IL SILENZIO DEI MEDIA GENERA MOSTRI A partire da un invito dalla rivista Sagarana ad ogni nuova edizione uscirà un articolo inedito suggerito da Amnesty International Italia su un tema di grande rilevanza in questo momento. Questo è il primo articolo di un totale di otto. Andrea Matricardi
Ogni volta che torno a Genova e ripasso per i luoghi tragici del G8, mi tornano in mente le immagini delle tv di allora: corso Gastaldi e la carica della polizia contro persone inermi che alzano le mani colorate in segno di resa, ma che vengono picchiate con una violenza inesorabile; piazza Alimonda e la folla impazzita, il corpo di Carlo Giuliani a terra e la camionetta che gli passa sopra, mentre è ancora vivo; corso Marconi e corso Italia con i reparti di poliziotti bardati come antichi guerrieri che avanzano lentamente verso i dimostranti incappucciati e in canottiera; via Pascoli e la scuola Diaz con i vetri rotti, i pavimenti, la scale e le pareti coperte di sangue.
Genova è un buco nero dentro il quale si è perduto lo stato di diritto del nostro Paese: in quei giorni del luglio del 2001 in Italia, al centro della vecchia Europa, di recente insignita del Nobel per la Pace, sono rimasti sospesi i diritti civili e politici per diversi giorni, la libertà e la giustizia sono state inghiottite dalla violenza delle istituzioni e delle forze dell’ordine, senza che la maggior parte dei cittadini e la stragrande maggioranza dei mezzi di informazione se ne siano rese conto.
Incapacità di affrontare una così grande manifestazione, errata interpretazione di cosa significa “ordine pubblico”, prova generale di golpe istituzionale, precisa volontà di terrorizzare il più grande movimento globale di rivolta pacifica o forse tutte queste cause sommate tra loro: ancora oggi, a oltre dieci anni di distanza è difficile dare un’interpretazione chiara ed univoca di quanto è accaduto a Genova e delle sue ragioni.
Ma quel che è certo è che le conseguenze di tutto ciò hanno portato a violazioni sistematiche dei Diritti Umani che difficilmente trovano un equivalente in paesi ritenuti democratici: la violenza diffusa delle forze dell’ordine su manifestanti pacifici, che ha portato all’uccisione di un ragazzo di 23 anni, l’assalto immotivato ed il massacro di persone inermi alla Scuola Diaz, la detenzione in incommunicado e la tortura reiterata di ragazze e ragazzi nel carcere improvvisato nella caserma di Bolzaneto rappresentano, in sintesi, “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, secondo una definizione di Amnesty International.
Nei giorni immediatamente successivi, inevitabilmente la stampa e le televisioni pongono molta attenzione sull’accaduto, ma troppo rapidamente viene poi calato un colpevole silenzio.
Nei dieci anni successivi al 2001 gran parte dell’opinione pubblica sembra mettere in secondo piano la gravità dell’accaduto, ed i media, salvo rare eccezioni, non vogliono o non osano più parlare di quei fatti né tantomeno seguire le vicende processuali, che conducono alle sentenze dei processi di primo grado, assolutorie nei confronti dei vertici della Polizia, in particolare riguardo all’assalto alla Diaz (13 novembre 2008).
I principali quotidiani italiani, per non parlare delle televisioni, prendono a volte posizioni di equidistanza, quasi a giustificare, con un senso di presunta oggettività e di saggezza cerchiobottista, la violenza come risposta alla violenza, tanto da rivalutare le forze dell’ordine, in base ad una loro supposta ammissione degli “errori”, senza che di fatto invece ci sia mai stata una vera assunzione di colpevolezza da parte di qualsivoglia istituzione.
Un esempio fra tutti, l’editoriale con il quale Sergio Romano sul Corriere della Sera del 6 febbraio 2009 ribalta una realtà nella quale le vittime vengono accomunate ai devastatori: “La pubblica memoria non ha smesso di condannare la polizia, che mi sembra essersi resa conto dei suoi errori; e ha assolto i devastatori di Genova, diventati ormai i vincitori morali di quelle disastrose giornate.”
Successivamente, di fronte alla condanna, per certi aspetti clamorosa ma per altri giustamente inevitabile, dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, i media non possono tacere. Uno degli uomini più potenti d’Italia, divenuto nel frattempo direttore di uno dei servizi segreti italiani, viene condannato il 17 giugno 2010 a un anno e 4 mesi di reclusione per istigazione alla falsa testimonianza nei confronti dell'ex questore di Genova Francesco Colucci nel processo per l'irruzione alla Diaz, ribaltando completamente la sentenza di assoluzione in primo grado. La Cassazione annullerà poi tale sentenza, ritenendo che le prove che hanno portato alla condanna in appello non siano sufficienti a determinare la sussistenza dei fatti.
Gli organi di stampa riportano in più occasioni le manifestazioni di fiducia, espresse da tutte le parti politiche, nei confronti degli alti funzionari delle forze dell’ordine, e in particolare dell’ex capo della Polizia: “Gianni De Gennaro ha la mia piena e totale fiducia: fino alla sentenza definitiva non cambia nulla” dichiara Maroni, Ministro dell’Interno all’epoca della sentenza d’appello; “Ho stima e fiducia in Gianni De Gennaro, persona che ha servito lo Stato con dedizione”, dice l’on. Alfano, segretario del PDL; “Sono certo che il prefetto De Gennaro, nel suo nuovo incarico istituzionale, potrà efficacemente portare avanti il suo impegno...”, così Massimo D'Alema, esponente di spicco del PD, all’atto della recente nomina di De Gennaro a sottosegretario del Governo Monti.
D’altronde era difficile aspettarsi qualcosa di diverso da una classe politica che ha fatto naufragare la commissione parlamentare d’indagine, che non ha mai voluto istituire una vera commissione d’inchiesta indipendente e che non ha mai preso provvedimenti in questi anni per una riforma delle forze dell’ordine, che porti ad una maggiore responsabilità e trasparenza nei comportamenti. Le reiterate richieste di Amnesty International alle istituzioni italiane riguardano la previsione di corsi di formazione per tutte le forze dell’ordine, in modo da portare alla consapevolezza della necessità del rispetto delle norme internazionali e dei codici di comportamento sull’uso della forza; la richiesta di inserire sulle divise codici alfanumerici, già in uso in molti stati europei, che garantiscano ad eventuali indagini della magistratura di poter identificare chi si comporta in modo non conforme alle regole; l’istituzione di un organismo indipendente per il monitoraggio dei Diritti Umani in Italia; ed infine la richiesta di risolvere uno degli aspetti normativi più imbarazzanti per il nostro Paese: l’introduzione nel nostro codice penale del reato di tortura, affinché i responsabili di violenze come quelle commesse a Bolzaneto nel 2001 siano soggetti a pene congrue e non restino impuniti grazie alla prescrizione del reato.
Un esempio di colpevole mancanza di attenzione dei media è il silenzio sotto il quale è passata la pubblicazione del libro “L’eclissi della democrazia”, edito da Feltrinelli nel 2011, nel quale Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci raccontano quanto è successo attraverso gli atti processuali ricostruiti con l’aiuto di Enrico Zucca, P.M. del processo Diaz. Il libro riporta accuse precise che nessuno si è preoccupato di smentire, non solo perché vere, ma anche perché cadute nel disinteresse generale dei media. Basti pensare che alla conferenza stampa promossa dalla casa editrice non si è presentato nessun giornalista italiano e nessuna testata giornalistica nazionale.
Un altro spunto significativo sul comportamento di tv e giornali riguardo a come vengono riportati dai media italiani i fatti che avvengono nel nostro Paese, ci viene dato da un rapporto del 2008 dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Navi Pillay, e dal Rapporto 2010 dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza: in entrambi i documenti si evidenzia come gli organi di stampa e soprattutto le tv tendano a concentrare l’attenzione su fatti di cronaca criminale (e spesso di piccola criminalità), esprimendo una preoccupante tendenza ad alimentare ansia ed insicurezza che appaiono causate da fattori “esterni”.
Le cronache di giornali e telegiornali ci parlano spesso dei furti compiuti da uomini “con accento dell’est” o delle violenze compiute per strada da “marocchini”, lasciando in secondo piano o trascurando del tutto le tematiche relative ai diritti degli individui e alle violazioni compiute dalle istituzioni e dalle forze dell’ordine.
Di recente, alcuni film hanno però contribuito a riportare l’attenzione dell’opinione pubblica e della stampa sui fatti accaduti a Genova nel luglio 2001: tra questi vanno ricordati “Diaz – Don’t Clean Up This Blood” di Daniele Vicari, dove la ricostruzione di quanto accaduto appare però in parte discutibile ed incompleta, e “A.C.A.B.” di Stefano Sollima, che affronta la militarizzazione della polizia, l’omertà ed il presunto senso dell’onore che prevale sul senso di giustizia e di legalità. Decisamente più attento alla realtà delle vittime e dei fatti è invece “Black Block” di Carlo Bachschmidt, film-documentario, purtroppo meno sponsorizzato dai media e meno seguito dal grande pubblico.
Ma Genova resta un buco nero, un tunnel che sembra aver inghiottito tutte le altre violenze compiute dalle forze dell’ordine negli anni successivi ed anche in quelli più recenti. La violenza immotivata con la quale funzionari dello stato hanno ucciso Aldo Bianzino, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Gabriele Sandri, Stefano Cucchi, Michele Ferrulli e tante altre vittime meno conosciute forse non avrebbe avuto luogo se la reazione di tutti noi fosse stata più forte, se l’attenzione della stampa fosse stata più continua, se le nostre istituzioni avessero preso provvedimenti, promulgato leggi, promosso la cultura dei diritti.
O anche se qualcuno nelle istituzioni avesse almeno una volta, anche una sola volta, chiesto scusa alle vittime: alle vittime di Genova, così come ai familiari di tutte le persone uccise per strada e nelle carceri dalle forze dell’ordine.
Perciò i cosiddetti “fatti di Genova” non sono finiti dodici anni fa, né con la conclusione dei processi, né con le commemorazioni del decennale, né con il ritorno delle vittime alla normalità, per chi ne ha avuto la possibilità. La violenza di Genova continua e quanto accaduto nel 2001 potrebbe succedere nuovamente se non riusciamo a portare l’attenzione nostra e dei media sui diritti di tutti, sul rispetto della libertà di manifestare e di esprimere la propria opinione, sulla necessità di mantenere alta la coscienza che non può essere mai giustificata alcuna violenza da parte delle forze dell’ordine su cittadini inermi.
Questo lungo e assordante silenzio dei media rischia di generare mostri di indifferenza e di incoscienza: perciò è importante non dimenticare, continuare a parlare, a scrivere e a leggere di quanto è successo a Genova nel luglio del 2001. E di quanto continua a succedere nei luoghi di detenzione, ai posti di blocco, nelle strade e negli stadi italiani.
Ogni violenza compiuta dalle istituzioni è un’offesa alla democrazia, alla libertà ed alla giustizia per la quale siamo tutti responsabili. Forse anche per questo, ripensando a Genova, mi torna in mente un vecchio verso di un cantante genovese, che parlava di fatti ancor più lontani ma che resta così vicino ed attuale: “...anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti”. (La responsabilità per le opinioni e le informazioni presenti in questo articolo è da attribuirsi esclusivamente all'autore.) Andrea Matricardi è nato a Milano nel 1962. Architetto libero professionista, dal 1996 è attivista di Amnesty International ed è stato per cinque anni membro del Comitato Direttivo della Sezione Italiana, dove ha ricoperto anche la carica di Vice Presidente nazionale. Da diversi anni si occupa di comunicazione con particolare attenzione alle tematiche delle violazioni dei Diritti Umani in Italia ed alla recente campagna “Operazione trasparenza” rivolta alle istituzioni ed alle forze dell’ordine del nostro paese.
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