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Sagarana UN’ALTRA ADOLESCENZA


Brano tratto dal romanzo L’eredità dei corpi


Marco Porru


UN’ALTRA ADOLESCENZA



 

(…) Quella stessa sera, alle ventidue, Rosaria era sul letto matrimoniale della sua stanza, distesa a pancia in su, lo sguardo trasognato e il mento reclinato sul petto, attorniata da tanti angioletti. Ne aveva tantissimi e di dimensioni diverse. Sul comò c’erano quelli in ceramica decorati da lei. Affissi alla testiera del letto, ce n’erano alcuni in plastica gialla fosforescente che luccicavano nella penombra della stanza. Un fazzoletto di seta bordeaux che apparteneva a sua madre avvolgeva l’abat-jour sul comodino, attenuando la luce. Immersa in quello scenario poetico, il viso paffuto di Rosaria, seppure segnato dal tempo, appariva come quello di una ragazza incompiuta. Il suo sguardo corse dal primo angelo sulla destra del comò, fino a uno spazio vuoto. Ne mancava uno perché lo aveva regalato a Gabriele. Piacevano anche a lui gli angeli, ma solo perché gli facevano pensare alle persone buone. Niente di spirituale, le aveva detto. Forse me lo avrà detto per farmi piacere, pensò, per entrare ancora più in confidenza con me. Devo chiedere a Raniero di vedere dove lo ha messo, la prossima volta che andrà a casa sua.
Ma ora basta pensare a Gabriele. Rosaria cercava invano di scacciare dalla sua mente il pensiero fisso di quel ragazzino. Doveva concentrarsi sul Gabriele bambino, pallido, smagrito, con due borse sotto gli occhi troppo profonde per essere di un bambino. Un angioletto che ancora prima di conoscerlo nella sala d’aspetto dell’ospedale, le aveva suscitato curiosità e tenerezza. E solo tenerezza avrebbe dovuto continuare a provare. Nulla di più. Per un bambino che come suo nipote, a otto anni, era stato costretto a frequentare una psicologa. E tenerezza per sua madre che, felice perché la terapia di suo figlio volgeva ormai al termine, molto ingenuamente le aveva confidato di Gabriele che non riusciva a dormire la notte, e di mattina poi aveva pure la forza di andare a scuola. Di un tema in cui aveva scritto che suo padre era geloso e invidioso di lui. La scuola aveva chiesto di parlare subito con la famiglia, poi erano intervenuti gli assistenti sociali.
Rosaria provava disagio di fronte alle confidenze di quella donna, che parlava dei problemi del figlio come se si trattasse di un’influenza. Eppure quella storia l’aveva catturata. Voleva sapere come stava quel bambino, se aveva ragione, e se suo padre era davvero geloso come pensava lui. Forse stava chiedendo aiuto, quello che lei da piccola non aveva fatto. Poi l’aveva visto uscire da una porta e raggiungere la madre. Non le somigliava per niente: era bianco, sembrava trasparente, gli occhi grandi e sognanti, con le vene che gli affioravano dalla fronte e dalle tempie.
Rosaria aveva avuto la sensazione che quel bambino non dovesse esistere, che non era questo mondo la sua collocazione, men che meno nella sua famiglia. Per un attimo le era parso di rivedere sé stessa, da piccola. Aveva trattenuto il respiro. Si era sentita oppressa. Voleva lasciare subito quella sala d’aspetto, ma aveva i piedi inchiodati a terra. Quel bambino l’aveva così ipnotizzata che s’era dimenticata che Raniero era dentro con la psicologa e chissà quanto doveva essere agitato. Gli aveva sorriso, ma Gabriele si era girato dall’altra parte, infastidito, come se sapesse che sua madre le aveva appena raccontato di lui. Lo aveva rivisto, poi un’altra volta, e poi un’altra ancora, quando aveva deciso di farlo entrare nella sua vita e in quella di Raniero. Ma dovevano rimanere lei, il suo bambino e l’amico del suo bambino. Per sempre. Così non si sarebbe sentita una povera pazza squilibrata anche quella sera. Ma per sempre non esiste, e mentre Raniero e Gabriele, dopo essere stati compagni di gioco, s’apprestavano a diventare uomini, lei si scopriva per la prima volta donna. Il bambino che aveva idealizzato sette anni fa in ospedale, adesso, quindicenne, era un ragazzino di fronte al cui candore si sentiva come una madre, ma la potenza sessuale che lui emanava glielo faceva desiderare carnalmente, e lei si sentiva viva, libera, con una frenesia da adolescente mai provata prima.
Com’era potuto accadere? Era una cosa bellissima. Il riscatto di una giovinezza mancata. Ma c’era un problema: voleva Gabriele. Nessun altro. E quando il desiderio di averlo dentro di sé la investiva in modo incontenibile, Rosaria non riusciva più ad accontentarsi delle piacevoli conversazioni con lui, perché queste le appagavano solo la mente. Ora anche il suo corpo desiderava possederlo, il suo sesso le pungeva da morire e reclamava, annunciandole che era proprio lui il prescelto, quello con cui fondersi per condividere il piacere, che le ricordava che il corpo serve per amare, gioire e godere, non solo per soffrire. Quello con cui avrebbe raggiunto finalmente la sua essenza sommersa, finita chissà dove dentro di lei.
Ma lei era brutta, una donna consumata non dalla vita ma dal tempo. Non poteva insegnargli né il sesso né come amare. Non poteva insegnargli niente. E lui era troppo intelligente per non averlo capito.
Allora cosa vuole veramente? Perché fa di tutto per ritagliarsi un po’ di spazio con me? E perché mi spoglia con lo sguardo? Forse sono solo io che lo accetto completamente, forse con me si trova bene perché può parlare di tutto. Il divario culturale tra lui e i suoi genitori è troppo profondo, ed è per questo che lui si è tanto attaccato a me. Non c’è nient’altro. Sono io che lo amo, che lo spoglio con lo sguardo, immaginandolo sopra di me, le sue spalle larghe e il torso perfetto e glabro sopra il mio ventre smagliato. La testa fra i miei seni, il suo pene giovane e duro che si muove dentro di me, e spinge, affonda sempre più nelle mie viscere. E io mi sento piena, mi piace sentirlo dentro di me, ma siccome voglio vedere tutto di lui, allora scivola via dalla mia vagina imputridita. Ormai è da ore che ci guazza dentro. Si mette in piedi sul letto tra le mie cosce aperte, e mi sorride. Ha gli occhi chiusi e, anche se so che sta pensando solo a sé stesso, io sono al settimo cielo. Se mi guardasse perderebbe l’eccitazione. Deve rimanere virile, vivo. Sarà il tempo che lo costringerà a rilassarsi, poi a marcire, a puzzare come me. Lui geme, forte, altro che gli ansimi che emette quando non ci sono e sicuramente si porta qualche ragazzina a casa mia. E io lo osservo in silenzio mentre ne violenta il corpo ancora acerbo, e gli pretende il piacere. L’ondata del suo sperma mi cola dalla fronte fino a scendere sulla bocca. Rimango immobile, faccio fatica a non leccarmi le labbra per assaporarne un po’. Il suo nettare non è amaro, né salato. Lui non ha colpe, delusioni, rimpianti, ha solo da dare, perché il tempo gioca a suo favore.
Dio ti prego, sussurrò. Abbi pietà di me, perché lo amo.
Rosaria sfilò le dita dalla vagina. Era di nuovo sola, schifata dal suo desiderio e dal piacere che per l’ennesima volta l’aveva sottomessa. Allo slancio vitale e alla libidine sfrenata, seguiva puntualmente un enorme senso di colpa. Si passò una mano sul petto, a scatti, per cercare il battito del cuore ma non lo trovò. La mano scivolò lungo il collo, le spalle, le braccia e le gambe. Ebbe paura che poco a poco le vene degli arti sarebbero rimaste senza sangue perché il cuore avrebbe smesso di pomparne, e che tutto sarebbe andato in cancrena. Provò l’orribile sensazione di non essere più in questo mondo, e l’angoscia le schiacciò il diaframma mozzandole il respiro. Allora si concentrò sugli angioletti, inspirando ed espirando profondamente.
S’alzò prepotentemente dal letto e andò in bagno a lavarsi. Tornò in camera, aprì l’anta dell’armadio chiusa a chiave e prese il baratto, il settimanale sardo che contiene annunci di chi vende o affitta immobili, di chi cerca e offre lavoro. Scorse i tantissimi annunci di persone che cercavano amore o incontri di sesso, e iniziò a leggere l’ultimo paragrafo della pagina aperta (…)






Brano tratto dal romanzo L’eredità dei corpi. Nutrimenti edizioni, Roma, 2012.




Marco Porru
Marco Porru, cagliaritano, classe 1979, vive a Roma e lavora per il cinema. È autore della sceneggiatura del film I bambini della sua vita, diretto da Peter Marcias, per cui Piera Degli Esposti ha vinto il Globo d'Oro 2011 ed è stata premiata al XII Festival del cinema europeo. Con L'eredità dei corpi, il suo esordio narrativo, è stato finalista al Premio Italo Calvino 2011.




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