LA MOBILITAZIONE GENERALE Brano tratto dal romanzo I doni della vita Irčne Némirovsky
(…) Fino all'ultimo, Guy e Rose non credettero alla guerra. L'anno prima, sì, la guerra era possibile: loro due erano lontani, erano infelici; il mondo poteva pure crollare. Ma adesso che le cose andavano bene, che vivevano insieme, che erano marito e moglie, tutto doveva essere sereno intorno a loro come dentro di loro. Quello che temevano di più era una nuova mobilitazione.
«Ancora una volta, a causa della loro sporca guerra, ti faranno saltare le vacanze, amore mio...» scriveva Rose.
A Wimereux, gli Hardelot invitavano a cena gli Hardelot Demestre di Saint-Elme e l'arrivo del dolce li trovava tutti d'accordo: la guerra, per quell'anno, era da escludere - i tedeschi non avevano più vagoni per i convogli. Tutto si sarebbe aggiustato ancora una volta, ma alla mobilitazione non si sarebbe scappati. Due classi erano già state richiamate. E a Parigi, di nuovo, negozi che chiudevano, serrande abbassate e i cartelli mezzo strappati con la scritta «Chiuso per ferie» rimpiazzati da nuovi cartelli: «Chiuso per mobilitazione». Qualche scettico aveva addirittura scritto «per mobilitazione annuale».
Al mare il tempo, che fino a quel momento era stato scialbo e incerto, volse decisamente al bello. Il sole sfolgorava sui piccoli avvisi bianchi affissi sui muri color oro del municipio, e ogni giorno ne spuntava uno nuovo: le classi venivano richiamate l'una dopo l'altra. I volti truccati, abbronzati, lucidi di olio solare delle donne erano segnati dall'angoscia. Le ville chiudevano. In spiaggia e per le strade assolate a farla da padroni erano ormai solo i bambini spagnoli con i loro grandi occhi neri. I francesi se ne andavano tutti. Ficcavano in valigia il costume da bagno ancora umido, i sandali induriti dalla sabbia, e le donne, alla vista dell'abito di organza così fresco che avevano gelosamente tenuto da parte per le sere di settembre, si lasciavano sfuggire una lacrima.
In quelle lunghe serate così calme, così belle, mentre le cicale frinivano in giardino e la luna brillava sul vecchio frontone, Rose e le sue amiche - tutte con mariti giovani, che dunque potevano anche loro essere richiamati - aspettavano l'inizio del notiziario radiofonico nel salotto della villa. A poco a poco l'ansia, lo smarrimento e un'angoscia crudele toglievano loro il respiro. Le donne, nervose, fingevano di cucire o di lavorare a maglia, ma il tremito alle mani finiva per spezzare la lana e far cadere i ferri. Ciò nonostante, ognuna di loro si sforzava di trovare un motivo di speranza in questa o in quella riga del giornale della sera, nella voce dello speaker, nella lettera ricevuta il giorno prima. I mariti lontani sembravano essersi messi d'accordo.
«Le cose si aggiusteranno ancora una volta. Ci andremo solo vicino. L'importane, mia cara, è che tu stia tranquilla» scrivevano tutti.
Le donne, pur sospettando che mentissero, che volessero tenerle lontano da una Parigi in pericolo, non osavano disobbedire. La vita non era più quella di sempre, ma una serie di immagini contorte, la deformazione di un incubo. La cuoca spagnola, portando in tavola l'insalata di peperoni, scoppiava in lacrime: era sposata con un francese, c'era la guerra e lui partiva. Qualcuna girava febbrilmente la manopola della radio e da Budapest arrivavano musiche zigane. I gatti miagolavano al chiaro di luna, correvano sui tetti, giocavano sulla ghiaia pallida e scintillante. Il profumo dei fiori entrava dalle finestre aperte. Il mare dava una sensazione di freschezza, di conforto, di innocenza. Le donne guardavano la poltrona di vimini abbandonata sulla terrazza dove, una settimana prima, l'uomo che amavano fumava, rideva, leggeva il giornale. Pensavano al letto matrimoniale sotto la zanzariera. Trovavano sotto i cuscini del divano una sigaretta dimenticata, un po' di sabbia ancora tiepida, e si sentivano già vedove.
Ma quando la catastrofe è vicina si comincia a pensare anche agli altri. Nessuna voleva preoccupare le amiche, gettarle nella disperazione. Le voci si abbassavano, si facevano più pacate. Si parlava di cose futili, del tempo, del bagno del mattino, di vestiti. Poi, dopo un attimo di silenzio, una di loro con finta indifferenza domandava:
«A proposito, che cosa ti dice Guy nella lettera che hai ricevuto stamattina?».
E Rose, con gli occhi bassi e la voce alterata dall'angoscia, ripeteva parola per parola le frasi che sapeva a memoria:
«Sono convinto che le cose si sistemeranno anche stavolta. Ogni giorno incontro persone assai bene informate e la pensano tutte come me. Andrà a finire come nel settembre scorso, perché in fondo la guerra non la vuole nessuno. A ogni modo, non commettere la sciocchezza di venire qui».
Le donne si aggrappavano alle parole: «Incontro persone assai bene informate...», e si figuravano queste persone come uomini dall'aria seria, austera, che sapevano tutto, che avevano previsto tutto, che conoscevano i pensieri più segreti dei governanti, ne avevano sondato i cuori e i sogni e assicuravano che non ci sarebbe stata nessuna guerra. Bisognava credergli. E tuttavia le notizie peggioravano di ora in ora. L'aria sembrava diventare sempre più irrespirabile e ci si sentiva soffocare in preda a un'apprensione cupa e dolorosa.
Nel salottino le donne tacevano, mentre l'orologio a pendolo scandiva lentamente le ore, i minuti. E quando alla radio un valzer si interrompeva di colpo, pareva di precipitare in un abisso. Un attimo di silenzio... un tuffo al cuore. Rose giocherellava con la sua fede nuova di zecca, la lasciava scivolare sulle ginocchia, l'accarezzava, la rimirava. Poi, la voce dello speaker: «Trasmettiamo ora un programma della radiodiffusione francese...». E non appena il programma terminava, una voce mormorava: «Niente di nuovo, insomma». E un'altra: «No... ancora niente». Rose si alzava in piedi di scatto, si gettava un soprabito sul vestito leggero e scendeva verso la spiaggia. Nell'ombra umida un arco di luci scintillava punteggiando la baia. Davanti allo spiazzo all'aperto di un caffè, un gruppo di persone immobili nella notte aspettava il notiziario successivo.
Andò avanti così fino al giorno in cui, annunciata da un gran scampanare, venne indetta la mobilitazione generale. Una bambina, in un giardino, prese a gridare: «Mamma, le senti le campane? È una festa?». Delle donne piangevano in mezzo alla strada. Gli uomini invece erano calmi e ce n'erano addirittura alcuni che ridevano e alzando le spalle dicevano:
«E allora? Era scontato, no? Si ricomincia».
Rose, che aveva cercato invano di telefonare a Parigi, tornò dall'ufficio postale pallida, tremante, senza una lacrima, invecchiata di dieci anni.
«Prendo un treno questa notte,» disse «arriverò giusto in tempo. Lui parte solo il secondo giorno».
E già tutto era cambiato a un punto tale che quelle ventiquattr'ore di tregua parevano una grazia. Ventiquattr'ore... Quante cose erano racchiuse in ventiquattr'ore, quanti baci, quante lacrime, che amara e intensa ricchezza!
Rose salì sull'ultimo convoglio non adibito al trasporto di militari. I passeggeri erano quasi tutti uomini, perlopiù giovani richiamati che andavano a raggiungere il proprio reggimento. C'era chi dormiva nei corridoi o viaggiava appollaiato su una cassa; i contadini bevevano il loro vino in silenzio e pulendo il vetro appannato del finestrino con la manica guardavano le piccole stazioni e le fattorie. I borghesi e gli operai parlavano gesticolando animatamente. «Hitler... L'Italia... L'Inghilterra... Monaco...» li sentiva dire Rose. I contadini invece tacevano o si limitavano a scambiarsi di tanto in tanto sottovoce qualche commento sulla loro vita quotidiana, quella vita dalla quale non erano ancora riusciti a separarsi e che si portavano appresso, quella vita che li avrebbe accompagnati anche in guerra, vincitori o vinti che fossero, e fino alla morte, come la carne che ricopriva le loro ossa: «... La vacca... Le patate... La frutta... Ce n'era, quest'anno, ce n'era tanta...». E intanto indicavano lungo la strada gli alberi carichi di pesche: «Andrà tutto in malora, che peccato! Ma le donne si daranno da fare...».
Un tipo gracile dallo sguardo preoccupato ripeteva: «Mi hanno richiamato e sono partito. Ma sono troppo vecchio per fare il soldato. Ho fatto l'altra, dal '14 al '19, sui Dardanelli...». L'altra... l'altra guerra... Parole pronunciate con stupore, parole che suonavano nuove. Un'altra guerra... Due volte in una vita, era troppo! Ma si era tutti sulla stessa barca, e proprio da quella comunanza di prove nasceva il coraggio.
Una vecchia domandò a Rose:
«Va a Parigi? È vero che ci bombarderanno? Non ha paura?».
Lei fece segno di no con la testa. Provava un senso di strana e angosciosa confusione tra passato e presente. Non c'era stato un taglio netto: le speranze, le abitudini, i sentimenti, i desideri del passato le rimanevano attaccati come un arto che, sebbene lo stiano amputando, continua a sanguinare e a essere unito al corpo dolente da nervi, carne e muscoli. Rose guardava il cielo, così puro, così bello, e pensava: «Farà caldo quando lui verrà per le vacanze». E poi: «Ma no... Lui se ne va... C'è la guerra». Dopo un po', aprendo la borsa per prendere un pezzo di pane e della frutta - si era portata dietro qualcosa da mangiare perché non aveva cenato e moriva di fame -, sentì sotto le dita un campioncino di stoffa stampata... un vestito che aveva ordinato e che dovevano consegnarle, un vestito che lui non avrebbe mai visto, che forse lei non avrebbe mai indossato!
«Perché va a Parigi?» riprese la donna, curiosa.
«Per vedere mio marito» rispose lei.
«Io vado a prendermi le mie lenzuola» disse la vecchia. «Pensi che guaio se la casa viene bombardata! Lenzuola che ho ereditato da mia madre».
Tutti quelli che se la ricordavano parlavano dell'altra guerra: «Non sarà la stessa cosa, stavolta. Siamo forti... abbiamo cannoni e aerei!».
Quando i treni si fermavano nelle stazioni, la gente si affacciava ai finestrini e guardava incuriosita i soldati che pattugliavano i binari; il chiaro di luna faceva scintillare gli elmetti e i cinturoni, e un bagliore bluastro lampeggiava dalla canna dei fucili. Convogli di donne e bambini in fuga da Parigi scendevano verso il centro della Francia. Il treno ripartiva. Si cercava di avvistare i primi aerei nel cielo pieno di stelle.
Rose si addormentò per qualche ora. Quando si svegliò era giorno. Vide dei cavalli che attraversavano un villaggio.
«Requisiscono le bestie» diceva qualcuno.
Come una macina in continuo movimento, l'idea della guerra stritolava il cuore. La si vedeva, la si respirava ogni momento; ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero la evocavano. La stazione di Parigi, la folla che prendeva d'assalto i treni, i bambini che venivano fatti passare dai finestrini dei vagoni stracarichi e il contrasto stridente con le strade così tranquille: niente concedeva all'anima un attimo di tregua; tutto sembrava ripetere: «È la guerra... la guerra... la guerra...».
I passanti tenevano in mano le maschere antigas, ma a parte questo nulla era mutato: chioschi di fiori agli incroci, massaie che compravano ciliegie, bambini che correvano. Sulla porta di casa, Rose si fermò col batticuore, guardò un momento il terzo piano, le finestre della sua camera, e a un tratto le venne in mente che forse Guy le avrebbe rimproverato quel colpo di testa. Salì con lentezza le scale: l'ascensore non funzionava. Suonò alla porta. Sentì il passo di Guy sul pavimento spoglio. Chiuse gli occhi per ascoltare meglio quel suono, per imprimerselo nella memoria e non scordarlo mai. Aveva immaginato che, non appena si fosse aperta la porta, gli si sarebbe gettata tra le braccia e lo avrebbe stretto a sé gridando: «Non partire! Non voglio che tu parta. Voglio tenerti con me». Ma già la guerra induriva i cuori. Si limitò a sorridergli e a dirgli piano:
«Sono io. Non sgridarmi».
Poi si tolse il cappello, e mentre lui la guardava in silenzio disse:
«Questa volta è proprio la guerra, vero?».
Sì, era proprio la guerra. Brano tratto dal romanzo I doni della vita, Adelphi editrice, Milano, 2009. Traduzione di laura Frausin Guarino. Irčne Némirovsky (Kiev, 11 febbraio 1903 – Auschwitz, 17 agosto 1942) č stata una scrittrice francese. Nata in Ucraina, di religione ebraica convertitasi poi al cattolicesimo nel 1939, ha vissuto e lavorato in Francia. Arrestata dai nazisti, in quanto ebrea, Irčne Némirovsky fu deportata nel luglio del 1942 ad Auschwitz, dove morě un mese piů tardi di tifo. Anche il marito, Michel Epstein, che aveva cercato di farla liberare, verrŕ gasato nel novembre dello stesso anno al suo arrivo ad Auschwitz.
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