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Sagarana L’ORECCHIO DELLA MENTE


Marco Candida


L’ORECCHIO DELLA MENTE



 

L’orologio. Una mattina a trentadue anni ti sei svegliato e ti sei semplicemente reso conto che non lo sentivi più. Stava lì sul comodino proprio accanto alla lampada. Le lancette segnavano le quattro e trentasette minuti – è un particolare che non dimentichi, anche se non ricordi più il giorno, ricordi solo che sono passati quattro anni e che fino a quel momento non avevi ancora attaccato coi sonniferi. Dell’orologio potevi vedere la lancetta dei minuti e quella delle ore brillare anche con le tapparelle abbassate a coprire quel poco di luce dei lampioni che di notte veniva dalla strada. Solo che non sentivi scorrere la lancetta dei secondi. Quel tac-tac-tac, non lo sentivi più.
Quella sveglia da quattro soldi ti ha sempre dato fastidio – almeno fino a quando sei stato in grado di sentir scorrere le lancette dei secondi, ma ha seguitato a farlo anche, per ragioni completamente diverse, quando hai preso a non sentirle più. Ti è stata regalata da tua madre intorno ai vent’anni. Andavi ancora all’università. A ripensarci adesso, però, ricordi bene che quel ninnolo non è stato un regalo. Un regalo è quello che si impacchetta e che si consegna in mano a chi deve riceverlo, magari con un bigliettino d’auguri e un sorriso. Invece quell’orologio tua madre te lo ha fatto trovare in camera sulla mensola sopra la scrivania dove stavano aperti i libri di diritto senza dirti nemmeno una parola.
Inizialmente avevi pensato che si trattasse soltanto di un regalo per consolarti. Non avevi passato un solo esame nel primo trimestre alla Facoltà di Giurisprudenza di Pavia. La delusione era stata grande. Avevi studiato. Ti eri impegnato. I risultati, però, erano stati disastrosi. Il fatto è che mentre cercavi di studiare e di concentrarti sui libri di diritto, sempre più spesso ti coglieva una sonnolenza che non riuscivi a vincere. Forse muovere gli occhi da sinistra a destra e da destra a sinistra sulle pagine di diritto privato o costituzionale o di economia politica ti faceva un effetto ipnotico. Ad ogni modo spesso interrompevi lo studio, ti sdraiavi e ti mettevi a dormire. A volte anche per tre, quattro ore. È comportandoti in questo modo, tra l’altro, che ti sei fabbricato un tuo motto personale: se dormi a vent’anni, a trenta non dormirai più. Se pensi ai sonniferi che prendi ancora oggi che sono passati circa sedici anni, ti viene proprio voglia di incidere questa massima su una tavoletta di pietra e regalarla a ogni ventenne – un regalo vero, impacchettato, infiocchettato, con un bigliettino e un sorriso. Comunque, nonostante i tuoi sforzi (o quelli che a vent’anni consideravi tali) in sede d’esame ai docenti non eri riuscito a strappare nemmeno un diciotto. Era stato un fallimento completo. Sicché un paio di settimane più tardi eccoti in camera l’orologio.
Era un orologio di plastica. Esternamente nero. Internamente bianco. Le lancette avevano una strisciolina che col buio s’illuminava verde. E faceva il suo tac-tac-tac. Un po’ confuso per aver ricevuto proprio quel regalo (sapevi di non meritare regali; al massimo poteva essere solo un modo per consolarti) hai ringraziato mamma. Prego, caro. Ma figurati. Poi però circa un paio di settimane più tardi, lo hai messo via. Prima lo hai spostato nella stanza degli ospiti. Poi quando hai visto che qualcuno lo aveva rimesso a suo posto, lo hai ficcato nell’ultimo cassetto del cassettone nella tua stanza. L’orologio, però, è presto ricomparso. Lo hai trovato sulla mensola sopra i libri di diritto. A quel punto hai capito che quello non era un regalo. Era qualcosa di molto diverso. Probabilmente tua madre si era accorta che l’orologio era sparito, era andato a cercarlo e una volta trovato (tua madre in casa sua potrebbe trovare qualsiasi cosa, è come dotata di onniscienza per tutto ciò che concerne le mura domestiche) lo ha rimesso a suo posto. Tu hai accettato la situazione e lo hai lasciato lì. Hai cercato di non badarci, anche se ti metteva disagio. Ti distoglieva l’attenzione. Dopo un anno e un paio di esami dati, tua madre (si chiama Renata ma ha sempre preferito farsi chiamare col secondo nome che è Maria, ha fatto per una vita l’impiegata in un’officina meccanica, si è sposata con Ettore Bruno Banconi, e questo certamente l’ha sempre caratterizzata come persona d’ambizione e coraggio, ed è madre di due figli maschi, cosa che nel tempo l’ha costretta a diventare ambiziosa e coraggiosa, e che l’ha indurita) ti ha fatto trovare un altro orologio più o meno dello stesso tipo nella sala della televisione. Sedevi sul sofà accanto al termosifone a circa quattro metri dal televisore – che all’epoca non era ancora il plasma enorme che sarebbe arrivato attorno ai ventisette anni; lo aveva  preteso tuo padre, avevi già lasciato l’università da tre anni, da due e mezzo ti eri buttato nel mondo dei libri – ed eppure potevi sentirlo. Potevi sentirlo anche quando guardavi un film d’avventura o un film con laser e dischi volanti o mostri urlanti o una pellicola fatta quasi esclusivamente di bombe e carri armati. Se ti cadeva l’occhio sulle lancette, quel tac-tac-tac lo potevi sentire sempre. A ventidue anni hai fatto servizio civile. A ventitré hai smesso con l’università. A ventiquattro hai trovato un lavoro. E, in questi tre anni, la cosa più importante ti è successa a ventidue durante il servizio civile. Avevi un computer a tua disposizione ed è stato in questa occasione che hai scoperto Internet. E una volta scoperte le possibilità offerte da Internet hai rispolverato una passione che tra i diciotto e i ventuno anni (ossia all’inizio della tua carriera universitaria) avevi cercato di seppellire – vale a dire la passione   per   la   scrittura.   Sì, Internet  offriva di sicuro abbondanza   di possibilità. Nella cittadina di provincia dove hai abitato fino a ventinove anni circa (Tortona, tra Alessandria, Voghera, Novi Ligure, trentamila abitanti, nel corso degli Anni 90 prima che aprissero il Centro Commerciale nessun cinema, sede della Diocesi, pochi bar spesso semivuoti, strade grosso modo deserte dalle sette e mezzo di sera in avanti, poche associazioni culturali, poche associazioni in genere, nessun concerto, persino i centri aggregazione nel Duemila erano stati chiusi, venivano considerati un covo di tossici) non ci sono mai state molte possibilità di realizzare sogni che non fossero avere un lavoro sicuro, comperarsi una casa, avere una famiglia – e questo almeno fino all’insorgere della crisi economica nel 2008 che ha reso difficile anche la realizzazione di questi sogni. Avresti voluto farlo anche tu.
Avere una vita ordinaria. Solo che ti eri impantanato subito all’università e là fuori per diplomati al Liceo Classico lavori sembravano proprio non esserci.
Così eri andato a caccia di qualche opportunità su Internet, anche quando a ventiquattro anni sei riuscito a trovare un lavoro a tempo determinato. Quando hai firmato il contratto di lavoro e hai speso i soldi per acquistarti la prima automobile, gli orologi di mamma sono scomparsi. Per ricomparire due anni più tardi dopo che non ti hanno passato il contratto da tempo determinato a tempo indeterminato nella ditta dove avevi miracolosamente trovato posto.
Eri di nuovo nel tunnel. Ti ci aveva ficcato proprio Internet. Navigavi troppo durante le ore di lavoro e nella ditta dove lavoravi ti avevano dato il benservito. Un paio di giorni dopo aver perso il lavoro gli orologi sono ricomparsi sia in sala dal televisore che nella tua stanza – anche se non glielo hai visto fare, probabilmente doveva averceli messi tua madre – e non sono più andati via da dove si trovano, ancora oggi. Non solo, ma quando hai preso in affitto l’appartamento a Milano con l’intenzione di abbandonare la tua cittadina di provincia (balzachiana, soffocante, chiusa, retriva; eccetera: c’era un sacco di letteratura che poteva soccorrerti e non farti sentire il solo imbecille al mondo – è il bello della letteratura: fin tanto che credi alle capacità della letteratura di curare e di  redimere, c’è una storia per ogni esperienza, la possibilità di immedesimarsi in un personaggio preesistente, avere modelli comportamentali da seguire, persino se stai steso sul letto a dormire c’è un Oblomov pronto a darti dignità, persino se non hai abbastanza capacità cognitive da scrivere in modo consequenziale e minimamente razionale c’è un Kafka a consolarti, persino se vai nella giungla, in Perù, in Bolivia, su una galassia, per ogni tipo di patologia, sta pur certo che c’è sempre un libro che può tornarti utile e darti dignità e se non c’è, ancora meglio: sei tu che lo stai scrivendo, quel libro, sei tu che stai dando voce a un tratto dell’animo umano ancora sottaciuto) l’orologio lo hai portato con te. Lo hai fatto perché, anche se lo odiavi, sentivi ancora di meritartelo – esserti imbarcato nell’avventura di Milano (aprire una casa editrice, diventare un editore; e “avventura” è solo un termine occasionale per definire una decisione che non riuscivi proprio a definire in una parola soltanto non significava certo non meritarselo più. Così a trentadue anni hai preso la sveglia nella tua stanza e l’hai messa nella stanza dell’appartamento a Milano. Sul comodino. Accanto alla lampada. E dopo qualche mese hai cominciato a non sentire più il suo ticchettio.
La prima volta che è successo ti sei detto che evidentemente avresti dovuto cambiare le batterie all’orologio. Tra l’altro avevi già notato che ultimamente la sveglia di mamma camminava di poco in ritardo – le lancette erano cinque, sette minuti indietro. Ti sei ricordato di comprare le batterie, le hai cambiate, ma il giorno successivo niente. Ancora non sentivi nessun ticchettio. Almeno non quando ti svegliavi al mattino con la testa sul cuscino. Già da quella distanza – circa un metro e mezzo, al massimo due – non sentivi niente. Per sentire qualcosa dovevi avvicinarti a un palmo dalla sveglia. Ti dovevi concentrare bene. Guardare la lancette dei secondi muoversi e allora, tac-tac- tac, ecco che la sentivi. Una sera hai anche valutato se portare l’orologio di mamma da un orologiaio, ma subito ti sei vergognato. Era un pezzo di plastica troppo volgare. Alla fine lo hai portato in un centro commerciale nel reparto più o meno specializzato e l’addetto in camice bianco ti ha comunicato in toni molto seri quello che avevi pensato fin dal principio anche tu e cioè che sembrava non ci fosse nulla di guasto. Girando tra gli scaffali di quel reparto hai trovato un ammennicolo grosso modo simile a quello di mamma. Era di plastica anche quello. Variava solo il colore. Rosso anziché nero. Lo hai allora acquistato. Lo hai messo sul tuo comodino al posto dell’altro ma… anche così niente da fare. Non sentivi lo stesso nessun ticchettio – almeno di non portarti la sveglia a una spanna dal naso. Niente tac-tac-tac. Pertanto hai gettato via la sveglia nuova e hai rimesso a suo posto quella vecchia.
Un paio di settimane più tardi trovando un buco tra una riunione di comitato editoriale e l’altra, incontri con gli autori, fiere, convegni per il tuo lavoro di editore (o quantomeno quello che stavi cercando di far diventare un lavoro – specialmente alla voce entrate), sei arrivato anche a prendere appuntamento da un medico per le orecchie. Servendosi di una specie di tenaglia il medico (un tipo che si aggirava sulla quarantina, ma senza capelli, e tutto ingrassato – nel senso che non aveva l’aspetto di un tipo “grasso” ma che si era “ingrassato” perché non faceva esercizi e ogni giorno si concedeva primo, secondo e magari anche un dolcino sia a pranzo che a cena) ti ha estratto dalle orecchie un grumo di cerume giallastro. Però va detto che il medico non ti ha trovato nelle orecchie tappi o altri problemi particolarmente preoccupanti. Insomma, le tue orecchie, all’esame del dottore, erano apparse più o meno a posto. In effetti hai smesso presto (grosso modo intorno ai diciannove anni) di frequentare discoteche e a parte una parentesi di circa sei mesi appena terminato il Liceo con un gruppuscolo musicale piuttosto rumoroso (suonavate rock, punk e grunge) non hai mai stressato più che tanto i tuoi padiglioni auricolari. Negli anni che sono saltati fuori gli I-Pod, ne hai acquistato uno ma lo hai utilizzato per uno o due mesi soltanto in modo intensivo: dopodiché l’hai abbandonato nel primo cassetto della cassettiera nella tua stanza e te ne sei quasi dimenticato – lo hai tirato fuori dal cassetto solo di quando in quando, ma lo hai caricato di file audiolibri, questo ti è subito parso un uso interessante, di sicuro però niente più musiche rumorose, solo voci sussurranti accompagnate al massimo da qualche sviolinatura in sottofondo. Ciononostante qualcosa del     tuo udito, evidentemente, arrivato intorno ai trentadue anni, era andato perso. Non poteva essere altrimenti. La faccenda dell’orologio stava a dimostrarlo.
“Ma insomma, se devo dire la verità, di solito racconto questa storia perché secondo me nasconde dentro un significato particolare – hai detto a Lucetta quando gliel’hai raccontata la prima volta che vi siete conosciuti – In fondo penso che non siano stati i problemi alle orecchie a non farmi più sentire il ticchettio dell’orologio. Come ti ho detto le mie orecchie erano a posto. Solo che avevo smesso di sentire l’orologio con l’orecchio della mente. È soltanto successo che arrivato a trentadue anni dopo aver provato a studiare e non esserci riuscito e dopo aver cercato di tenermi un lavoro ordinario in un ufficio e non esserci riuscito, ora che mi mettevo a fare l’editore (e, per chi non se lo può permettere, questo è quasi un gesto suicida volontario) dando fondo a un bel po’ di risparmi accumulati nel corso degli anni, non ho soltanto smesso di sentire il ticchettio dell’orologio, no, non era solo quello, ma piuttosto avevo smesso di sentire lo scorrere del tempo. Insomma, io al tempo non ci badavo più. Ero libero. Non lo sentivo più bruciarmi addosso. Potevo finalmente agire. Muovermi. Non avere paura. Il tempo passava e io non ci pensavo. Aveva smesso di torturarmi. L’orecchio della mente non riconosceva più quel suono.
Ecco – hai detto quella prima sera a Lucetta – Questo è il significato vero di questa storia”




Marco Candida
Marco Candida è autore di cinque romanzi e una raccolta di racconti. Nel 2011 è stato incluso nell'antologia americana Best European Fiction. Nel 2013 uscirà il suo settimo romanzo e uscirà l'edizione inglese dei suo secondo romanzo.




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