Torna alla homepage

Sagarana AYA E MAHMUD


Brano tratto dal romanzo Vertigo


Ahmed Mourad


AYA E MAHMUD



 

(…) Aya era magra, con i capelli neri, un naso delicato e sopracciglia che sembravano disegnate. Si era laureata in sociologia e lavorava come segretaria per una ditta di import-export nel quartiere di Shubra, facilmente raggiungibile in metropolitana da Sayyida Zeinab, dove Aya, da quando era morta la madre, viveva con il fratello. Era innamorata di Mahmud sin dai tempi della scuola
superiore. Si trattava di quel genere di amore non dichiarato che era passato dagli sguardi dal balcone alle lettere, dagli incontri dopo la scuola ai regali (come l’orsacchiotto di peluche rosso comprato per diciotto lire alla Boutique Valentine, il ciondolo con la scritta NON C’E ALTRO DIO
ALL’INFUORI DI IDDIO E MOHAMMED E IL SUO INVIATO, e il flacone di profumo Touch), per approdare infine alle lunghe telefonate notturne. Poi erano arrivate le passeggiate nei parchi pubblici del Cairo in cui Aya e Mahmud vagavano come pellegrini in visita alle tombe dei santi, le gite in barca sul Nilo, i giri in bicicletta, le furtive strette di mano e gli abbracci irrequieti. Tutto ciò era culminato nel lungo fidanzamento con lo spasimante della porta accanto, ovvero il professor Mahmud, come lo chiamava il portiere dello stabile, che per meta apparteneva a Hagg Hasib, il padre di Mahmud, felice delle venticinque lire mensili che riceveva da ogni appartamento.
Mahmud si era laureato presso un’accademia di informatica e come ogni laureato che si rispetti aveva trovato un impiego lontano anni luce dal suo campo di specializzazione. Aveva lavorato dapprima per una compagnia telefonica, poi per un cambiavalute, mentre nel pomeriggio era
occupato in un negozio di abbigliamento all’ingrosso, di proprietà dello Sheykh Akram, in via al-Muski, nei pressi di Khan al-Khalili. Lo sheykh fece conoscere a Mahmud un universo di cui lui non sapeva nulla. Se prima i suoi interessi, al di là delle sigarette, della musica pop e di certi dubbi
film che guardava con gli amici, erano rimasti confinati alla preghiera del venerdì e delle feste comandate, da quando era in quel negozio aveva iniziato a osservare scrupolosamente gli orari delle cinque preghiere canoniche quotidiane, per le quali si recava in moschea seguendo l’esempio del datore e dei colleghi di lavoro. Aveva abbandonato i vecchi amici, il suo sguardo era sempre rivolto verso il basso e non salutava più le donne del quartiere. Ora accorciava l’orlo degli abiti e dei pantaloni e aveva abbandonato le scarpe in favore di sandali di pelle coi lacci. Una barba incolta
gli incorniciava il viso, e il dentifricio era stato sostituito dal siwàk, il bastoncino usato dal Profeta, mentre il suo vocabolario si era riempito di espressioni come “Che Dio ti conceda ogni bene” e “Che nostro Signore ti doni la fede.”
In seguito aveva abbandonato il lavoro mattutino dal cambiavalute, considerandolo peccaminoso, visto che l’Islam vieta l’usura e i prestiti a interesse, e si era messo a lavorare a tempo pieno per Sheykh Akram. Finché un giorno si fece saltare in aria in piazza Tahrir. No, no, non andò cosi. Non si fece saltare in aria. Mahmud non faceva parte di nessuna cellula terroristica, e il negozio di abiti all’ingrosso apparteneva semplicemente a un gruppo di persone la cui massima aspirazione era avvicinarsi a Dio.
I graduali sintomi di cambiamento in Mahmud avevano ben presto colpito anche Aya. Pian piano venne conquistata alla causa. È naturale che una persona innamorata desideri compiacere l’uomo che ama, soprattutto prima del matrimonio, ovvero prima che lo specchio dell’amore venga offuscato. Cosi Aya interruppe i rapporti con le vecchie amicizie per sostituirle con un gruppo di “sorelle”, per lo più già sposate. Il foulard in testa venne sostituito da un velo più ampio che le copriva il collo, le spalle e il seno. Le mani erano protette da guanti neri, e le sopracciglia incolte e spettinate. Quando il proprietario della ditta in cui lavorava inizio a importare cosmetici, lei lasciò quell’impiego di dubbia morale. Sul suo comodino comparvero libri dalle copertine colorate che recavano l’immagine dell’Anticristo, di Gog e Magog, della tomba, del fuoco e dei serpenti glabri (come se ne esistessero anche di pelosi!).
Anche il suo rapporto con Mahmud fu influenzato da quel cambiamento: divenne fuoco sotto la cenere, fame dopo la sazietà, resa ancor più insopportabile dal fatto che Mahmud era piuttosto tirchio e si rifiutava di pagare le spese per il matrimonio, cosa che aveva trasformato il loro
fidanzamento in tre lunghi anni di prigionia senza nemmeno una data stabilita per le nozze.
Un giorno Aya apri la porta a suo fratello con indosso un niqàb, il velo integrale.
«Che ci fai con quella palandrana addosso?» esclamò Ahmed.
«Vuoi che apra la porta a viso scoperto?»
Il ragazzo entro, appoggio la borsa sulla sedia più vicina, si tolse le scarpe e si sedette per sfilarsi i calzini.
«Allora? Significa che d’ora in poi andrai in giro conciata a quel modo?»
Aya si scopri il viso.
«Ci sto pensando.»
«E io come potrei riconoscerti se ti incontro per strada? Che farai, mi lancerai un segnale? Oppure, meglio ancora, potresti bisbigliarmi una parola d’ordine quando mi passi accanto. Ti va bene “Kukuwawa”?»
«Che il Signore ti guidi sulla retta via!»
«Cos’è, un nuovo insegnamento dello sheykh
«Non c’è bisogno degli insegnamenti di nessuno per portare il niqàb. Nostro Signore, sempre sia lodato, ci ha ordinato di indossarlo. Dovresti saperlo anche tu, se solo avessi studiato un po’ di religione invece di circondarti di tutta quella spazzatura. La fede non consiste solo nella
preghiera e nel digiuno, mio caro Ahmed.»
Aya era ormai abituata al pessimo umore di Ahmed. Suo fratello aveva accettato suo malgrado Mahmud Hasib, e solo perché le loro madri erano amiche. Poi sua madre era morta, lasciando un’insanabile ferita che si andò ad aggiungere a quelle della strage del bar Vertigo, nella quale
aveva perso il suo migliore amico Hossam Munir. Dopo una lite con Selim, il gestore dello studio fotografico dell’albergo, Ahmed si era licenziato, ed era rimasto senza far nulla fino a quando un conoscente non aveva convinto un amico ad assumerlo come fotografo al Casino Paris, sulla via delle Piramidi. Lavorava dalle nove di sera alle sette del mattino. Alle otto tornava a casa, dove ad attenderlo c’era la sorella con le sue solite lamentele per la vita che conduceva e per i suoi guadagni haràm, “illeciti”. Quel giorno, tuttavia, Aya non aveva voglia di provocarlo.
«Vuoi mangiare qualcosa?»
«No, mi basta un bicchiere di latte.»
Aya si tolse il velo e andò in cucina mentre Ahmed accese il televisore e sprofondo nel divano, fissando lo schermo fino a quando Aya non tornò con il latte. Si sedette accanto a lui, lo osservò mentre beveva e attese il momento opportuno per affrontare un argomento sul quale stava riflettendo da molto tempo.
«Mahmud ti saluta.»
Attese invano una risposta.
«Avrebbe voglia di incontrarti, ma i vostri orari non coincidono mai.»
«Digli di passare dal Paris quando stacca dal lavoro.»
«Che Dio ti perdoni!»
«Ti pare che io abbia avuto altre offerte di lavoro e che le abbia rifiutate? Oppure vuoi che vada a vendere reggiseni e mutandine in via al-Muski?»
«Perché non lo sopporti?»
«Perché non è un uomo e non si assume le sue responsabilità.
I soldi ce li ha, perché mai ti ha tenuta sospesa a un filo per tre anni?»
«Non ha abbastanza soldi per comprare un appartamento, e tu lo sai bene.»
«Suo padre possiede una parte del palazzo. Lui potrebbe venderla e sposarti.»
«Facile a dirsi... Ma ci sono altri eredi.»
«Non farti troppe illusioni. Se avesse voluto sposarti l’avrebbe già fatto.»
«È esattamente di questo che volevo parlarti.»
Ahmed sgrano gli occhi.
«Mahmud dice che se vuoi che la facciamo finita con questa situazione, allora potresti aiutarci.»
«Cosa?»
«Dopo il matrimonio ci potremmo trasferire qui.»
«Sapevo che sarebbe arrivato a questo...»
«Tanto prima o poi ce ne saremmo dovuti andare. Il contratto era a nome della mamma e ora lei non c’è più. Il padre di Mahmud vorrà rientrare in possesso dell’appartamento. Ci ha permesso di restare perché e comprensivo. Ma io e Mahmud potremmo vivere qui dopo il matrimonio... D’altronde questa e anche casa mia.»
«Quindi sarei io quello di troppo?»
«Ci potresti aiutare e toglierti il pensiero.»
Ahmed inclino la testa all’indietro e si sfrego gli occhi, poi chiese: «E io? Dove andrò?»
«Tu sei un uomo e ce la puoi fare. Non puoi immaginare quante persone stanno facendo pressione su di me. Non ce la faccio più, Ahmed. Sono tre anni che aspetto di sposarmi e i vicini mi guardano male. Per un ragazzo non è la stessa cosa. Sono sicura che mi capisci.»
Ahmed si alzò in piedi e diede un buffetto alla sorella.
«Ho capito fin troppo bene, Aya.»
Ando nella sua stanza e si richiuse la porta alle spalle.
Alle cinque si vesti, prese la macchina fotografica e si preparò per uscire. Quando entrò nella stanza di Aya, la trovò che stirava.
«Entro la settimana prossima mi troverò un altro posto dove stare.»
Aya non riuscì a trattenere le lacrime. Lo abbracciò, mentre lui le diceva: «Ma se quel grassone ti fa del male, giuro che lo butto giù dalla finestra. Dai, non piangere. Ora vado...»
Durante la settimana successiva accaddero molte cose. Ahmed raccolse e portò via da casa i brandelli della sua vita: una valigia, un computer e altre cianfrusaglie. Aveva chiesto al direttore del Casino Paris di poter usare la piccola stanza accanto alla camera oscura che un tempo era servita da ripostiglio. Il direttore aveva acconsentito dietro il pagamento di cento lire al mese. Dopo aver portato quel che rimaneva della sua vita e della sua anima nella sua nuova stanza, andò a salutare la sorella, destinata a una vita silenziosa con Mahmud, o meglio, con Sheykh Mahmud, ora che finalmente erano state celebrate le nozze in un locale diviso da una tenda che separava gli uomini dalle donne.
Ahmed la accompagno alla porta dell’appartamento dei loro genitori, che ormai apparteneva a suo marito, e le mise in mano duecentocinquanta lire, di fatto tutto il denaro che aveva in tasca.
Abbracci, lacrime, un bacio sulla fronte; Aya con il suo bel viso e il trucco vistoso sotto il niqàb, le donne che portavano vassoi di piccioni ripieni e il rumore della porta di casa che veniva chiusa: questi gli ultimi ricordi che rimasero impressi nella memoria di Ahmed, mentre attraversava
il ponte dell’Università diretto al suo nuovo rifugio. (…)






Brano tratto dal romanzo Vertigo, Marsilio editrice, Venezia, 2012. Traduzione di Barbara Teresi.




Ahmed Mourad
Ahmed Mourad, scrittore egiziano, fotografo e design grafico, vive al Cairo.




    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo Nuovi Libri