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Sagarana L’INVOLUZIONE NEOELITARIA


Brano del saggio Indignarsi è giusto


Ferruccio Capelli


L’INVOLUZIONE NEOELITARIA



Dopo quattro, cinque anni di crisi si delinea un fenomeno nuovo: l’impotenza e lo stordimento delle forze politiche democratiche spiana la strada all’establishment che prende direttamente nelle proprie mani le redini del comando. Gli esponenti dei poteri economici dominanti impongono il loro punto di vista nel dibattito pubblico e fissano l’agenda: in alcuni paesi prendono in mano anche la guida dei governi.
Passato lo shock iniziale i sostenitori del pensiero liberista hanno accantonato ogni imbarazzo e pudore e hanno reintonato l’antica canzone: liberalizzazioni, competizione, flessibilità. La crisi che ha scosso il mondo intero è una conseguenza diretta della liberalizzazione e dell’abbattimento
di ogni regola nei mercati finanziari e delle merci, eppure gli stessi responsabili di questo disastro si sono messi a riproporre le ricette di prima.
Purtroppo ricominciano anche ad essere riascoltati e presi sul serio. In un clima di emergenza, di assenza di nuove idee e di impotenza della politica i guru del liberalismo hanno buon gioco: le loro ricette, non di rado le uniche in campo, appaiono ammantate di concretezza, di buon senso, di
sano realismo. Nel passato, argomentano, le politiche liberiste non hanno potuto produrre gli esiti sperati perché hanno trovato troppi impedimenti sulla loro strada. Il vero problema è ridurre ulteriormente le interferenze dei poteri pubblici.
La loro ricetta alla fin fine è molto semplice: tornare al punto in cui ci si trovava prima della crisi tagliando però con l’accetta tutti quegli impedimenti, oneri, carichi impropri che hanno impedito al mercato di esercitare le proprie virtù autoregolatrici. Nei paesi europei, gravati da un debito pubblico elevato, l’obiettivo da perseguire diventa quello di alleggerire ad ogni costo il fardello del debito pubblico: poco male se il prezzo è una drastica riduzione dello sicurezza sociale dei cittadini. Insomma, la prospettiva che l’establishment propone è: torniamo, proprio come nel gioco dell’oca, alla casella di partenza, rifacciamo tutto quanto facevamo prima con una sola variazione, una bella e radicale sforbiciata allo stato sociale.
 
Liberalizzare: che cosa?
 
La filosofia che guida questa operazione è sintetizzabile in una parola d’ordine: liberalizzazioni. Si tratta di una sintesi efficace del nocciolo durodel pensiero liberista: abbattere ogni limitazione al mercato. Ma è lecito domandarsi: dopo trent’anni di egemonia incontrastata del pensiero liberista
cosa altro resta da liberalizzare?
Il mercato dei capitali è stato da tempo integralmente liberalizzato. Per quanto la fantasia possa sbizzarrirsi difficile ipotizzare cos’altro si potrebbe liberalizzare nel mondo della finanza. Anzi, vi sono molti esponenti dell’establishment stesso che da qualche tempo invocano qualche regola in più. Ultimamente vi è stato tra di loro perfino chi si è dichiarato pronto ad accettare l’introduzione della Tobin Tax, ovvero di una tassa sulla movimentazione dei capitali.
Strano destino, questo della Tobin Tax. Proposta nel lontano 1972 – quarantanni fa! – da un futuro premio Nobel dell’economia a fi ni di stabilizzazione del mercato finanziario essa è stata irrisa e vituperata dal mondo della finanza. Poi, a distanza di vent’anni dalla sua prima enunciazione, essa è stata recuperata dal movimento new global, al punto da diventare la bandiera di un’associazione come Attac. Ora essa viene riproposta dal Parlamento europeo e, prima di elezioni politiche dall’esito assai incerto, rilanciata dallo stesso Presidente francese Sarkozy per farsi perdonare gli
eccessi di confidenza con il mondo dell’alta finanza francese.
Anche nel mercato delle merci in questi anni la liberalizzazione è camminata a grandi passi. Vi è ancora, qua e là, qualche barriera al libero commercio internazionale, ma il WTO sta smantellando ogni ulteriore limitazione alla movimentazione delle merci. Per quanto riguarda invece l’esercizio della libertà di impresa resta forse, soprattutto nel campo dei servizi, qualche impedimento burocratico, ma per risolvere simili problemi non servirebbe tanta retorica: basterebbe un po’ di tenacia e di determinazione amministrativa.
Oltre al mercato dei capitali e a quello delle merci resta solo il mercato del lavoro. Ed è anche troppo semplice dedurre che il vero obiettivo di tanto appassionato fervore per le liberalizzazioni è finalizzato allo smantellamento delle norme che regolano il mercato del lavoro. La flessibilità, l’obiettivo ossessivamente perseguito per trent’anni non basta più: bisogna andare oltre la flessibilità, verso l’individualizzazione del mercato del lavoro. Il problema, intonano all’unisono gli esponenti del coro liberista, sono i contratti collettivi di lavoro e le protezione legali che lo stato accorda ai lavoratori. Difficile individuare un nesso logico tra la crisi del debito e i contratti
di lavoro dei dipendenti privati. Essi fi no ad ora hanno garantito dei buoni redditi e quindi hanno favorito il gettito fi scale: sono stati un antidoto all’ampliamento del debito pubblico. Ma poco conta. Alcuni governi europei, con in testa quelli più esposti alla crisi del debito, Atene, Madrid
e Roma, stanno marciando verso un nuovo sistema di relazioni di lavoro sempre più deregolamentate e individualizzate. Per attrarre investimenti, si sostiene, occorre un mercato del lavoro senza bardature, nel quale l’impresa possa contrattare liberamente con il singolo lavoratore: assumere, organizzare gli orari, definire le retribuzioni e licenziare senza intralci. In altre parole, si tratta di cominciare a smontare le conquiste collettive dei lavoratori, tutto ciò che ha permesso di erigere nel corso del Novecento la civiltà occidentale del lavoro.
La crisi che nasce dalla deregolamentazione dei mercati finanziari sta portando verso la deregolamentazione anche del mercato del lavoro. È uno sbocco illogico, intimamente contraddittorio: esso può essere spiegato solo con la potenza ideologica del pensiero unico. Si sta andando esattamente là dove avrebbero voluto portarci von Hajek e i suoi epigoni. Ogni
contrattazione collettiva, scriveva il maestro del pensiero neoclassico, è una violazione della libertà individuale, un arbitrio che altera il libero rapporto tra l’imprenditore e il singolo lavoratore. Nel nome della difesa dei più deboli e di astratti valori di giustizia, hanno teorizzato e ribadiscono i
cultori del liberismo, si viola la libertà dell’individuo, anzi si spiana la “via della schiavitù”.
 
Neoelitarismo e antipolitica
 
Quest’operazione ha mille controindicazioni economiche e sociali. Essa rischia innanzitutto di comprimere la domanda complessiva rendendo sempre più problematica la ripresa economica. Essa inoltre determina un ulteriore crescita delle disuguaglianze con serie implicazioni anche per la
stessa convivenza civile.
Questa ostinata aggressione contro la parte più debole della popolazione sconta anche, ed è forse l’implicazione più inquietante, un allarme più profondo: mette nel conto l’eutanasia del sistema della rappresentanza democratica.
In questo scenario le organizzazioni democratiche del mondo del lavoro devono essere messe ai margini: la loro voce è solo un fastidioso impedimento. Gli unici depositari di un interesse e di una visione generale sono le élites, coloro che partecipano alla direzione del sistema economico e tecno – scientifico, che si muovono in stretta correlazione con la nuova iperclassse globale. Insomma, la visione generale e quindi il diritto di governare appartiene solo a coloro che hanno il biglietto di accesso al Forum di Davos, all’incontro dei ricchi e potenti del mondo che ogni anno si svolge
sulle nevi svizzere. Proprio come è accaduto durante l’estate 2011: i gruppi dirigenti della Banca Europea e del Fondo Monetario Internazionale hanno spianato il terreno per la svolta tecnocratica in Grecia e in Italia e hanno dettato le misure da adottare in Spagna, Portogallo e Irlanda. Questa svolta per essere legittimata, ovvero per avere il consenso necessario, deve fare leva sul fastidio dei cittadini per il sistema politico e cavalcare l’umore antipolitico. Sul banco degli accusati, come presunti responsabili della crisi, finiscono coloro che, bene o male, rappresentano settori di popolo e di cittadini mentre attorno ai banchieri, ai finanzieri, ai supertecnici, ovvero attorno a coloro che hanno portato il mondo sull’orlo del disastro, si stende una coltre protettiva e assolutoria.
Nelle ore più convulse della trattativa con il governo greco per imporre al paese ellenico ulteriori tagli e ulteriori restrizioni, dinnanzi a obiezioni e resistenze del tutto logiche e razionali, c’è chi ha commentato: “L’errore è stato coinvolgere i partiti nella trattativa e nel governo”. Le decisioni,
quelle che contano davvero, possono essere prese solo dall’establishment, da quell’élite tecno - economico – finanziaria che è in rapporto diretto con i signori dei mercati finanziari globali.
L’involuzione neoelitaria delle nostre democrazie, da tempo intravista e segnalata da alcuni studiosi2, trova nelle vicende politiche degli ultimi mesi del 2011 un’esplicitazione diretta, perfino brutale. Il potere decisionale deve concentrarsi nelle mani di chi fa parte delle nuove strutture di
potere globale: il cittadino è un semplice spettatore.
 
Metamorfosi della democrazia
 
Si tratta dell’anticipazione di una possibile metamorfosi delle nostre democrazie:
il trionfo delle élites spegne la democrazia che si trasforma e scivola verso una “democrazia del pubblico”. Si sta andando a passi da gigante verso la devitalizzazione della politica e lo svuotamento e demolizione di quello snodo essenziale della vita democratica che sono i corpi
intermedi. La democrazia formalmente non viene messa in discussione: ne verrebbe cambiata alle radici la funzione.
In questo scenario inquietante, che in questi mesi abbiamo iniziato a intravedere sotto i nostri occhi, il rapporto tra élites e cittadini verrebbe gestito attraverso il sistema mediatico. Tutto il dibattito pubblico dovrebbe spostarsi dalla società e dalle istituzioni dentro i media: in quella sede verrebbero segnalati i problemi, comunicata l’agenda, proposte le soluzioni, rassicurati i dubbi dei cittadini offrendo anche un canale di sfogo al loro dissenso e alla loro rabbia. La politica e i partiti stessi diventerebbero solo una componente del teatro mediatico: essi, privati del rapporto vivo con
pezzi di popolo, dovrebbero svolgere la funzione di un semplice ammortizzatore che attutisce i contraccolpi provocati nell’opinione pubblica dalle decisioni delle élites. Agli esponenti politici resterebbe il ruolo di inscenare il conflitto virtuale nel sistema mediatico: qualche acceso confronto
nelle tribune televisive è garanzia che il disagio dei cittadini possa trovare momenti e percorsi di identificazione e rassicurazione. Vi è però un limite invalicabile oltre il quale non potrebbero andare: trasformare le opinioni e il disagio in una volontà politica che urti gli interessi dei “mercati”.
La vita pubblica, o meglio quel tanto che di essa resterebbe, verrebbe traslocata nel sistema mediatico. I media, notoriamente, non sono avari: essi offrono un flusso informativo in funzione permanente, ventiquattr’ore su ventiquattro, che raggiunge tutti e dappertutto. Essi si muovono seguendo la doppia logica dell’omologazione e dell’irrequietezza: semplificano e banalizzano ma sono pur sempre assai generosi di ogni tipo di informazioni. Nell’immensa galassia mediatica c’è di tutto: ognuno potrebbe trovare la propria nicchia, ascoltare ciò che vuole sentire e perfino far circolare la propria opinione. Ai cittadini, trasformati in spettatori e in pubblico, verrebbe quindi offerto l’immenso palcoscenico dei media, dove abbonda ogni tipo di entertainment: ciò che
verrebbe loro interdetto, che verrebbe bloccato sul nascere, è la possibilità di trasformare valutazioni e desideri in volontà politica.
Il rapporto medium e pubblico regalerebbe anche l’illusione della partecipazione. Grazie alle nuove tecnologie della comunicazione i cittadini possono ricorrere come e quando vogliono anche all’autocomunicazione, ovvero alla possibilità di manifestare in Rete in qualunque momento la
propria opinione. Essi possono esprimere anche dissenso, disagio e perfino rabbia: l’importante è che vengano sterilizzati gli strumenti e i canali attraverso cui i cittadini possono dare peso alla loro volontà.
Si tratta di uno scenario estremo di cui purtroppo si possono ormai rintracciare mille e mille segnali. Il vero problema è che il singolo cittadino per contare sulla scena pubblica deve incontrarsi e unirsi con altri che hanno i suoi stessi interessi e i suoi stessi valori, ovvero ha bisogno di un corpo

intermedio che gli permetta di fare pesare la sua volontà. Quanto accaduto nel 2011 segnala che la sterilizzazione e lo svuotamento dei corpi intermedi è in fase avanzata: se questa tendenza non viene bloccata e invertita, inesorabilmente si accelera l’evoluzione verso una forma di democrazia nella quale ai cittadini è riservato il ruolo di spettatori passivizzati e nella quale il potere è esercitato direttamente dai rappresentanti della nuova élite. Proprio come abbiamo sottolineato nei capitoli precedenti: finanza e media, in intima correlazione, hanno raggiunto un potere tale che permette loro di ridefinire i poteri e la natura stessa della vita democratica







Brano tratto dal saggio Indignarsi è giusto, Mimesis edizioni, Milano, 2012.




Ferruccio Capelli
Ferruccio Capelli è il Direttore della Casa della Cultura di Milano.




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