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Sagarana JACOPO


Brano tratto dal romanzo Crisalide


Amalia Estremi


JACOPO



 

Quando avevo una vita sociale, passavamo le serate ad allenarci al lamento di gruppo, che praticavamo a livello agonistico. Ci eravamo tutti già laureati, specializzati, masterizzati e la disillusione era massima, serpeggiava il più fondato malcontento. Le energie migliori andavano così sprecate. Infiniti sproloqui si arrampicavano attorno al concetto maldestro di sfortuna mondiale: l’esser capitati giusto in questa fase storica di regressione. Ora come allora: ci si piange addosso da annegarsi. Ricordo le notti trascorse a elencare i fallimenti di ciascuno, con filologico sadismo. Ci raccontavamo la coerenza di certi ripieghi esistenziali, inevitabili. Qualcuno timidamente ipotizzava nobili rinunce ai compromessi, esibendo una resistenza morale a dir poco patetica. Si deplorava con
sdegno l’asservimento generalizzato. Al crollo definitivo del sistema! Questo il nostro brindisi,con quelle birre da discount. Ma avevamofame e forse avremmo ritrattato in cambio di
pagnotte.
Abito con mio fratello Ivo nella periferia cementificata. La sua sveglia suona alle sei e mezza,
tutti i giorni. Lavora con un contratto a tempo determinato presso la filiale ovest di qualcosa. Credo maneggi denari, a un’ora e mezza da qui. Ha un capo esigente e colleghi incravattati. Non lo invidio, forse neppure lo stimo. Cavalca l’onda immaginaria del business, la
cui cresta è invece composta da liquami veri. Ci ignoriamo per lo più, alla casa bado io, una spesa minima è assicurata dai suoi buoni pasto.
Vivo così in solitudine, posso fare quello che voglio tutto il giorno, senza controllo: e giro su me stesso con slancio. Ma la libertà assoluta diventa la peggiore schiavitù: così dai vortici dell’egocentrismo crollo al suolo frastornato. Sono sconfitto dalle circostanze. Perpetro rituali di adattamento, cerco di avere abitudini precise, codificate. Se ho paura chiudo gli occhi e immagino l’oscillare cadenzato di questa cellula spazio-tempo in cui sono rinchiuso, così puntualmente mi autoipnotizzo.
Avevo pure trovato un lavoro, dopo aver distribuito un umilissimo biglietto in tutti i bar e i ristoranti del centro. Sopra: nome e numero di cellulare. Ho tralasciato i titoli accademici e la solita retorica del tipo “ottima predisposizione al lavoro di gruppo” oppure “elevata flessibilità, entusiasmo e dinamismo”. Ho trovato un lavoro. A nero. Mi sono licenziato dopo una
settimana. Mi è bastata per capire quanto la razza umana meriti questa imminente estinzione. Eppure sono stato davvero professionale in quel postaccio smorfioso di fashion food. Ma mi trattavano come se fossi uno scarto umano.
Quando mi hanno chiamato per ingaggiarmi ero stato perfino felice. Mi sono sentito leggiadro: proprio come quell’elefante che si dondolava sopra il filo di una ragnatela. Il patto era cinquanta euro la serata: nove ore. Lo faccio solo per soldi, ho detto a mio fratello. Di certo non per la gloria, ha replicato quel veggente: una settimana e te ne fuggirai, pentito, deluso e abbrutito.
L’ennesima perdita di tempo. Per l’integrità alla quale aspiro questo scivolone nel mondo
del lavoro è un qualcosa di imperdonabile: mi sono lasciato sfruttare, un padrone ha insultato
la mia intelligenza. La terza sera non sono stato pagato. Era un sabato e si aspettavano grandi guadagni, ma la crisi impone austerità: qualcuno ha rinunciato al fashion food. Immerso
in pensieri gravi, per tutta la sera ho covato rabbia e brama di vendetta per le ingiustizie
sociali. Ho pensato: quanto stiamo regredendo in umanità a quel tavolo da cui ho riportato indietro i piatti mezzi pieni? Si conversava allegramente di status symbol e di turismo sessuale.
Lo sforzo dei poeti è reso vano. I pittori possono suicidarsi. La bellezza è moribonda.
Io stesso sono a rischio contagio, in pericolo di vita: in questo ambiente promiscuo ho perso di
vista il senso, e dentro di me, attimo dopo attimo, lascio assopire la metafora. La crisalide si
secca, si stacca, non sa gestire le infiltrazioni di cinismo. Se muore, nessuno saprà di lei.






Brano tratto dal romanzo Crisalide, edizioni Compagine, Torino 2011.




Amalia Estremi
Amalia Estremi è Alessia Apicella. Nasce nel 1981 in Costiera Amalfitana e si laurea a Napoli in Filosofia. Vive a Torino, dove collabora come mediaeducatrice al Museo Nazionale del Cinema.




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