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Sagarana UNA TORTA ACIDA E SALATA


Brano tratto dal romanzo Un segno invisibile e mio


Aimee Bender


UNA TORTA ACIDA E SALATA



 

(…) Queste case le conoscevo tutte per filo e per segno. Crescendo avevo avuto modo di conoscere tutti i vicini. Il signor Jones abitava alla destra dei miei, ma sulla sinistra abitava una donna anziana, la signora Finch. Per anni e anni continuò a preparare delle pessime torte che portava ai vicini in occasione dei compleanni, senza mai dimenticarsene uno, aspettando sulla porta fino a che non le assaggiavamo, annuivamo soddisfatti e sorridevamo tenendo in bocca quel terribile impasto acido e salato.
Mi avvicinai alla sua casa tenendo in equilibrio la testa dell’ascia su una scarpa.
La signora Finch per me era importante. Non perché la conoscessi particolarmente bene, o per via delle torte, che erano pessime. In età più avanzata aveva smesso di farne, e si era trasformata in una signora malaticcia con tanto di bastone, treppiedi per sostenersi e sedia a rotelle – tutte e tre le cose – così che non fu una gran sorpresa per nessuno quando morì. Io a quel tempo avevo dodici anni e due dei miei nonni erano morti, quindi avevo già una certa familiarità con la morte, in particolare con la morte degli anziani.
L’evento degno di nota era accaduto il giorno prima che morisse. Passavo davanti a casa sua in sella alla mia bicicletta, avanti e indietro sul marciapiede, troppo fifona per scendere in strada e dirigermi verso il centro del paese. Restavo sul marciapiede anche se i pedoni di passaggio mi lanciavano delle occhiatacce. Ogni volta che montavo in bicicletta sentivo che sarebbe bastato un attimo per volare sopra al manubrio: presa da vertigini, poi vertigini più forti, poi morta.
Passando, avevo colto con lo sguardo sul prato della signora Finch un foglio di carta da macellaio avvolto al tronco di un albero, e sulla carta da macellaio c’era un numero, stampato in inchiostro nero. Il numero era l’84. Mi ricordo che l’avevo guardato e mi ero chiesta perché il suo indirizzo fosse tanto più corto del nostro, e perché lei l’avesse appiccicato a un albero, o se fosse stato il signor Jones a metterlo lì in un momento di ottimo umore, e poi avevo deciso fra me che non si trattava affatto dell’indirizzo né del signor Jones e avevo passato più o meno un minuto buono a pensarci su – perché stava lì? – saltando mentalmente di palo in frasca, pedalando a più non posso, tamburellando sul tronco degli alberi, rimuginando pensieri che non avrei mai più ripensato, pensieri che nascevano per non essere ricordati, se non fosse successo che la settimana seguente lei morì e il necrologio riferì che aveva 84 anni.
Fissai i caratteri stampati sul giornale, e il numero sulla carta da macellaio mi si accese in mente.
C’erano una bellezza e un senso di ordine che mi piacevano. Lo trovavo strano, ma trovavo anche che fosse perfetto.
Strappai il necrologio dal giornale e lo misi da parte. Lo riposi nel cassetto del mio comodino di legno che tenevo apposta per gli oggetti speciali, dove condivideva lo spazio con l’ometto di plastica in posizione di corsa, una cartina di gomma da masticare scritta in spagnolo e la pagina stropicciata del catalogo di biancheria intima della zia che non ero stata capace di gettare via. I compleanni passavano e nessuno ricevette più una torta acida e salata in regalo. Mi dimenticai del tutto l’84 fino a quando un evento simile non accadde daccapo, e stavolta in modo molto peggiore.
Di fronte alla signora Finch c’era una casona gialla dall’aspetto amichevole. Adesso lì ci abitava qualcun altro, una famiglia con undici gatti, ma quando ero ragazzina era lì che abitavano gli Stuart. Erano persone alte e molto simpatiche, anche se non amavamo particolarmente il campanello della mia bicicletta e si erano piuttosto innervositi una volta che senza pensarci avevo spiccato una delle loro stupende rose dorate per mettermela tra i capelli. Avevano tre figli più o meno della mia età, più uno nuovo, una neonata nuova di zecca, rosa e carnosa stesa su una coperta, con le dita tutte arricciate. Io avevo tredici anni un pomeriggio che me ne andavo in bicicletta sul marciapiede, quando vidi una bandiera sventolare nel giardino degli Stuart. Era una bandiera con un cerchio, un grosso 0 nero. Mi ricordo di aver immaginato che appartenessero a chissà quale strana religione che venerava gli 0. Passai un minuto buono pensando agli 0, a quel che significavano, agli pneumatici, agli anelli, all’eclissi di luna.
Mi venne una vampata di paura prima di addormentarmi, ma così rapida che nemmeno quella me la sarei mai ricordata.
La settimana successiva la neonata morì. Era nella culla e la signora Stuart era uscita dalla stanza e al suo ritorno la piccoletta non respirava più. Tutto lì. Lei l’aveva fatta venire al mondo; e quella era scappata via. Non le era piaciuto il mondo. Se n’era andata. La signora Stuart l’aveva scossa più volte, pare che lei non l’abbia mai CAPITO; continuava a fissarla con gli occhi sbarrati e a fare domande, faceva domande alla piccoletta: Stai bene? Che succede? Piccoletta? Lei non era altro che punti di domanda e non riusciva a capire, ma io sì; io avevo capito. Mi ricordavo lo 0.
Avrei potuto avvisarli? Cosa avrei potuto dire? Smisi di andare in bicicletta. La lasciai appoggiata a una delle pareti laterali del garage. Le automobili formavano una coda davanti alla casa degli Stuart e la gente scendeva e andava a bussare alla porta, tenendo strette al cuore delle pirofile colme di sformato, cibo caldo dentro il vetro, inzuppandosi di vapore le camicie. La bandiera con lo zero mi sventolava e mi si agitava nella testa. Non ero capace di cucinare uno sformato e non ho mai più parlato con gli Stuart. Però, gli portai una rosa di rimpiazzo, per compensarli di quella che mesi prima avevo sottratto; in un negozio acquistai una rosa rossa a stelo lungo e la conficcai, come un paletto, vicino al loro cespuglio di rose. Una rosa sentinella. Che facesse la guardia contro chi spiccava le rose altrui. Qualche mese dopo gli Stuart e i tre figli ancora vivi si trasferirono da un’altra parte, credo in Florida.
Alcune preoccupazioni rimangono sullo stomaco come cibo avariato. Per lo più se ne stanno tranquille e sonnacchiose, che nemmeno le senti. Oh, bene, può accaderti di pensare. Sono scomparse.
La maratona d’autunno aveva luogo solo una volta all’anno, l’ultima domenica di settembre. Quella domenica – il giorno del mio compleanno, del concime, delle asce, della prima colazione. La corsa attraversava tutti i quartieri, e i piccoli gruppi di corridori del posto passavano mesi ad allenarsi per quel giro della città. Calzoncini sintetici cortissimi, cosce belle muscolose. Scarpe morbide come pantofole.
Nessuno di quelli che conoscevo io faceva mai la maratona. Non mi preparavo una poltroncina pieghevole per assistervi perché non mi andava per niente di veder correre quella gente, di vedere le forme dei muscoli che si muovevano nelle loro gambe come geometria viva. Non mi piaceva pensare all’idea di vincere la gara, ed era sempre quella l’unica cosa che mi veniva in mente quando la guardavo.
Facevo roteare il manico dell’ascia mentre passavo davanti alla casa della signora Finch, davanti alla vecchia casa degli Stuart, superando una poltroncina pieghevole dopo l’altra, quando giunsi a destinazione e vidi, con i bordi che si sollevavano un poco per il vento, un numero d’iscrizione alla maratona posato leggero sul prato davanti a casa dei miei.
Era il 50.
Guardai il pezzo di carta sul prato.
Era il 50, nessun dubbio, identificava il corridore numero cinquanta. Numero nero su carta bianca, bordato d’arancione.
Stavolta non ero in bicicletta. Se avessi provato a montare su una bicicletta i piedi avrebbero strisciato sul cemento. Andai verso il pezzo di carta e lo raccolsi. Era fatto di quella specie di tessuto che non si strappa – non carta, non panno; era fatto di chissà quale materiale tossico prodotto in una fabbrica di uno stato estero, e spedito in scatoloni su una grossa nave di metallo.
Mamma aveva qualche anno più di papà. A luglio aveva compiuto i 53. Lui avrebbe compiuto gli anni tra un mese.
Passai le dita sopra quelle cifre; erano dense, e scure, e certe. 50.
Un tempo pensavo che la morte potesse essere nascosta da qualche parte sul nostro corpo. Acquattata dietro la pupilla come una moneta, infilata sotto un’unghia, allacciata attorno a un polso. Una scheggia scura, affilata; una pallottola pallida, libera. Una cosa diversa per ogni persona.
La durata di ogni vita predefinita. Il giorno della morte, ti si scioglie dentro a tutto il corpo, calda pallina rotta di sali da bagno. Fino a quel momento, attende – chiusa e muta. Se si sapesse dove cercare si riuscirebbe a trovarla, accoccolata nella piega dell’orecchio ad aspettare pazientemente il giorno giusto. Le persone che sopravvivono a spaventosi incidenti d’auto: non era ancora il loro giorno. Le persone che muoiono per quell’unico hamburger andato a male: la pallina di sali da bagno doveva sciogliersi. Me ne sono sempre stata ben alla larga dalle indovine, perché cosa sarebbe successo se una di loro fosse stata un’indovina vera e avesse trovato la pallina? Se te l’avesse fatta scivolare fuori da sotto l’unghia, l’avesse sollevata controluce, e ti avesse detto la verità.
Il tal giorno. Alla tale ora. Tanto ti resta.
Evito le indovine per due ragioni. La prima: e se una mi guardasse e dicesse: Mona, con la voce che le si spegne? Oh povera Mona. L’indovina riesce a dissimulare la compassione. Dice: Morirai giovane, morirai ancora ragazza, senza aver mai trovato un tuo posto nel mondo. Il tuo cuore si fermerà prima di allora.
Esco dalla tenda, spalle cadenti, corpo che mi si paralizza.
Ma sotto a quella vive un’altra paura, la paura meno conosciuta, il rombo dell’alluvione. E se dicesse così? Se dicesse: Oh, Mona, e la voce si librasse alta. Oh Mona, potrebbe dire, quanto vivrai a lungo. Avrai una vita tua e sarà bellissima.
Questo 50 non era per me; io abitavo altrove. Non era per mamma, lei li aveva già passati. (…)






Brano tratto da Un segno invisibile e mio. Traduzione dall’inglese di Damiano Abeni e Martina Testa, minimun fax 2002.




Aimee Bender
Aimee Bender (1969) è autrice del romanzo L’inconfondibile tristezza della torta al limone (minimum fax 2011) e di due raccolte di racconti, Creature ostinate (minimun fax 2006) e Grida il mio nome (Einaudi 2002, di prossima riedizione per minimun fax).




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