SMARRIMENTI Brano tratto dal romanzo La figlia oscura Elena Ferrante
(…) Dormii un minuto, dieci. Quando mi svegliai, mi tirai su stordita. Vidi che il cielo era diventato bianco, una biacca calda. L'aria era ferma, la folla era aumentata, c'era un clamore di musica ed esseri umani. In quella calca domenicale, come per una sorta di richiamo segreto, la prima persona che mi saltò agli occhi fu Nina.
Le stava succedendo qualcosa. Si muoveva piano tra gli ombrelloni, incerta, annaspava con la bocca. Girò la testa da un lato, dall'altro, quasi di scatto, come un uccello in allarme. Disse chissaché a sé stessa, da dov'ero non potevo sentire, poi si mosse di corsa verso il marito che se ne stava su una sdraio sotto l'ombrellone.
L'uomo balzò in piedi, si guardò intorno. Il vecchio arcigno lo tirò per un braccio, lui si divincolò, gli si avvicinò Rosaria. Tutti i familiari, grandi e piccoli, cominciarono a guardarsi intorno come se fossero un corpo unico, poi si mossero, si sparpagliarono.
Cominciarono i richiami: Elena, Lenuccia, Lena. Rosaria andò a passi corti ma rapidi verso il mare come se avesse urgenza di fare il bagno. Guardai Nina. Faceva movimenti insensati, si toccava la fronte, prima andava a destra poi tornava bruscamente indietro verso sinistra. Era come se dal fondo delle viscere qualcosa le stesse aspirando la vita dal viso. La pelle le diventò gialla, gli occhi mobilissimi erano pazzi d'ansia. Non trovava la bambina, l'aveva persa.
Ricomparirà, pensai, ero pratica di smarrimenti. Mia madre diceva che non facevo che perdermi, da piccola. Un attimo e sparivo, bisognava correre allo stabilimento e chiedere che si dicesse all'altoparlante com'ero fatta, che mi chiamavo così e così, e lei intanto si metteva in attesa presso la cassa. Non mi ricordavo niente di quel mio sparire, avevo altre cose nella memoria. Temevo che fosse mia madre a perdersi, vivevo nell'ansia di non riuscire più a trovarla. Ricordavo invece nitidamente quando avevo perso Bianca. Correvo per la spiaggia come Nina adesso, ma avevo Marta in braccio che strepitava. Non sapevo che fare, ero sola con le due piccole, mio marito era all'estero, non conoscevo nessuno. Un figlio, sì, è un gorgo d'ansie. M'era rimasto impresso che cercavo con lo sguardo dappertutto tranne che verso il mare, l'acqua non osavo nemmeno guardarla.
Mi accorsi che Nina stava facendo lo stesso. Frugava dovunque ma volgeva disperatamente le spalle al mare, e allora sentii un'improvvisa commozione, mi venne da piangere. Da quel momento non riuscii più a starmene da parte, trovai insopportabile che la folla della spiaggia non facesse nemmeno caso alla ricerca frenetica dei napoletani. Ci sono guizzi che nessun grafico può riprodurre, un movimento è luminoso, l'altro nero. Loro che sembravano così autonomi, così prepotenti, mi sembrarono fragili. Ammirai Rosaria, l'unica che scrutava il mare. Si muoveva col ventre grande, a passi veloci ma brevi, lungo la riva. Mi alzai allora, raggiunsi Nina, le sfiorai un braccio. Lei si girò di scatto, un movimento di serpe, gridò l'hai trovata, mi parlò col tu come se ci conoscessimo anche se non ci eravamo mai rivolte la parola.
«Ha in testa il tuo cappello» le dissi, «si troverà, la vedremo facilmente».
Mi guardò incerta, poi fece cenno di sì, corse nella direzione in cui era sparito il marito. Correva come una giovane atleta in gara con la buona o la cattiva sorte.
Io mi avviai nella direzione opposta, lungo la prima fila di ombrelloni, a passo lento. Mi sembrava di essere Elena, o Bianca quando si era persa, ma forse ero solo io stessa da piccola che stavo risalendo dall'oblio. La bambina che si perde tra la folla sulla spiaggia vede ogni cosa immutata e tuttavia non riconosce più niente. Le manca l'orientamento, qualcosa che prima rendeva bagnanti e ombrelloni riconoscibili. La bambina si sente esattamente dov'era e tuttavia non sa dov'è. La bambina si guarda intorno con occhi spaventati e vede che il mare è il mare, la spiaggia è la spiaggia, la gente è la gente, il venditore del cocco fresco è proprio il venditore del cocco fresco. Tuttavia ogni cosa o persona le è estranea e allora piange. All'adulto sconosciuto che le chiede cosa c'è, perché piange, non dice che si è persa, dice che non trova più la mamma. Bianca piangeva quando l'avevano ritrovata, quando me la riportarono. Piangevo anche io, per la felicità, per il sollievo, ma intanto gridavo di rabbia – come mia madre – per il peso schiacciante della responsabilità, per il legame che strozza, e strattonavo la mia primogenita con il braccio libero, urlavo: me la pagherai, Bianca, vedrai a casa, non ti devi allontanare mai più – mai più.
Camminai per un po' cercando tra i bambini soli, in gruppo, in braccio ad adulti. Mi sentivo in subbuglio, avevo un po' di nausea, ma sapevo prestare attenzione.
Vidi infine il cappello di paglia, ebbi un tuffo al cuore. Da lontano sembrava abbandonato sulla sabbia, invece sotto c'era Elena. Se ne stava seduta a un metro dall'acqua, la gente le passava accanto senza farle caso, piangeva, un flusso lento di lacrime silenziose. Non mi disse che aveva perso la mamma, mi disse che aveva perso la bambola. Era disperata.
La presi in braccio, tornai a passo svelto verso lo stabilimento. Incrociai Rosaria che quasi me la strappò via con un furore entusiastico, gridò di gioia, fece segni alla cognata. Nina ci vide, vide la figlia, accorse. Accorse anche suo marito, tutti, chi dalle dune, chi dallo stabilimento, chi dalla riva. Ogni membro della famiglia voleva baciare, abbracciare, sfiorare Elena, anche se lei seguitava a disperarsi, e assaporare una sua soddisfazione per il pericolo scampato.
Io mi ritrassi, tornai all'ombrellone, cominciai a raccogliere le mie cose anche se non erano nemmeno le due del pomeriggio. Non mi piaceva che il pianto di Elena seguitasse. Vidi che il gruppo la festeggiava, le donne la tolsero alla madre e se la passarono di mano in mano per cercare di acquietarla, ma senza successo, la bambina era inconsolabile.
Nina mi raggiunse. Subito dopo arrivò anche Rosaria, pareva fiera di essere stata la prima a stabilire un rapporto con me, che ero stata così decisiva.
«Volevo ringraziarla» disse Nina.
«È stato un bello spavento».
«Mi sono sentita morire».
«Mia figlia si perse proprio una domenica d'agosto, quasi venti anni fa, ma io non vedevo niente, l'angoscia acceca. In questi casi sono più utili gli estranei».
«Meno male che c'eravate voi» disse Rosaria, «succedono tante cose brutte». Poi evidentemente le cadde lo sguardo sulla mia schiena, perché esclamò con un moto d'orrore: «Madonna mia, che vi siete fatta qua dietro, che è stato?».
«Una pigna, nella pineta».
«Com'è brutto, non vi siete messa niente?».
Volle andare a prendere una sua pomata, disse che era miracolosa. Nina e io restammo sole, ci arrivavano insistenti le grida della bambina.
«Non si calma» dissi.
Nina sorrise.
«È una brutta giornata: abbiamo trovato lei e s'è persa la bambola».
«La troverete».
«Certo, se non si trova come si fa, mi si ammala».
Sentii un'improvvisa sensazione di freddo alla schiena, Rosaria mi era arrivata silenziosamente alle spalle e già mi stava spalmando la sua crema.
«Come va?».
«Bene, grazie».
Seguitò con sollecita delicatezza. Quando ebbe terminato, infilai il vestito sul costume, presi la borsa. «A domani» dissi, avevo fretta di andarmene. «Vedrete che vi passa tutto già stasera».
«Sì».
Guardai ancora per un attimo Elena che si dimenava e torceva in braccio al padre, invocando alternativamente la madre e la bambola.
«Muoviamoci» disse Rosaria alla cognata, «troviamogli la pupata che non la posso sentire più quella che strilla». Nina mi fece un cenno di saluto, scappò via verso la figlia Rosaria invece cominciò subito a chiedere a bambini e genitori, frugando intanto senza permesso tra i giocattoli ammucchiati sotto gli ombrelloni.
Risalii per le dune, entrai nella pineta, ma anche lì mi parve di sentire le urla della bambina. Ero confusa, mi portai una mano al petto per calmare il cuore che correva troppo. La bambola l'avevo presa io, era nella borsa. Brano tratto dal romanzo La figlia oscura, edizioni e/o, Roma, 2006. Elena Ferrante è lo pseudonimo di una scrittrice o scrittore di cui si ignora la vera identità. Di lei si sa che sarebbe nata a Napoli, città che avrebbe abbandonato presto per vivere a lungo all’estero. Dal suo primo romanzo, L'amore molesto, è stato tratto l’omonimo film di Mario Martone, in concorso al 48º Festival di Cannes. Dal romanzo successivo, I giorni dell'abbandono, è stata realizzata la pellicola di Roberto Faenza. Nel volume La frantumaglia racconta la sua esperienza di scrittrice.
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