UOMINI PERDUTI Brano tratto da La razza degli uomini perduti Antonin Artaud C'è, a nord del Messico, a quarantott'ore da Città del Messico, una razza di autentici indiani rossi, i Tarahumara. Là vivono quarantamila uomini, in uno stato simile a quello che precedette il diluvio. Essi rappresentano una sfida a quel mondo dove non si parla tanto di progresso per la semplice ragione che si dispera di poter progredire. Questa razza, che dovrebbe essere fisicamente degenerata, resiste da quattrocento anni a tutto ciò che è venuto ad attaccarla: la civilizzazione, il meticciato, la guerra, l'inverno, gli animali, le tempeste e la foresta. Essa vive nuda, d'inverno, tra le montagne ostruite dalla neve, in spregio a tutte le teorie mediche. Il comunismo si manifesta in essa attraverso un sentimento di solidarietà spontanea. E così incredibile che ciò scompaia che gli indiani Tarahumara vivono come se fossero già morti... Non vedono la realtà e consultano le forze magiche a causa del disprezzo che nutrono nei confronti della civilizzazione. Si recano spesso nelle città, spinti da non so quale voglia di muoversi e vedere, dicono, come sono gli uomini che hanno sbagliato. Si recano con donne e bambini, tramite impossibili tragitti che nessun animale oserebbe tentare. A vederli andar dritti per la loro strada, attraverso i torrenti, la terra che frana, i boschi cedui fitti, i gradini di roccia, le mura a picco, non posso impedirmi di pensare che essi hanno saputo conservare la forza della gravitazione naturale dei primi uomini. A prima vista, il paese Tarahumara è inavvicinabile. Appena qualche vaga pista che, intorno ai venti metri di distanza, sembra sparire sotto terra. La notte arriva, bisogna fermarsi se non si è un uomo rosso. Poiché allora, soltanto un uomo rosso vede dove bisogna mettere i piedi. Quando i Tarahumara scendono nelle città chiedono l'elemosina. In maniera sorprendente. Si fermano davanti alle porte delle case e si mettono di profilo con un'aria di disprezzo sovrano. Hanno l'aria di dire: «Essendo ricco, tu sei un cane, io valgo più di te e sputo su di te». Indipendentemente da quello che ricevono, si ritirano sempre alla fine nello stesso lasso di tempo. Se ricevono qualcosa non dicono grazie. Poiché dare a colui che non ha niente non è per essi un dovere, è una legge di reciprocità fisica che il Mondo Bianco ha tradito. La loro attitudine sembra dire: «Obbedendo alla legge, è a te stesso che fai del bene, non devo dunque ringraziarti». Il denaro guadagnato mendicando serve loro a comprare alimenti per il ritorno poiché, nella foresta Tarahumara, non si capisce davvero a cosa servirebbe il denaro. Questa legge di reciprocità fisica che noi chiamiamo carità, gli Indiani la praticano naturalmente e senza alcuna pietà. Coloro che non hanno niente, perché hanno perso il loro raccolto, perché il loro mais è bruciato, perché non hanno ereditato nulla dal padre o per qualsivoglia motivo del quale non devono giustificarsi, arrivano al tramonto nelle case di quelli che posseggono qualcosa. Immediatamente la padrona di casa porta loro tutto quello che ha. Nessuno guarda, né colui che dà né colui che riceve. Dopo aver mangiato, il mendicante se ne va senza ringraziare né guardare nessuno. Tutta la vita dei Tarahumara gira attorno al rito erotico del Peyotl. La radice del Peyotl è ermafrodita. Essa porta, com'è risaputo, la forma di un sesso maschile e femminile riuniti. E in questo rito che risiedono tutti i segreti di questi indiani selvaggi. La forza mi appare simbolizzata da una grattugia, una specie di legno ricurvo coperto di incisioni sul quale, durante notti intere, gli stregoni del Peyotl fanno stridere ritmicamente dei bastoncini. Ma la cosa più strana è la maniera con la quale gli stregoni vengono reclutati. Un giorno un indiano si sente chiamare per maneggiare la grattugia. La va a cercare in un angolo sacro della montagna dove da migliaia di anni dorme una collezione incredibile di grattugie che altri stregoni hanno sotterrato. Esse sono in legno, in legno delle terre calde, come dicono. Il Tarahumara va a passare tre anni al di sopra di questa piantagione di grattugie e, alla fine del terzo anno, ritorna, in possesso del rito essenziale. Tale è la vita di questo strano popolo sul quale nessuna civilizzazione avrà mai presa. Tratto da La terra degli uomini perduti e altre prose, Via del Vento edizioni, Pistoia, 2012. Traduzione di Pasquale Di Palmo. Antonin Artaud
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