Ricordo che la nonna di mia moglie era morta da poco tempo, quando ci arrivò in casa il suo uccellino, una specie di passerotto magro dalle piume marroni, ben pettinate. Io non l’avevo mai visto prima, Francesca sì e diceva che cantasse assai bene, anche se sotto ai nostri occhi se ne stava buono buono e muto. Essendo pure in là cogli anni, lo portammo subito in visita da un esperto: già si dice degli uccelli che portino male – e la nonna, per di più, era stata molto superstiziosa (tanto che mia moglie non aveva granché gradito quell’imprevista eredità) – figuriamoci degli uccelli malati! Invece no, stava benone. L’esperto si complimentò subito con noi per la bellezza dell’esemplare e, nonostante la vecchiezza, per la pulizia del canto (con lui si era esibito). Si raccomandò di non alimentarlo troppo, perché il suo organismo era sempre quello di un vecchietto. Tornati a casa, piantai un chiodo nella parete della cucina e vi appesi la casetta del pennuto. Poi rimasi lì sotto ad aspettare che si decidesse a uscire, o anche che facesse una cantatina per noi, senza uscire dal nido. Francesca resistette al mio fianco un cinque minuti e poi uscì dalla stanza, scuotendo la testa. La mia capatosta, però, fu ricompensata. Con uno scatto metallico la lancetta dei minuti saltò sulle 12 e subito la pennuta eredità si fiondò fuori dall’uscio per cantare. Fece avanti e indietro sei volte di seguito, poi non volle più saperne fino alla mezzora successiva, e a quella dopo, e poi ancora, ogni trenta minuti, martellante e importuna. Oscena, persino, con quel suo avanti e indietro sinuoso e ficcante. Mi rigirai a guardare mia moglie (s’erano fatte le quattro del mattino) e non saprei descrivere a parole lo sguardo che mi lanciò dal suo cuscino, appena rischiarato da una fioca abat-jour. Infilai le pantofole e mi avviai a fare quel che si doveva. È stato l’unico animale che abbiamo mai tenuto in casa.