IL BOSCO INCANTATO Brano tratto dal romanzo Album di Famiglia Anna Maltese
II
(..) La mattina dopo la gita alle Gaggie, Mina fu risvegliata dai consueti rumori di sottofondo. Cia-plùn, cia-plùn faceva il secchio nel pozzo; trr-ràc, trr-ràc faceva il rastrello di Tunin sulla ghiaia del giardino; hàuf, hàuf, hàuf faceva Lillì inseguendo il postino. A Mina piaceva impigrire sotto le coltri finché non arrivava Erminia con la colazione. La udiva da lontano mentre percorreva il lungo corridoio: tín-titín, tín-titín facevano posate e piattini sul vassoio.
Erminia entrò e posò il vassoio sul letto. Poi, aprì le imposte della finestra che dava sul giardino lasciando entrare l’intenso profumo del glicine; da quella parte la stanza era al primo piano, collegata con le attività della vita domestica. Erminia aprì la finestra dalla parte opposta. Da quel lato c’era un dislivello di dieci metri sul sottostante Viale delle Rose, e poi la folta macchia del bosco che racchiudeva il fascino misterioso della natura incolta. Il bosco scendeva lungo il pendio fino a valle dove si interrompeva sulla linea dei campi e dei prati. Di là, giungevano a Mina i suoni delle mucche al pascolo: dl-lòn, dl-lòn, dl-lòn facevano i campanacci. Dal bosco venivano solo richiami d’uccelli, il monotono cù-cù della civetta di notte e, al mattino, una frenetica cacofonia di cento voci indipendenti, ognuna con il suo tono e il suo ritmo.
«Ha dormito bene, signorina Mina?» chiese Erminia.
Mina assentì con il capo, non potendo parlare perché aveva appena addentato un gran boccone di pane e miele e aveva la bocca piena.
«Piano, mastichi bene che se no le va di traverso,» Erminia le riempì la tazza di caffelatte. «Ecco, beva un sorso che così va giù meglio.»
Il pane rustico era una delle tante delizie che rendevano la vita a Cortalba estremamente piacevole. Mina ne era ghiotta e lo preferiva a qualsiasi manicaretto. Le grosse micche arrivavano la mattina dal forno, calde e fragranti. Le portava magna Delina nella sua cavagna coperta da un telo bianco. Magna Delina aveva sposato lo zio di Erminia, barba Bastiàn il fornaio. Lei era più giovane del marito e andava in giro a fare le consegne. Lui stava sempre in bottega, vicino al suo antro di fuoco, infornando e sfornando micche e grissini con una lunga pala di legno. Ogni tanto, quando Mina e Gio erano piccoli, Erminia otteneva da Ada il permesso di portarli al forno. La visita alla bottega di “Mangiafuoco” era per i bambini un’avventura emozionante. Barba Bastiàn incuteva loro una certa paura, come un orco delle fiabe. Era un gigante con la testa pelata e lucida come una boccia. In contrasto, aveva dei folti baffoni che gli coprivano la bocca e non lasciavano vedere se per caso sorridesse; quindi, sembrava che avesse sempre un’aria truce. Ma la cosa che più affascinava Mina e Gio in quella faccia era un occhio di vetro che non si chiudeva mai e che rifletteva le fiamme danzanti della fornace. Barba Bastiàn aveva perso l’occhio in guerra, quand’era con gli alpini, e la Patria gli aveva regalato quella mirabile biglia colorata. Solo che, la Patria aveva fatto un piccolo errore e gli aveva mandato una biglia del colore sbagliato. Così, barba Bastiàn aveva un occhio nero e un occhio blu. Mina e Gio si stringevano alla sottana di Erminia, senza parlare, seguendo ogni mossa di quel fantastico personaggio. Barba Bastiàn rimaneva assorto nel suo lavoro, senza mostrare di aver notato la loro presenza. Ma quando era ora di andare, prendeva un cartoccio di biscotti e lo porgeva ad Erminia, «Për le masnà,» diceva, e poi con la sua pala ritornava verso il forno.
Erminia aveva finito di servire la colazione:
«Se non ha più bisogno di me, signorina, io torno di sotto. Oggi c’è tanto lavoro. Aspettiamo la signora Magda.»
«Va pure, Erminia. Non mi serve niente,» rispose Mina congedandola.
Mina aveva bisogno del suo spazio e spesso la presenza di altri la infastidiva. Fino a pochi anni prima aveva condiviso la stanza con Gio. Ma all’età di dodici anni, Gio fu trasferito in una stanzetta al pianterreno per lasciare a Mina la sua privacy—e anche perché a quell’età non stava più bene che fratello e sorella dormissero insieme.
Prima, però, per Mina era un conforto avere Gio nel letto vicino. I rumori della notte mettevano paura. Da fuori arrivavano i latrati dei cani che venivano slegati e si lanciavano in una scorribanda selvaggia. Titì e Totò, così docili con i bambini che portavano loro qualche tozzo di pane durante il giorno, quando erano alla catena, col calar del sole si tramutavano in feroci guardiani, e lanciavano raccapriccianti versi ferini. All’interno, il castello era pieno di mistero e presenze arcane, e i rumori della notte mettevano paura. Si udivano chiavi girare in serrature arrugginite, cigolii di porte che si aprivano, scricchiolii, rumori sordi che rimbombavano nei sotterranei, passi claudicanti di pesanti stivali sul pavimento delle soffitte, passetti leggeri nella stanza stessa, come di un’anima vagante che non trova riposo—si sapeva che questa era la marchesina suicida. Spesso, Mina non riusciva a dormire e chiamava il fratello:
«Gio, hai sentito i passi? C’è il fantasma in camera nostra.»
«Sì, li ho sentiti; ma potrebbe essere un topo. Metti la testa sotto il lenzuolo e non ci pensare.»
Poi, al mattino tutti gli incubi si dissipavano, cacciati dalla gioiosa realtà del giorno. Mina e Gio sostavano qualche minuto davanti alla finestra spalancata sul bosco, mentre Erminia disponeva la colazione sul tavolo. Cercavano con gli occhi il loro albero, un albero diverso dagli altri, con grosse radici affioranti e rami bassi che permettevano di arrampicarsi con facilità. Se lo indicavano a vicenda—«L’ho visto prima io.» «No, l’ho visto prima io.» L’albero era molto alto e aveva una chioma particolare per via dei rami che alla sommità si ripiegavano su sé stessi. Spiccava come uno zampillo di fontana su quel tappeto di fronde osservato dall’alto. Anche il colore era strano, sembrava blu invece che verde. Nessuno ne conosceva il nome, cosicché i bambini decisero che era un “sesamo,” parola che foneticamente evocava elementi vegetali e che aveva anche connotazioni magiche.
Nel periodo dagli otto ai dodici anni, Mina e Gio s’inoltravano ogni giorno nel folto del bosco e si arrampicavano sul “sesamo.” Raggiungevano una specie di piattaforma larga e piatta alla confluenza di due rami… Ecco che Gio si dondola da una corda che pende da un ramo più alto:
«… e poi Tarzan torna a casa appeso alla liana con il cofanetto del tesoro che ha trovato nel tempio abbandonato, e Jane è lì ad aspettarlo…»
«No, Jane non c’è più. È scappata con Sandokan. Si è stufata di stare sempre su quest’albero ad aspettare.»
«Ma così non si può. Sandokan appartiene ad un altro libro.»
«E io li voglio mettere insieme. Mentre Tarzan è andato a giocare con le sue scimmie, arriva Sandokan con i Tigrotti della Malesia che si erano sperduti in questa giungla estranea, e si ferma sotto l’albero di Jane per chiedere un bicchier d’acqua. E poi vedendola così bella le chiede se voleva seguirlo e lei dice di sì. E i Tigrotti fanno: Hurrà!»
«Questa storia non sta in piedi. Sandokan è un guerriero e non può portarsi dietro una donna.»
«Ma la storia non è finita. Sandokan insegna a Jane come si usa la spada e lei, quando ha imparato, si prende un cavallo e se ne va in giro per il mondo da sola. E un giorno si veste come Zorro, un giorno come Robin Hood, e un giorno come il Corsaro Rosso, e si diverte da matti perché vince tutte le battaglie.»
«Con te non si può giocare. Tu non rispetti le regole.»
«E tu non ti sai adattare ai cambiamenti. Sei un gnocco.»
III
Dopo che Erminia fu uscita, Mina finì la colazione con comodo. Si stirò sbadigliando e diede un’occhiata al bosco al di là della finestra. La macchia sembrava un continente sulla carta geografica, con avvallamenti e rilievi a seconda delle sfumature di colore. Il “sesamo” era adesso invisibile. Gli occhi adulti non lo distinguevano più. Ma il bosco aveva mantenuto il suo fascino ambivalente, di luogo selvaggio d’avventura e pericolo.
Mina s’insaponò viso e orecchie, si diede una ravviata alla pesante capigliatura castano-dorata e fu pronta a scendere. Ella non dedicava alcuna attenzione all’ estetica della persona. Non ne aveva bisogno. Accettava la sua bellezza come un dato di fatto che non richiedeva né cure, né artifici. Quando io ero già grandicella, m’incuriosiva oltremodo il fatto che mia madre, unica tra le donne che conoscevo, non portasse reggiseno e tacchi alti. La interrogai più volte per conoscerne la ragione, e la risposta era sempre la stessa, «Mi danno fastidio.» A quei tempi non si parlava ancora di femminismo; d’altronde mia madre non fece mai un gesto politico, il suo era semplicemente un rifiuto di strumenti costrittivi e inutili.
Certo, il reggiseno sarebbe stato superfluo. I seni di Mina erano fermi e rotondi come nelle sculture classiche di ninfe e ondine.
Quanto ai tacchi alti, superflui anche quelli. Mina aveva una buona statura e gambe lunghe e ben tornite. Anzi, bisogna sottolineare che erano gambe eccezionali, che facevano invaghire gli uomini e ingelosire le donne. Lucilla mi confessò quando era già anziana, parlando di quelle estati lontane, che certi attributi di Mina la riempivano d’invidia:
«Camminava con negligente disinvoltura, con una naturale eleganza, su quelle belle gambe lisce e abbronzate. Aveva gambe lunghe, ma non come le zampe di ragno di queste supermodelle che oggi sgambettano in televisione. Le sue erano vere gambe di donna, come quelle di Marlene Dietrich, ma ancora più belle. Un disegno che poteva scaturire solo dalla mente di Dio, direttamente, senza interferenze di DNA.»
Tutto ciò si può anche dedurre dalle foto di quegli anni. Una di queste ritrae Ada in mezzo ai due figli. È una foto spontanea, non posata come la maggior parte della raccolta. Si può immaginare che il fotografo, trovandosi lì per caso, abbia detto, «Mettetevi davanti a quel cespuglio. Tu, Mina, a destra della mamma. Gio, a sinistra. Ecco, fermi, così!… State proprio bene.» Ada ha l’aria di una signora di mezz’età, anche se aveva solo quarant’anni o poco più. I capelli sono striati di grigio e raccolti sulla nuca, il vestito è elegante ma sobrio. Mina ha una camicetta attillata e una gonna leggermente svasata che le arriva appena sotto il ginocchio. Un lembo della camicetta le scappa fuori dalla cintura. La sua posa è aggraziata. Abbraccia Ada alla vita e inclina il capo verso la sua spalla come se cercasse sostegno e affetto. Per tutta la sua professata indipendenza, Mina contava molto sul fatto che la madre fosse sempre pronta a consolare le sue pene, risolvere i suoi problemi e provvedere alle sue necessità. Gio ha un atteggiamento più distaccato; non ha contatto con la madre e tiene lo sguardo rivolto all’esterno del quadro. Indossa indumenti sportivi, pantaloni di flanella bianca con ampie pieghe che scendono sulle scarpe da tennis e una camicia dal collo aperto a lunghe punte. È un bel giovane, con capelli d’ebano e occhi neri come Ada. Mina invece è più chiara.
I colori di Mina non si possono valutare da una fotografia in bianco e nero e bisogna descriverli a parte. I capelli, folti e lisci, erano di un bel castano con riflessi d’oro, e gli stessi riflessi accendevano pagliuzze dorate negli occhi color nocciola, animando di una luce viva e penetrante la dolcezza dello sguardo. Fin da quando era piccola, Riccardo soleva commentare, «Con quegli occhi maliardi farà girare la testa a molti uomini.» Quest’armoniosa palette era completata dal tono della pelle, petali di rosatea con sfumature di carnicino, tesa e lucente sui tratti scultorei del viso—un’ampia fronte, arcate sopraccigliari decise e ben disegnate, alti zigomi, naso forte e un largo sorriso che scopriva fino all’ultimo dente in fondo a una chiostra lucida e regolare.
Mina uscì nel Giardino del Salve. C’era Riccardo che leggeva il giornale sotto il tiglio. La gotta gli si era aggravata e nell’inverno avevano dovuto amputargli due dita del piede destro che erano andate in cancrena. Adesso passava la maggior parte del tempo seduto con il piede appoggiato su un cuscino. Come vide Mina, la chiamò:
«Minabella, vieni vieni. Siediti un po’ qui con me. Peccato che come cavaliere non sono più un gran che. Quando la mamma aveva la tua età ci facevamo delle combattutissime partite a tennis, ma adesso ti posso offrire tutt’al più una partita a bridge… Ohi, ohi… Mina, per favore, aggiustami il cuscino sotto il piede. Mettilo un po’ più alto. Così, grazie.»
«Non c’è di che. Stamattina non ho niente da fare e quindi posso tenerti compagnia. Cercavo Gio… Non l’hai visto, per caso?»
«Un’ora fà è passato di qui con reticella e gabbiette per gli insetti. Ha detto che scendeva al prato.» Riccardo riprese il giornale che aveva posato sul tavolo, «Ecco, prendi una pagina anche tu, quella dei cruciverba. È certo la pagina più interessante di tutto il giornale.»
«Ma che notizie ci sono in prima pagina?»
«Notizie ottime, naturalmente. Ogni giorno leggiamo le stesse cose. Un’altra centrale idroelettrica è stata inaugurata… Un nuovo tratto di autostrada sarà completato in anticipo sui tempi previsti… Quest’anno la produzione di grano supererà le più rosee previsioni—non poteva essere altrimenti dopo che il Duce stesso si fece fotografare a torso nudo sulla trebbiatrice. La verità è, cara Mina, che tutto ciò è solo fumo negli occhi. Nonostante queste opere grandiose, l’economia è in uno stato deplorevole e il paese sta diventando sempre più povero. Purtroppo, mi addolora riconoscere che anche il re è in parte responsabile per questo stato di cose. Io sono stato sempre fedele alla monarchia, e lo sono ancora, ma il re è stato troppo debole. Non avrebbe dovuto permettere a questo piccolo plebeo, a questo socialista mancato, di assumere il potere. Se fossi più giovane, mi metterei al servizio di Sua Maestà per ripulire il governo da questa teppaglia.»
«Zio Riccardo, mi serve una parola orizzontale che comincia con COR e finisce con IONE, ci sono cinque caselle vuote nel mezzo. La definizione è: “Unione di lavoratori e imprenditori.»
«La parola è CORPORAZIONE. La sentirai ripetere spesso perché è la base della nuova struttura economica e politica. È un mezzo per esercitare un controllo sempre più stretto sulle imprese e sugli individui. L’idea è piaciuta al nuovo Cancelliere tedesco che vuole ristrutturare lo stato sul modello mussoliniano. Un altro piccolo plebeo con aspirazioni imperiali. Sono tutt’e due della stessa genìa.»
«Ho sentito papà che diceva press’a poco le stesse cose.»
«Mina cara, forse è bene che tu dimentichi quello che hai sentito. Quello che ha detto papà, quello che ho detto io… Non parlarne con nessuno. Viviamo in tempi pericolosi, anche se la nostra è una vita privilegiata. Ma tutto può cambiare da un giorno all’altro. Anche per noi.» Brano tratto dal romanzo Album di famiglia, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2010. Prima edizione, 2008. Anna Maltese Lawton ha un dottorato di ricerca in letteratura russa dell’Università di Los Angeles (UCLA) e insegna corsi di cultura visuale e cinema alla Georgetown University a Washington D.C. Ha scritto libri e curato volumi su questi temi, oltre a numerosi articoli e saggi. Il suo libro più recente è Imaging Russia 2000: Film and Facts che combina critica cinematografica, giornalismo e narrativa, per rendere un quadro vivo della realtà russa contemporanea—realtà che l’autrice conosce di prima mano, avendo vissuto per cinque anni a Mosca. Il libro ha ricevuto il premio CHOICE, della American Library Association. Anna Maltese fa ora il suo debutto in narrativa con Album di famiglia. Italiana d’origine, l’autrice passò l’infanzia e l’adolescenza tra Torino e le colline del Monferrato. La sua famiglia fu proprietaria del Castello di Cortanze per più di mezzo secolo, ed è quello il luogo che ispirò il presente romanzo. Recentemente, si à data all’editoria e ha fondato a Washington la casa editrice New Academia Publishing (www.newacademia.com).
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