BERNARD JACQUELAIN Brano tratto dal romanzo I falň dell’autunno Irčne Némirovsky
(…) Un ragazzo di diciassette anni – Bernard Jacquelain, con i vestiti corti e striminziti perché era cresciuto troppo in fretta, a capo scoperto, con i capelli arruffati gettati indietro, seguiva per strada un reggimento in marcia stringendo i denti e stringendo i pugni per trattenere i singhiozzi che gli salivano in gola. Era il 31 luglio 1914, a Parigi. Ogni tanto Bernard lanciava tutt’intorno sguardi incuriositi, avidi, spaventati, come un ragazzino che viene portato per la prima volta a teatro. Che grande spettacolo, quella vigilia di guerra! Perché c’erano solo dei rammolliti, degli idioti come Adolphe Brun, o dei … (biascicò tra i denti un improperio, una parolaccia breve e gagliarda che aveva tutto il sapore della novità perché gliel’avevano insegnata solo pochi giorni prima, al liceo) dei … come Martial Brun a sostenere che la guerra non ci sarebbe stata, che all’ultimo momento i governi si sarebbero tirati indietro davanti alla responsabilità di una carneficina europea … Non capiscono che c’è qualcosa di sublime in questo, pensava Bernard. Sapere che una parola, un gesto scatenerà la guerra, un’avventura eroica, un finimondo come quello fatto scoppiare da Napoleone, saperlo e tirarsi indietro! Bisogna proprio non avere sangue nelle vene. Per un attimo s’immaginò di essere lo zar, il presidente della Repubblica, un grande condottiero. Fece un gesto e mormorò, con gli occhi bagnati di lacrime: “Avanti! Per l’onore della bandiera!”.
“Sì, la guerra ci sarà” pensò ancora. “E io, io, Bernard Jacquelain, vivrò momenti eroici come Austerlitz e come Waterloo. Ai miei figli dirò: “Ah, dovevate vedere Parigi nel 1914!”. Racconterò loro le grida, i fiori, le ovazioni, le lacrime!”. In realtà, non c’era niente di tutto questo. Le strade erano tranquille, le saracinesche dei negozi abbassate. Si vedevano passare le vetture di piazza cariche di bagagli. Ma Bernard sapeva che quella mattina stessa, in diversi punti della capitale, c’erano state manifestazioni patriottiche e, per il resto, lavorava di fantasia, entrava con il pensiero negli appartamenti invisibili, sondava il cuore e le viscere del popolo parigino: “Ecco una donna che guarda i soldati e piange. Povera donna … pensa a suo marito, a suo figlio. E quest’altra che li segue con degli occhi così tristi.
Assomiglia alla mamma … Che cosa dirà, la mamma, quando saprà che voglio arruolarmi volontario, ancor prima di essere richiamato? Ormai ho deciso, non aspetterò la mia classe! Perché lo pensano tutti: tempo tre mesi e sarà tutto finito. E allora, che cosa farò, io? Restare al liceo, sgobbare sui libri come un imbecille, vedermi assegnare punizioni come un bambino quando c’è questa grande cosa, questa gloria, questo sangue, questa guerra? No, grazie! No, grazie! Voglio partire, e partire subito, e andare lontano! Dio, che bel tempo, e com’è caldo il sole! Come sono belle queste uniformi, questi pantaloni rossi! E i cavalli! Cosa c’è di più bello di una bella bestia nervosa che volteggia, che morde il freno con la schiuma alle froge? Voglio arruolarmi in cavalleria, essere un dragone, per via dell’elmo. Oh, ecco delle ragazze che mandano baci ai soldati! Come devono esserne fieri. Le donne li amano, i soldati. Anch’io vorrei essere amato, ma non da una sola, da molte donne che si disputano i miei favori, e io apparirò tra loro nella mia bella uniforme, le guarderò … E in quello sguardo leggeranno chi è il loro signore e padrone. Ma queste sono bambinate. Le donne non m’interessano più. No! Neanche la servetta del quinto piano che mi fa gli occhi dolci quando la incontro sulle scale. Voglio vivere per la polvere da sparo, la guerra e la gloria! Ecco un vecchio che sicuramente ha fatto la campagna del ’70; come dev’essere emozionato! Non si preoccupi, signore, ci sono qui io, il piccolo Bernard Jacquelain, e le garantisco che riporterò la Vittoria sotto le nostre bandiere! Oh, ho voglia di cantare, di gridare, di saltare! Mi dicano pure quello che vogliono, ma io mi arruolo, mi arruolo, ho deciso. Fra tre giorni avrò diciott’anni. A che età ci si può arruolare? Un modo lo troverò per forza. Oh, la musica! Ecco la fanfara. Gli squilli di tromba, i tamburi … Dio, com’è bello! Avanzare al suono di questa musica e poi caricare! Sciabola sguainata! Baionetta in canna!”.
L’emozione e la stanchezza, perché aveva percorso a piedi mezza Parigi, lo lasciavano senza fiato. Dovette fare una sosta e appoggiarsi al muro.
Quegli inni di guerra gli facevano correre brividi lungo la schiena, gli riempivano gli occhi di lacrime. All’improvviso si sentì come scorticato vivo, con tutti i muscoli, tutti i nervi che sanguinavano, esposti al fiato delle trombe, e come se ogni nota venisse suonata su di lui, sulla sua carne. Ogni rullo di tamburo gli martellava le ossa. “Ed è proprio così” disse tra sé . “O almeno sarà così quando andrò soldato. Farò parte del reggimento come … come una goccia di sangue fa parte di questo fiume rosso che mi scorre nel cuore”. Si raddrizzò con fierezza e rimase sull’attenti ascoltando la fanfara che si allontanava. L’aria vibrava ancora come una corda di violino. Alle orecchie di Bernard, tutto era canto: il fiume, le antiche pietre, le case, la folla. Che adesso era folta e si accalcava intorno alle edicole. Alcuni uomini discutevano gesticolando e facendo roteare il bastone da passeggio. Si sentiva: “Lo zar … Il Kaiser …”. Le facce erano pallide, tese e preoccupate. Bernard li osservò sdegnato: “I vecchi! Buoni solo a parlare. Io agisco, invece, mi arruolo” disse tra sé. Con i gomiti stretti al corpo e il mento in su, avanzando con passo cadenzato e immaginandosi di andare all’assalto dietro la bandiera sventolante, Bernard attraversò la strada, entrò in una pasticceria, comprò due paste, le mangiò in piedi con aria truce, poi prese il metro per tornare a casa; intendeva annunciare la sua decisione alla famiglia quella sera stessa. “La mamma piangerà, ma papà mi approverà. E’ un patriota, lui. Anche la mamma, ma le donne sono creature così deboli. L’essenziale è parlare da uomo.
Dirò: “Papà, ti voglio bene e ti rispetto. Ti ho sempre ubbidito. Ma adesso comanda qualcuno che è più forte di te: è la patria, papà, è la voce della Francia!”. (…) Brano tratto da I falň dell’autunno, traduzione di Laura Frausin Guarino. Editions Albin Michel, Paris, 1957. In Italia, Adelphi Edizioni, Milano 2012. Irčne Némirovsky (Kiev, 11 febbraio 1903 – Auschwitz, 17 agosto 1942) č stata una scrittrice francese. Nata in Ucraina, di religione ebraica convertitasi poi al cattolicesimo nel 1939, ha vissuto e lavorato in Francia. Arrestata dai nazisti, in quanto ebrea, Irčne Némirovsky fu deportata nel luglio del 1942 ad Auschwitz, dove morě un mese piů tardi di tifo. Anche il marito, Michel Epstein, che aveva cercato di farla liberare, verrŕ gasato nel novembre dello stesso anno al suo arrivo ad Auschwitz. Dal 2005 la casa editrice Adelphi ha iniziato a pubblicare le sue opere.
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