ESPLOSIONI Brano tratto dal romanzo L’uomo che allevava gatti Mo Yan
(…) Lo schiaffo di mio padre mi colpisce così pesantemente da farmi schizzar fuori l’anima. Un forte bruciore mi pervade il viso. Porto una mano alla guancia e sento le tracce, grandi come carote, lasciate dalle sue dita.
Nella mia testa, ora vuota come un secchio, un ronzio di api si fonde con lontane esplosioni. I suoni colpiscono le pareti del secchio e rimbalzano turbinando. Non ti riguarda, dico, fatto sta che lo so. Prima di finire la frase, la rabbia mi monta di nuovo in cuore. Mio padre: Dimmelo! Dimmi quale grandissimo figlio di vacca te l’ha detto, me la sbrigo io con lui. La Commissione per la pianificazione delle nascite della Comune, gli dico, mi ha mandato una lettera. Ho fatto rapporto ai miei superiori e sono tornato subito qui. Mio padre manda un grugnito di disappunto, scuote la mano per scacciare un tafano dal petto e si scrolla di dosso alcune pagliuzze di fieno. E così, il bambino … avresti il coraggio di mettere fine alla nostra famiglia? Mio padre mi guarda con tristezza. Ma scusa, non ho forse una figlia? chiedo. Come fai a dire che metto fine alla famiglia? E lui: Una figlia non è un figlio, le donne non contano. E il presidente dell’India allora? ribatto. E il Primo ministro inglese? E la Regina danese, o la vice capo distretto Tian? Non sono forse donne? Di fronte a Tian non avresti il coraggio di alzare la testa! Questo non c’entra, ribatte. Ti scongiuro, lascialo vivere! Ci vado io in galera al posto tuo. No, dico, lascia perdere. Non si può fare!
La paura degli schiaffi di mio padre è scomparsa, ma il mio stato d’animo è molto negativo. Presto avrò trent’anni. L’agitazione di mio padre prima di colpirmi, e il tremito che gli scuoteva la figura subito dopo, mi fanno capire che ormai sono sospinto tra le fila degli uomini di mezza età, e che il potere di decidere degli eventi che mi riguardano è nelle mie mani, non in quelle di mio padre. Il fatto che mi abbia picchiato, va interpretato come l’ultima disperata battaglia prima di cedere il potere. Il mio cuore è duro come il ghiaccio, non mi arrenderò a nessun costo. Persino l’interrogarsi sul tenere o no un figlio che mia moglie mi ha nascosto di portare in grembo, mi appare secondario, quello che conta è che prendo la mia vita nelle mie mani.
Mio padre mi volta le spalle, e si dirige verso il muretto che costeggia l’aia. Oltre quello, l’anacardo bruciato dal sole rovente lascia pendere tristemente dai rami le sue foglie, ma riesce ancora a gettare una pallida ombra al di qua del muretto, creando attorno una leggera sensazione di freschezza. Mio padre si erge in quella tremula ombra. Sulle sue carni brune si riflettono irregolari bagliori, così bianchi da sfumare nel verde, accecanti, bellissimi. Si toglie dalla testa quel vecchio cappellaccio di paglia che un semplice soffio di vento manderebbe in mille pezzi, lo tiene in mano, ma non se ne serve per farsi aria. Sotto il sole implacabile, pagliuzze di grano frusciano nervosamente sull’aia. Ogni singolo oggetto che mi circonda riflette i raggi del sole, ogni colore si sveste della propria natura. Quel che ai miei occhi appare bianco, diviene nero solo un attimo dopo. Spinte da un’improvvisa brezza di vento, le foglie dell’anacardo si agitano controvoglia, poi reclinano nuovamente il capo, immobili, incollate nell’aria torbida come sulfuree lingue di fuoco. Mio padre è in piedi di fronte a me. Così freddo, distante. Stanche, le lunghe braccia scendono lungo i fianchi. Braccia che sembrano non riuscire più a sollevare le grandi e pesanti mani. Mani che sembrano ingrandite dal sangue che vi scorre dentro. Mani il cui peso allunga ancora di più le braccia. Dalle mani di mio padre emana un senso di tristezza, e rispetto. In me risvegliano oscure e aspre emozioni che mi fanno bruciare la lingua. Le mani pendono lungo i fianchi, una stringe fra le dita il vecchio cappellaccio di paglia. Quel cappello mi pietrifica, mi terrorizza. Sono sbigottito dal fatto che possa ancora esistere. Sono terrorizzato dal rischio che mio padre, stringendolo fra le dita, inavvertitamente lo mandi in pezzi. Una volta frantumato si spargerebbe nell’aria immobile come polvere acida e rovente, rendendo ancor più torbida questa torrida estate. Mia moglie è rimasta incinta tra ondeggianti campi di grano dorato e spighe verdi come la giada.
Quando mio padre agitava la sua grande mano per colpirmi, sentivo crescere in me una rabbia cieca e distruttrice. È ora di saldare i nuovi e vecchi conti lasciati da troppo tempo in sospeso! Nei trent’anni che ci dividono vedo solo sbuffi di polvere color ruggine. Non c’è traccia di sentimenti affettuosi, niente amore, nessuna felicità, nemmeno la freschezza di un fiore. Eppure mi rendo conto che il mio risentimento non è obiettivo. Anche la sua schiena curva e il fango che gli copre il corpo sono lì a protestare contro la mia parzialità. Sulle sue ossa è inciso il marchio profondo lasciato per ricordo dal duro lavoro, e nei suoi occhi le ruote dell’amarezza e del dolore hanno tracciato lunghi solchi vermigli. Sotto quell’affaticato anacardo, assomiglia quasi a un prigioniero. China la testa incanutita e dalla sua gola giungono dei suoni leggeri un vago “la la lo”, poi, stringendosi nelle spalle, lentamente, molto lentamente, si inginocchia. L’ho sconfitto. Sotto il sole infuocato, sulla mia pelle scorre il sudore, ma dentro sono ghiaccio puro. Un gelo multiforme e multicolore si condensa nel mio guscio svuotato, accompagnandosi a una serie di piccole stalattiti di ghiaccio simili a denti di lupo …
Quando l’ho saputo, sono tornato di corsa a casa, con ancora indosso gli abiti di città. Ora, di fronte a mio padre, il mio vestito sembra improvvisamente acquistare lucentezza: sembra più costoso, stravagante. È pieno di tasche e bottoni, pulito in maniera quasi sconveniente. La sconfitta di mio padre mi fa sentire terribilmente in colpa. Vedo un vecchio di settant’anni, mezzo nudo, che si inginocchia di fronte a un vestito sgargiante, dentro al quale c’è il figlio pallidino e grassoccio. I raggi del sole illuminano padre e figlio, illuminano l’aia immersa nell’estate. Un manto di frumento copre lo spiazzo dell’aia. Tra bagliori gialli come l’oro, ondeggia l’argento dei fusti e delle spighe, e le barbe di grano appuntite. Animate dai raggi del sole, le sottili e acuminate pagliuzze che crescono sulle spighe, frusciano sfregandosi tra loro. Precipitati per caso in quel mare d’oro, due verdi steli non ancora maturi formano un nitido contrasto che gli occhi accolgono a stento. Ragni rossi come il fuoco – della grandezza di un chicco di riso – si arrampicano, quali scintille prodotte da un fulmine improvviso, sulle acerbe spighe color giada. Oltre l’aia, un falcetto e una panca posti di traverso giacciono immobili e silenziosi. Le confuse impronte di piedi e le radici del grano sparse a terra ricordano la scena di un’antica battaglia pronta a rivelare, al visitatore di quello storico luogo, i misteri di un oscuro sentimento … Mia moglie aspetta, sollevando il falcetto, che mio padre, chinandosi, vi spinga sotto un fascio di grano. Ora si china anche lei e, con un colpo sibilante, divide in due parti il fascio. Mia madre, muovendosi incerta, si dà un gran da fare a sollevare le spighe e spargerle bene nell’aia con il vecchio forcone di gelso. Mia figlia saltella in mezzo al cortile mangiucchiando chicchi di frumento. Insieme a un chicco, le finisce in bocca anche una barba di grano che si arrampica verso la gola. In un attimo il viso le si fa violaceo, come se stesse soffocando. Scoppia a piangere, tossisce. Sua madre è terrorizzata, sudore freddo le imperla la fronte … Spighe gialle e dorate; la serenità del lavoro; il sudore profumato dalla fatica; una figlia, fresca come un fiore appena sbocciato; una moglie giovane e forte; i vecchi, solidi come radici … Un delizioso quadretto di pace terrena, di felicità e abbondanza, in cui ogni tonalità di colore obbedisce a un atteggiamento tranquillo dello spirito. Non c’è vento che soffi, né maree che si alzino, non c’è tuono o pioggia che scrosci, e le azioni degli uomini somigliano ai lenti movimenti delle “conchiglie dei pellegrini”1. Sulla spiaggia, lavata dalla tranquilla potenza dell’onda che recede, rimangono una serie di identiche impronte, come una calligrafia, come parole, come la storia …
Mi sento profondamente in colpa.
Sebbene ogni anno ritorni a casa per far fronte ai miei doveri di marito, di padre e di figlio, sebbene senta che i rapporti che mi legano a questo desolato e remoto villaggio siano tanto intensi quanto quelli fra l’utero e l’embrione, ogni volta che torno alle mie origini, nei luoghi del lavoro duro e mite, non posso fare a meno di provare un profondo sconvolgimento. Lasciandosi alle spalle l’animata vita della città, segnata dal flusso delle ambizioni umane, con solo un giorno e una notte di treno e due ore di pullman, si arriva a questo luogo. Lontano, come un sogno che non si riesce a dimenticare, è il frenetico mormorio e le risa corrotte delle donne e degli uomini di Pechino, Shanghai, Canton, Tianjin. Nel sogno sto volando. Un incidente, l’aereo ha uno schianto, siamo feriti e il velivolo precipita al suolo vorticando. Apro gli occhi: sono ancora nell’aia di casa mia.
In piedi al limite dell’aia, mi sottopongo come un asceta alla punizione inflitta al mio corpo dai raggi del sole. Il ricordo di una scena simile mi riporta indietro di vent’anni, a quando il maestro, per farmi pentire di essere andato al fiume a fare il bagno, mi lasciò sotto il sole finché non caddi svenuto. Quando mio padre lo venne a sapere, impugnò uno dei forconi che usava nei campi e inseguì il maestro butterato, che per sfuggirgli fu costretto ad arrampicarsi su un muro. Mio padre mi ama. Ha consumato il manico della zappa nei campi per permettermi di andare a scuola. È così. Mi ama, anche se mi picchia, è giusto un riflesso del suo grande amore. Eppure non posso arrendermi solo per il fatto che mi vuol bene. C’è qualcos’altro, un’altra forza in grado di superare quella dell’amore di mio padre e di mia madre, una forza che non è amore e sta governando le mie emozioni, indefinibile, inconsapevole, slegata da qualsiasi condizionamento di causa ed effetto, una forza la cui essenza si concretizza in obiettivo. Non ha bisogno di essere spiegata, è la mia indipendenza. Certo voi, in nome dell’amore che provate per me, sentite di dover interferire in questa mia indipendenza. Ma io devo avere in odio le vostre intrusioni. Certo voi lavorate duramente, e la vostra laboriosità contribuisce a scrivere la storia del genere umano. Ma io devo per forza avere in odio tutto ciò. Di fronte ai monumentali contributi dati dai padri, quelli dei figli sembrano ben poca cosa, ma mesi e anni si succedono rapidamente e, come un fiume, l’umanità si moltiplica e spinge sempre in avanti. Avanzo di qualche passo e mi accosto a mio padre: Non essere triste papà (…)
Nota:
1 Molusco Bivalve Brano tratto da L’uomo che allevava gatti. Il racconto Esplosioni è stato scelto e tradotto dal cinese da Maria Rita Masci. Einaudi. Torino 1997. Mo Yan, scrittore cinese, è il Premio Nobel per la Letteratura 2012.
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