incontrai uno stregone, che gode di grande fama presso gli indios il quale, siccome lo esortai con fervore di smetterla di dire bugie e di riconoscere invece un solo Dio Creatore e Signore di tutte le cose, dopo una (per così dire) disputa, rispose: “Io riconosco tanto Dio, come il figlio di Dio, perché avendomi morso il mio cane, chiamai il figlio di Dio affinché mi portasse una medicina. Lui venne subito e, irato con il cane, lo fece portare via da quel vento impetuoso che soffiò poco fa per distruggere la foresta, vendicando così il danno causatomi dal cane”. Così disse, e il sacerdote rispose: “Tu menti!”. Le donne già cristiane, alle quali insegnammo le cose della Fede, non poterono trattenere le risa, certamente per la dabbenaggine dello stregone.
Preciso che l’espressione “tu menti” che può sembrare irriverente, viene usata senza alcuna offesa perché i Brasi(brasiliani) non usano giri di parole.
Gli indios, fra i quali ci troviamo ora, ci danno i loro figli da indottrinare. Apprendono le preghiere in portoghese e nella loro lingua e molti di loro, uomini e donne, la domenica vengono a messa.
Sono continuamente in guerra, una nazione contro l’altra, cosa comune in tutta l’India del Brasile e il giorno prima fanno una capanna, secondo il loro costume, dove pongono una zucca con sembianze umane decorata con piume. Gli stregoni li chiamano pajé perché predicono l’esito del conflitto… e il giorno seguente, vedendo un gran numero di nemici, svengono. Quando vincono, i nemici uccisi, che di solito prima mangiavano, li interrano ma poi tornano sul luogo della battaglia, li dissotterrano e li mangiano...
C’è una nazione molto diffusa, carijós, molto più docile. Ci sono poi moltissime nazioni nell’interno, fino al Perù. Fra di loro c’è chi non mangia carne umana ed è arrivato più vicino alla ragione. Altre nazioni si espandono fino al Rio delle Amazzoni… sappiamo di certi indios, chiamati ibirajara. Non hanno idoli né stregoni e, da quanto abbiamo sentito, in queste e in altre cose si differenziano molto dagli altri indios.
Si verificano straripamenti di fiumi (quasi sempre in settembre e dicembre) con grandi inondazioni dei terreni e i pesci, che escono per deporre le uova nell’erba con poca acqua (uscita che gli indios chiamano piracema) vengono facilmente presi compensando la carenza di cibo dovuta alle inondazioni. Questo si verifica, come già detto, quasi sempre in settembre e dicembre. Passato l’autunno che, cominciando a marzo finisce a giugno con una temperatura gradevole, cessano le piogge, il freddo diventa intenso, di più in giugno, luglio e agosto. In questo periodo si vede di frequente non solo la brina nei campi, che brucia alberi ed erbe, ma anche la superficie dell’acqua tutta coperta di ghiaccio. Allora si svuotano i fiumi fino al letto, così si può raccogliere una grande quantità di pesce.
Anche in un certo periodo dell’anno si raccoglie un’infinità di pesce. Gli indios lo chiamano pirá-iqué, ossia “entrata dei pesci”. Provenienti da molte parti del mare, entrano in luoghi stretti e poco profondi per deporre le uova. Ciò che sto per dire è incredibile ma unanimemente comprovato e verificato per notoria esperienza: dieci o dodici pesci salgono in superficie per esplorare, guardano e osservano tutto intorno per vedere se può esserci minaccia. Si ritirano come se presentissero un’insidia e conducono altrove il branco…
C’è un certo pesce chiamato boi(bue)marinho, iguaraguá per gli indios, frequente nella capitania di Espírito Santo e in altre località del nord dove non fa freddo. Grande più di un bue è lunghissimo, si nutre di erba come indica la gramigna strappata dalla roccia bagnata dei terreni pantanosi, la pelle è come quella dell’elefante, sul petto ha qualcosa di simile alle branchie con cui nuota e sotto ci sono le mammelle con cui allatta. La bocca è assolutamente simile a quella del bue. Eccellente da mangiare non si sa se considerarla carne o pesce. Il grasso, sotto la pelle e soprattutto intorno alla coda, messo sul fuoco dà un condimento che può essere benissimo paragonato al burro, e non so se è migliore, e il grasso serve per condire qualsiasi cibo. Le ossa sono durissime come marmo.
Nell’interno abbiamo incontrato dei serpenti. Vivono quasi sempre nei fiumi. Incredibile la loro grossezza. Ingoiano un cervo intero e persino animali più grandi. Un nostro fratello, vedendone uno nuotare nel fiume, lo scambiò per l’albero di una nave. Dicono che non hanno denti, ingoiano le vittime intere triturandole con la bocca. Dopo il pasto si accasciano al suolo come morti e gli uccelli rapaci gli raschiano il ventre mangiando il contenuto. Il loro ventre poi si riforma.
Ci sono anche lucertole, dette jacaré, che vivono allo stesso modo nei fiumi. Possono ingoiare un uomo, sono coperte di scaglie durissime e sono fornite di denti acutissimi.
Ci sono altri anfibi, detti capiyuára (mangiatori) di erba. Sono addomesticabili, escono di casa per mangiare erba e ritornano da loro stessi.
Ci sono molte lontre, dalla cui resistente pelle si ricavano cinti, e altri animali simili con unghie e denti acutissimi. Quelli solo terrestri vivono in caverne sotterranee scavate da loro stessi, sono di colore verde mare e più grandi degli acquatici.
I ragni sono di colore vario, rossi, colore della terra, altri variopinti, orribili alla vista.
Ci sono le pantere di estrema ferocia. Come pure le tigri, causa di molte morti. Ci sono anche altri animali creduti leoni, pure feroci ma più rari.
I tamanduá, brutti di aspetto, più grandi dei cani grandi, hanno gambe corte e perciò l’uomo li supera nella corsa. Le loro setole nere, striate di grigio, sono ispide e lunghe come quelle del maiale. Sono coperti da una pelle così dura che difficilmente una freccia riesce a penetrarla. Collo lungo e sottile, testa piccola e sproporzionata rispetto al corpo, bocca rotonda, lingua lunga tre palmi, solo quella che esce dalla bocca per raccogliere le formiche. Le zampe posteriori sono robustissime, molto grosse, che usano solo per difesa. La carne è saporitissima, si direbbe bovina, ma più tenera.
C’è un’infinità di scimmie e un animale chiamato tatú, simile alla lucertola per la coda e la testa.
Molti gatti selvatici.
Ci sono quasi venti specie di api che producono miele nei tronchi degli alberi, fra i rami e sotto terra. Abbondante è la cera.
Nella foresta c’è una grande quantità di mosche e zanzare che, succhiando il sangue, mordono crudelmente soprattutto in estate quando i terreni sono allagati. Alcune hanno aculei e zampe lunghe e sottilissime, forano la pelle e succhiano il sangue finché, gonfie, faticano a levarsi in volo. Il fumo è un buon rimedio per disperderle. Altre zanzare, chiamate marigui, che vivono in riva al mare, sono una piaga terribile, talmente piccole che non si vedono, si viene punti e non si sa dove, si sente bruciare e non c’è traccia di puntura, non si sa da dove venga quell’improvviso fastidio. Se ti gratti, si sente più dolore, si rinnova e aumenta per due o tre giorni.
Impossibile dire quanto è grande la varietà degli uccelli. I pappagalli sono i più comuni, buoni da mangiare, si nutrono di miglio e quando scendono dagli alberi per mangiare, ne rimangono sempre due di guardia e, dopo che tutti hanno mangiato, scendono a loro volta per mangiare.
Ci sono struzzi che non possono volare a causa della grossezza del corpo.
Fernão CARDIM (1548 ?–1625)
La data della sua nascita dovrebbe essere il 1548 (Viana - Portogallo) stando a quanto da lui stesso dichiarato il 14 agosto 1591, in occasione di una funzione a Salvador, ossia che aveva 43 anni, più o meno. Però da altra fonte risulta essere entrato nella compagnia di Gesù nel 1555 a quindici anni, facendo così retrocedere l’anno della sua nascita al 1540.
Entrato molto giovane nella Compagnia di Gesù, in Brasile vi giunse solo nel1584 come visitador (padre visitatore) svolgendovi un’intensa attività missionaria. Si recò in tutte le principali capitanie e nei villaggi dal Pernambuco a Rio de Janeiro. Fu in questo periodo che scrisse le lettere e i tre libri Do princípio e origem dos índios do Brasil e dos seus costumes (Del principio e origine degli indios del Brasile e dei loro costumi), Narrativa epistolar de uma viagem e missão gesuitica pela Bahia, Ilhéus, Porto Seguro, Pernambuco, Espírito Santo, Rio de Janeiro, São Vicente ecc. desde o ano de 1583 ao de 1590 (Narrativa epistolare di un viaggio e missione gesuitica nella Bahia, Ilhéus, Porto Seguro, Pernambuco, Spirito Santo, Rio de Janeiro, São Vicente ecc. dal 1583 al 1590) e Do clima e terra do Brasil (Del clima e terra del Brasile).
Nel viaggio di ritorno in Portogallo (1600) la sua nave venne assalita dai pirati di Francis Cook che si impossessarono dei suoi primi due libri, sull’etnografia brasiliana, e vennero poi pubblicati in Inghilterra nel 1623. Il terzo manoscritto venne pubblicato a Lisbona nel 1847, mentre la sua opera completa ha visto la luce solo nel 1925, in occasione del tricentenario della sua morte, con il titolo Tratados da terra e da gente do Brasil (Trattati della terra e della gente del Brasile).
Nel 1609 Cardim ritornò definitivamente in Brasile come Provinciale della Compagnia.
È stato anche Decano del Collegio di Bahia dove ha avuto come discepolo Padre Antonio Vieira (1608-1697).
Controverso il luogo della sua morte (1625). Secondo alcune fonti sarebbe avvenuta a Salvador di Bahia, secondo altre in viaggio vittima di corsari oppure durante la peste di Lisbona curando gli ammalati.
(la sua opera) rivela un percorso accidentato come la sua vita, divisa fra Europa e Brasile (Brasiliana da Biblioteca Nacional).
Fernão Cardim unì l’interesse catechistico a quello cronachistico e naturalistico, rivolto a un paesaggio che già prima aveva affascinato viaggiatori e cronisti di ogni paese. (Luciana Stegagno Picchio Breve storia della letteratura brasiliana, pag. 32)
Seguono alcuni passi e commenti relativi a Tratado da terra e gente do Brasil:
Riguardo clima e terra del Brasile, Cardim riferisce cose già dette dai precedenti cronisti (salubrità, longevità, clima gradevole) … l’inverno incomincia a marzo e finisce in agosto. L’estate incomincia a settembre e finisce in febbraio. Il giorno e la notte hanno quasi sempre la stessa durata tutto l’anno. La terra è ben irrigata dai fiumi e riceve abbondante acqua dalle piogge. In genere non fa caldo né freddo, benché fra Rio de Janeiro e São Vicente faccia caldo e freddo ma non eccessivamente. Il cielo è puro e terso soprattutto di notte. La luna è molto pregiudizievole per la salute, al mattino sorge subito il sole e al vespro si fa subito notte.
La terra è coperta da moltissimi alberi sempreverdi. È montuosa soprattutto nei pressi delle scarpate del mare. Da Pernambuco a Espírito Santo il terreno è poco pietroso, da lì a São Vicente ci sono boschi altissimi, molto accidentati e le scogliere sono molto rocciose. Cibo e acqua sono generalmente sani e di facile digeribilità. Per vestirsi c’è solo il cotone. La terra in genere offre abbondante bestiame e zucchero.
In questo Brasile ci sono selve con alberi di notevole grossezza e altezza con i quali si fanno delle grandi canoe, larghe sette o otto palmi e lunghe anche oltre cinquanta palmi. Possono portare un carico come quello di una grande barca e contenere da venti a trenta rematori. Si fanno anche attrezzature per engenhos. Ci sono molti alberi che, abbattuti, non marciscono mentre altri che, immersi nell’acqua, diventano sempre più verdi e resistenti. (…) c’è il pau-brasil da cui si estrae il pigmento rosso, e altri legnami da cui si estraggono altri pigmenti di vari colori molto apprezzati, e si fanno tutti i lavori di tornio e di spezie. Ci sono legni profumati, come il jacarandá e altri di alto valore e pregio. C’è grande quantità di sandalo (…). Inoltre cedri, pau angelim e alberi di noce moscata. Questo legno è pregiato e profumato come quello dell’India però è scarso e pertanto caro e molto richiesto.
Araçá – Di questi alberi ce ne sono in abbondanza e di molti tipi. I frutti sono delle piccole pere gialle, rosse e altre verdi. Sono saporite, appetitose, stuzzicanti per avere un che di asprigno. Danno frutti due volte l’anno.
Ombú – È un albero grosso, non molto alto, molto diffuso, dà un frutto come prugne gialle, rotonde e per questo i Portoghesi le chiamano prugne. Fanno cadere i denti. Infatti gli indios che le mangiano perdono i denti facilmente, le radici sono commestibili e sono più buone del melone, perché sono più dolci di un dolce zuccherino. I frutti sono freddi, salutari, si danno agli ammalati, in sostituzione dell’acqua, a quelli che vanno nel sertão.
Araticú – Albero della larghezza dell’arancio ma più alto. Le foglie sono come quelle del cedro e del limone. Albero fresco e aggraziato, dà frutta dall’aspetto e grandezza della pigna, ha un buon profumo, è un frutto gustoso e stuzzicante.
Ci sono molti tipi di questi alberi, uno si chiama araticú-paná. Leggermente velenoso, mangiandone molto può far male.
Con le radici si fanno boe per le reti e sono leggere come il sughero.
Segue un breve elenco di animali.
Cervo, detto “sugoaço” (concorda con quanto riferito da Anchieta) ce ne sono di molto grandi, come bellissimi cavalli, hanno grandi corna ramificate, alcune fino a dieci o dodici punte, sono rari e si trovano lungo il fiume São Francisco e nella Capitania di São Vicente dove si chiamano suaçuapara. Sono apprezzati dai carijós che con le punte e i nervi fanno le estremità delle frecce e palle da scagliare per catturare animali e uomini. Ce ne sono altri più piccoli con le corna con una sola punta. Ci sono altre tre o quattro specie, alcuni vivono solo nella foresta, altri solo nei campi a branchi.
La pelle e la carne sono molto apprezzate.
Tapyretê – Sono i tapiri con la cui pelle si fanno gli scudi. Assomigliano alle mucche ma di più alle mule, la coda è lunga un dito, non hanno corna, hanno una proboscide lunga un palmo che si ritrae e si allunga. Nuotano e si immergono in profondità, raggiungono rapidamente il fondo che percorrono riemergendo da un’altra parte.
Ce n’è una grande quantità in questa terra.
Esistono altre specie (…), si allevano in casa e diventano domestici e gli indios li tengono in conto.
Paca – assomigliano ai porcellini da latte.
Giaguari, molti. Neri, grigiastri, maculati, crudeli e feroci, assaltano i pollai e i maiali in branchi e basta una zampata inferta a un uomo o a un animale per squartarlo, ma ci sono indios che li catturano e ammazzano trattando il cadavere con cerimonie come fanno con i prigionieri... le donne portoghesi usano la loro pelle come tappeto.
Opossum – assomiglia alla volpe di Spagna ed è altrettanto scuro, ma è piccolo come un gallo.
Bradipo/Preguiça(pigrizia, come lo chiamano in Brasile). È un animale singolare, assomiglia ai cani pelosi da ferma, sono molto brutti e sembrano una donna spettinata. Hanno mani e piedi lunghi e unghie grandi e impressionanti, camminano strisciando il ventre per terra con i cuccioli abbracciati all’addome. Si muovono lentamente e vengono catturati facilmente. Si nutrono di determinate foglie di fico che non cresce in Portogallo e pertanto non si possono portare lì perché morirebbero subito.
Sariga – Simile alla volpe di Spagna, grande come un gatto, è grigiastro. Porta i piccoli in un marsupio. Aggredisce i pollai solo di notte e non gli sfugge un uccello.
Tatú (armadillo) – Animale grande come un porcellino da latte, ricoperto come da lamine attraverso le quali non passa una freccia. Ma se si getta acqua nella sua tana, si cattura facilmente. La carne è come quella del pollo. Con la pelle si fanno borse molto resistenti. Sono addomesticabili.
Uccelli – Questo clima pare influisca sulla bellezza degli uccelli e, poiché la terra è tutta ricoperta di boschi, così ci sono bellissimi uccelli di tutti i colori, infiniti, sempre a stormi, e ci sono isole popolate solo da pappagalli. Sono commestibili, in genere molto belli e parlano se glielo si insegna.
Degli usi e costumi degli indios, Cardim fornisce informazioni molto più dettagliate rispetto a quanto descritto da altri cronisti. Noi ci limiteremo alle notizie che seguono:
In tutta questa provincia ci sono molte e differenti lingue, però una è la principale ed è parlata da una decina di nazioni che vivono sulla costa e in una parte del sertão, con alcune differenze fra di loro. È facile, elegante, soave e ricca e, nonostante qualche difficoltà, i Portoghesi la intendono bene, soprattutto quelli nati qui. I Padri tengono rapporti con queste nazioni, conoscendone la lingua. Con l’aiuto e le armi, questi indios conquisteranno questa terra combattendo contro i loro stessi parenti e contro varie nazioni barbare costringendole a rifugiarsi nel sertão.
Il pagano mangia in continuazione, giorno e notte a qualsiasi ora finché ha cibo. Non lo conserva e mangia subito tutto ciò che ha dividendolo con i suoi amici… ritiene grande onore e cortesia essere generoso riscuotendo molta fama e prestigio. Il peggior affronto che si può far loro è considerarli poveri e quando non hanno da mangiare sono molto sofferenti a causa della fame e della sete.
… mangiano qualsiasi genere di carne anche di animali ripugnanti come serpenti, rospi, topi e simili e qualsiasi genere di frutta, esclusa quella velenosa, e la loro alimentazione dipende in genere da ciò che la terra offre spontaneamente come caccia e frutta, però è sostanziosa e sana, e inoltre con molta verdura ... di solito bevono dopo mangiato acqua o vino che fanno con molti tipi di frutta e di radici... bevono senza regola fino a crollare.
Hanno i loro giochi, soprattutto i bambini, molto vari e graziosi nei quali scimmiottano gli uccelli allegramente e con molto ordine, e i bambini sono allegri e portati a divertirsi e lo fanno con molta calma e amichevolmente; fra di loro non c’è discordia né modi sgarbati, e raramente quando giocano non vanno d’accordo, né bisticciano per nessuna ragione e raramente si scontrano o combattono.
I genitori insegnano ai figli fin da piccoli a cantare e a ballare. I loro balli sono ripetitivi, un continuo battere i piedi stando nello stesso posto o girando in cerchio dimenando il corpo e la testa e lo fanno talmente a tempo di musica, con tale serenità al suono di un sonaglio come quelli che usano i bambini di Spagna, con dentro delle pietruzze o dei semini e così ballano insieme, perché non fanno una cosa senza l’altra, e tengono una tale regola e ordine che a volte cento uomini ballano e cantano in fila, uno dietro l’altro. Sono molto stimati i cantori, sia uomini che donne, tanto che se un nemico è un buon cantore e inventore di musica gli risparmiano la vita. Le donne ballano insieme agli uomini e con le braccia e il corpo fanno grandi moine e pantomima, soprattutto quando ballano soli.
Tutti vanno nudi sia uomini che donne… ora però alcuni si vestono non per pudicizia ma per cerimonie … alcuni di tanto in tanto escono con qualcosa che arriva all’ombelico e nient’altro e qualcun altro con un copricapo… le donne danno molta importanza a nastri e pettini.
Gli indigeni hanno dimore di legno coperte di foglie e alcune hanno una lunghezza di duecento, trecento palmi, e hanno due o tre porte piccole e basse. Dimostrano la loro maestria nel cercare legname e sostegni molto grossi e di durata, e ci sono case di cinquanta, sessanta o settanta palmi e altre altrettanto larghe.
Nella casa abita un capo, o più di uno, al quale tutti devono ubbidire, e in ogni tratto del domicilio c’è una coppia con figli e famiglia senza che ci siano divisioni fra gli uni e gli altri e chi entra in queste abitazioni vede un labirinto avendo ogni tratto il suo fuoco e le sue amache e utensili così che entrando si vede tutto ciò che c’è, e la casa ha duecento e più persone.
Le donne partoriscono i figli (e partoriscono per terra) non tolgono il neonato, ma lo fa il padre o uno fra i Cristiani scelto come compare. Il padre spezza il cordone ombelicale con i denti o con due pietre.
Gli indios sono soliti trattare bene le donne, non inscenano dispute eccetto quando bevono in genere vendicandosi di loro dando la colpa al vino e dopo tornano amici come prima, non dura molto il rancore fra di loro. Stanno sempre insieme e quando vanno fuori la moglie sta dietro al marito in modo che se si imbattono in un’imboscata lei abbia il tempo di fuggire mentre il marito combatte con l’avversario, ma al ritorno, ritenendo ormai tutto sicuro, la moglie sta davanti e il marito dietro e, se succede un imprevisto, la donna precedendo può fuggire a casa e il marito rimane con i nemici. Però in zona sicura o dentro il villaggio la donna cammina sempre davanti, e il marito dietro, perché gli uomini sono gelosi e vogliono avere sempre sott’occhio la donna.
Descrizione della città e società di Pernambuco da Narrativa epistolar de uma viagem e missão gesuitica:
Possiede una bella cattedrale a tre navate, con molte cappelle intorno: una bella costruzione quando sarà finita. Ha un suo vicario con due o tre chierici, oltre quei molti altri allogati nelle piantagioni dei portoghesi, che li mantengono a proprie spese, assicurando loro il vitto per tutto l’anno più quaranta o cinquanta réis di stipendio e altri vantaggi. Ha circa duemila abitanti fra città e dintorni con molti schiavi di Guinea calcolabili in duemila circa: gli indios autoctoni sono ormai pochi. Il paese è tutto molto piano e il lavoro delle piantagioni si fa ormai coi carri e via terra. La fertilità dei canneti è indicibile; ci sono sessantasei engenhos e ciascuno di essi è un vero villaggio; certi anni si lavorano duecentomila arrobas [tremila tonnellate] di zucchero, e gli engenhos non riescono a smaltire la canna, poiché si deve fare la fila per la macina e non si arriva all’esaurimento, così che si sta sempre macinando canna di tre o quattro anni addietro; e anche se arrivano a Pernambuco quaranta o più bastimenti, non riescono mai a portare via tutto lo zucchero. Si fanno anche molti allevamenti. La gente è benestante: ci sono uomini potenti che posseggono quaranta, cinquanta, ottantamila cruzados. Alcuni però sono anche assai indebitati per le forti perdite di schiavi di Guinea (muoiono in gran numero) e per le grandi spese e gli eccessi del loro tenore di vita. Mogli e figlie si vestono con ogni specie di velluti, damaschi, sete e in questo esagerano oltremisura: le donne sono sussiegose e non molto devote, anche se frequentano le messe, le prediche e i confessionali. Gli uomini sono tanto avidi di prestigio che comprano cavalli da due o trecento cruzados e alcuni di loro hanno tre o quattro cavalli di gran valore. Sono molto festaioli. Al matrimonio di una fanciulla con un oriundo di Viana (sono i padroni, qui) amici e parenti si vestirono gli uni di velluto cremisi, gli altri di verde o di damasco e sete di vari colori e anche le briglie e le selle dei cavalli erano delle stesse sete dei vestiti. Quel giorno ci furono touradas, tornei, giochi di società, gare di tiro, e ci fu persino un’incursione al collegio, per vedere il padre visitatore; dal che si può arguire quel che si fa in tutte le altre feste, che sono all’ordine del giorno. Piacciono loro soprattutto i banchetti dove normalmente si radunano dieci o dodici signori d’engenho, mangiandosi, a furia di contraccambiare, tutto quanto posseggono e bevendo ogni anno diecimila cruzados di vini portoghesi: certi anni si sono bevuti fino a ottantamila cruzados pronta cassa. Insomma nel Pernambuco c’è più vanità cha a Lisbona. La città [Olinda: Recife verrà dopo] è ben situata in posizione sopraelevata con ampia vista sul mare e verso terra; bei palazzi di pietra e calce, mattoni e tegole. I padri gesuiti danno lezioni di grammatica e di latino e poi insegnano a leggere e a scrivere e predicano e confessano; indios e negri di Guinea danno ottimi risultati; quanto ai portoghesi, ci vogliono molto bene. (Luciana Stegagno Picchio “Storia della letteratura brasiliana” – pag. 37) (Tratto da “1500 – Sguardo sulla Letteratura Brasiliana di viaggio con inquadramento storico”, pubblicato dalla Casa Editrice Romar Srl, via Gran Paradiso, 9 – 20090 Segrate MI, 2013.) Mirella Abriani è presente in varie antologie di premi letterari di traduzione, poesia e narrativa. Ha ricevuto riconoscimenti per l’impegno culturale, letterario e, per l’attività di traduttrice, il Premio dell’União Brasileira de Escritores. Ha pubblicato con Battei, Crocetti, Lineacultura, Librarti, Mondadori, con la rivista Smerilliana (traduzione di poesie di Cecília Meireles, Carlos Drummond de Andrade e Wilbett Oliveira–Brasile; Eugénio de Andrade e Maria do Rosário Pedreira–Portogallo). Ha collaborato con le riviste telematiche Pagine (poesie di Onjaki–Angola e di Casimiro de Brito–Portogallo) e Sagarana (racconti di Julio Monteiro Martins, Rubem Fonseca, Cecília Meireles e altri, poesia di Maria do Rósario Pedreira). Citata alle pagine 264 e 417 della Storia della Letteratura Contemporanea di Neuro Bonifazi e nella tesi di laurea su Cecília Meireles di Alice Micheli, discussa a Siena (dicembre 2004), relatori Roberto Francavilla e Antonio Tabucchi
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