PTOSIS Guadalupe Nettel
Il lavoro di mio padre, come quello di molti altri in questa città, è un impiego parassitario. Fotografo di professione, sarebbe morto di fame –e con lui il resto della famiglia– se non fosse stato per la generosa proposta del dottor Ruellan che, oltre ad un salario decente, concedette alla sua imprevedibile ispirazione la possibilità di concentrarsi su un lavoro meccanico, senza grosse complicazioni. Il dottor Ruellan è il miglior chirurgo palpebrale di Parigi, opera nell’Hôpital des 15/20 e la sua clientela è pressoché inesauribile. Alcuni pazienti preferiscono addirittura aspettare un anno per avere un appuntamento con lui piuttosto che andare da un medico meno rinomato. Prima di intervenire il nostro benefattore esige dai suoi pazienti due serie di fotografie: la prima consiste in cinque foto prese da vicino –con gli occhi chiusi e aperti– affinché rimanga una prova delle condizioni precedenti all’operazione. La seconda serie si esegue subito dopo l’intervento, quando la ferita si è già cicatrizzata. Vale a dire, nonostante il lavoro risulti soddisfacente, vediamo i nostri clienti solo due volte nella vita. Tuttavia capita che di tanto in tanto il dottore commetta qualche errore –nessuno, nemmeno lui, è perfetto-: un occhio può rimanere più chiuso dell’altro o, al contrario, troppo aperto. Perciò il cliente ritorna per una nuova serie di fotografie che gli costerà altri trecento euro; d’altronde mio padre non ha colpa per gli errori commessi dal dottore. Nonostante ciò che si possa pensare, l’intervento alle palpebre è molto frequente e le ragioni che spingono a farlo sono innumerevoli, cominciando dai danni dell’età, o la vanità della gente che non sopporta i segni della vecchiaia sul viso; ma anche gli incidenti automobilistici, che spesso sfigurano i passeggeri, le esplosioni, gli incendi e tutta una serie di altri imprevisti: la pelle della palpebra è di un’insospettabile delicatezza.
Nel nostro studio, vicino a Place Gambetta, ci sono alcune foto incorniciate fatte da mio padre quando era giovane: un ponte medievale, una zingara mentre stende i vestiti vicino alla sua roulotte o una scultura esposta nei giardini del Lussemburgo, che gli fece vincere un premio giovanile nella città di Rennes. Basta guardarle per sapere che, in un’epoca lontana, mio padre aveva talento. Appese alle pareti si trovano anche opere più recenti: il viso di uno splendido bambino che morì durante un intervento a Ruellan (un problema di anestesia), il cui corpo risplende sul tavolo operatorio, bagnato da una luce molto chiara, quasi celestiale, che entra in modo obliquo da una delle finestre.
Cominciai a lavorare nello studio all’età di quindici anni, quando decisi di lasciare la scuola. Mio padre aveva bisogno di un aiutante e m’incorporò alla sua équipe. Iniziai quindi il mestiere di fotografo medico specializzato in oftalmologia. Anche se poi, con il passare del tempo, iniziai a occuparmi del lavoro d’ufficio, fra cui la contabilità. Poche volte sono andato in città o in campagna alla ricerca di una scena che ispirasse la mia lente velleitaria. Quando passeggio, lo faccio generalmente senza macchina fotografica, a volte perché me la dimentico o perché ho paura di perderla. Tuttavia confesso che di frequente, mentre cammino per la città o i corridoi di un edificio, provo il desiderio repentino di scattare una foto, non tanto di paesaggi o di ponti come aveva fatto mio padre, ma di palpebre insolite che di tanto in tanto scorgo tra la folla. Questa parte del corpo che ho visto fin dall’infanzia, e della quale non mi sono mai stancato, mi sembra affascinante. Esibita e occultata a intermittenza, ti obbliga a rimanere in allerta per scoprire qualcosa di cui veramente valga la pena. Il fotografo deve evitare di sbattere le palpebre quando lo fa il soggetto di studio e catturare il momento in cui l’occhio si chiude come un’ostrica giocherellona. Sono arrivato a credere che sia necessaria un’intuizione speciale, come quella di un cacciatore d’insetti, non credo che ci sia molta differenza fra uno sbattere di ali e di palpebre.
Mi considero parte di un’esigua percentuale di persone che ama il proprio lavoro, e per questo mi sento fortunato. Ma ciò non deve causare confusione: il nostro lavoro ha anche qualche inconveniente. Dallo studio passa tutta una classe d’individui, il più delle volte in situazioni disperate. Le palpebre che arrivano fin qui sono quasi tutte orribili, e quando non causano sdegno, fanno pena. Non sorprende che i loro proprietari preferiscano operarsi. Trascorsi i due mesi di convalescenza, quando i pazienti già operati tornano per la seconda serie di foto, tiriamo un sospiro di sollievo. Poche volte il miglioramento è del cento per cento, ma il volto e l’espressione del viso cambiano completamente. In apparenza gli occhi restano più equilibrati, tuttavia, a guardarli bene –e soprattutto dopo aver già visto migliaia di volti modificati dalla stessa mano-, si scopre qualcosa di abominevole: in un certo senso, tutti si assomigliano. È come se il dottor Ruellan imprimesse un marchio distintivo sui suoi pazienti, un timbro tenue ma inconfondibile.
Questa professione, così come qualsiasi altra, nonostante i piaceri che offre, finisce per causare indifferenza. Ricordo di aver visto pochi casi veramente memorabili nel nostro lavoro. Quando capita, mi avvicino a mio padre mentre prepara la pellicola nel retrobottega e gli chiedo, sussurrandogli all’orecchio, di poter scattare l’otturatore. Lui me lo concede sempre, sebbene non capisca il perché di questo mio repentino interesse. Una di queste scoperte ebbe luogo poco meno di un anno fa, nel mese di novembre. D’inverno lo studio, situato al piano terra di un’antica fabbrica, diventa irrimediabilmente umido ed è molto meglio uscire nelle intemperie piuttosto che rimanere in quella conca gelida e oscura. Quel pomeriggio mio padre non c’era ed io, morto di freddo accanto alla porta, m’intrattenevo osservando le indecisioni della pioggia, maldicendo un cliente che aveva più di un quarto d’ora di ritardo. Quando alla fine apparve la sua sagoma dietro le inferriate, mi sorprese che fosse così giovane, avrà avuto al massimo vent’anni. Un berretto nero, impermeabile, le copriva la testa e lasciava scivolare le gocce d’acqua lungo i capelli. La sua palpebra sinistra era circa tre millimetri più chiusa di quella destra. Entrambe avevano uno sguardo sognatore, ma la sinistra presentava un’insolita sensualità, sembrava che le stesse pesando. Osservandola m’invase una curiosa sensazione, una specie di piacevole inferiorità che sono solito sperimentare di fronte a donne eccessivamente belle.
Con un’esasperante parsimonia, come se il ritardo non le importasse, si avvicinò per chiedermi a che piano era il fotografo. Sicuramente mi confuse con il portiere.
-È qui- le dissi. – È proprio questa porta-. Aprii il catenaccio e con un gesto esaltato che lei non poteva prevedere accesi tutti i riflettori, come quando in un salone da ballo fa la sua apparizione un membro della casa reale. Non appena entrò nello studio, si tolse il berretto e i suoi lunghi capelli neri sembravano essere l’estensione della pioggia. Come tutti i clienti, mi spiegò che aveva preso un appuntamento con il Dottor Ruellan per risolvere il suo problema.
“Che problema?”, stavo quasi per chiederle. “Lei non ha nessun problema”. Ma mi trattenni. Era così giovane. Non volevo turbarla e preferii fare un commento banale:
-Lei non sembra di Parigi, da dove viene?
-Dalla Piccardia.- Rispose con timidezza, evitando il contatto con il mio sguardo, come di solito fanno tutti i pazienti. Solo che stavolta, invece di gradirlo quest’atteggiamento ostile mi demoralizzò. Avrei fatto qualunque cosa pur di rimanere tutto il pomeriggio a guardare questa palpebra pesante e fragile allo stesso tempo, e avrei fatto ancora di più perché questi occhi si fissassero su di me.
-Le piace Parigi?-. Chiesi, utilizzando un tono falsamente distratto.
-Si, ma non potrò rimanere per molto. In realtà sono venuta solo per l’operazione.
-Parigi la catturerà, può esserne certa. Quando meno se lo aspetta, verrà a vivere qui.
La ragazza sorrise, abbassando la testa.
-Non credo. Vorrei ritornate al più presto a Pontoise, non mi piacerebbe perdere l’anno scolastico.
L’idea che questa donna vivesse in un’altra città fu sufficiente per deprimermi. Iniziai a sentirmi di malumore. In modo repentino, forse un po’ brusco, interruppi la conversazione per andare a prendere la pellicola.
-Si sieda qui.- Le dissi quando ritornai. Mai nella mia vita professionale ero stato così poco cortese. La ragazza si sedette sullo sgabello e scostò i capelli all’indietro facendo risaltare il viso.
-Non so se lei ne sia a conoscenza-, le dissi simulando compassione –ma i risultati non sono mai perfetti. Il suo occhio non sarà mai uguale all’altro. Gliel’ha spiegato il dottore?
Lei acconsentì in silenzio.
-Ma mi disse anche che le due palpebre rimarranno alla stessa altezza. Per me è sufficiente.
Decisi di mostrarle una serie di fotografie di operazioni che non erano andate a buon fine con lo scopo di scoraggiarla. Pensai di dirle che, in ogni caso, sarebbe rimasta con il marchio inconfondibile dei pazienti operati dal Dottor Ruellan, questa tribù di mutanti. Tuttavia, non ne ebbi il coraggio. Senza dire una parola, collocai il telone bianco dietro la sua testa, puntando il riflettore verso i suoi occhi. Al posto dei soliti tre scatti, premetti l’otturatore quindici vote e avrei continuato così fino al tramonto se mio padre non fosse arrivato.
Quando sentii il chiavistello della porta, spensi i proiettori della luce. La giovane si alzò in piedi e si avvicinò al bancone per firmare un assegno, dal quale scorsi il suo nome.
-Mi auguri buona fortuna- disse. –Ci vedremo fra due mesi.
Non posso descrivere lo sconforto nel quale sprofondai quel pomeriggio. Sviluppai immediatamente le fotografie; misi le più convenzionali in una busta con il timbro dell’ospedale e conservai quella che mi sembrò essere la migliore nel cassetto della mia scrivania: uno scatto frontale, sognatore e osceno.
I miei sforzi per dimenticarla furono inutili. Per tre mesi aspettai con autentico terrore che ritornasse per la seconda serie, non volevo assolutamente essere presente. Ogni lunedì sbirciavo nell’agenda di mio padre per sapere quando mi sarei dovuto assentare. Ma lei non venne mai.
Un pomeriggio, all’inizio dell’estate, mentre camminavo lungo il fiume alla ricerca di qualche palpebra interessante, la vidi di nuovo. In quei giorni la corrente della Senna era serena; le pietre riflettevano il suo colore verde scuro e il suo oscillante viavai. Anche lei stava guardando il fiume e per poco non ci scontravamo. Per mia gran sorpresa i suoi occhi continuavano a essere gli stessi. La salutai cortesemente, facendo di tutto per nascondere la mia contentezza, ma dopo un paio di minuti, non riuscii più a trattenermi:
-Ha cambiato idea?- Chiesi, -ha deciso di non operarsi?
-Il dottore ebbe un imprevisto e fu necessario posticipare la data fino alla fine dell’anno scolastico. Domani entrerò in ospedale e dato che non ho nessun parente in città, ci rimarrò due giorni.
-Come vanno i suoi studi?
-La settimana scorsa ho fatto l’esame alla Sorbona. –Rispose sorridendo. –Vorrei trasferirmi a Parigi.
Sembrava contenta. Avvertii nel suo sguardo quell’espressione di speranza che hanno i pazienti alla vigilia di un’operazione chirurgica e che dà un certo candore anche ai volti più deformi.
La invitai a prendere un gelato nell’isola di Saint Louis. Un’orchestra di jazz stava suonando poco lontano e anche se da dove eravamo, non era possibile vedere i musicisti, nel molo le note si sentivano come se emergessero dal fiume. La luce del sole le tingeva le palpebre d’arancione. Camminammo per diverse ore, a volte in silenzio e altre volte parlando di ciò che succedeva durante la passeggiata; della città o del futuro che la aspettava. Se avessi portato la macchina fotografica, adesso avrei qualche prova non solo della donna ideale ma anche del giorno più gioioso della mia vita.
Al tramonto la accompagnai all’hotel dove stava alloggiando, un porcile vicino a Bonne Nouvelle. Passammo la notte insieme in un letto decrepito, con il pericolo costante di cadere a terra. Appena ci svestimmo, i vent’anni di differenza che c’erano tra di noi si fecero più evidenti. Le baciai più volte le palpebre e quando mi stancai di farlo le chiesi di non chiudere gli occhi, per continuare a godere di questi tre millimetri supplementari di palpebra, questi tre millimetri di sconvolgente voluttuosità. Dal primo abbraccio fino al momento in cui, esausto, spensi la lampada da notte, sentii la necessità di convincerla. Perciò, senza nessun tipo di pudore o inibizione, la supplicai di non operarsi, di rimanere con me, così, com’era in questo momento. Ma lei pensò che si trattasse di una smanceria, di una di queste bugie esaltate che si dicono in circostanze come questa.
In pratica non dormimmo quella notte. Se il Dottor Ruellan lo avesse saputo! Lui esige sempre ai suoi pazienti il più assoluto riposo prima dell’intervento. Lei arrivò al padiglione pre-operatorio con delle occhiaie che la facevano sembrare più vecchia e anche più carina.
Fino all’ultimo momento le promisi di accompagnarla e poi, quando si sarebbe ripresa dall’anestesia, sarei immediatamente venuto a prenderla. Ma non mi fu possibile: appena l’infermiera entrò nella stanza per portarla nella sala operatoria, scappai strisciando fino all’ascensore.
Uscii dall’ospedale a pezzi, come chi ha appena subito una sconfitta. Pensai molto a lei il giorno seguente. Me la immaginai svegliandosi sola, in quella stanza ostile che sapeva di disinfettante. Avrei desiderato rimanere lì accanto a lei, e lo avrei fatto se non ci fosse stato così tanto in gioco: i miei ricordi, le mie immagini di quegli occhi che, avendoli visti dopo, identici a quelli di tutti i pazienti del Dottor Ruellan, sarebbero sparite dalla mia memoria.
Alcuni pomeriggi, soprattutto nei periodi austeri quando la clientela non offre nessuna soddisfazione, metto la sua foto sulla mia scrivania e la guardo per qualche minuto. In quel momento m’invade una specie di asfissia e un odio infinito nei confronti del nostro benefattore, come se in un certo senso il suo scalpello mi avesse mutilato. Da allora non sono più uscito con la macchina fotografica, le rive della Senna non mi promettono più nessun mistero. Traduzione dallo Spagnolo di Laura Gandolfi. Guadalupe Nettel (Città del Messico) è considerata una delle figure più promettenti della narrativa contemporanea messicana. Autrice di tre raccolte di racconti, Juegos de artificio, Les jours fossiles e Pétalos y otras historias incómodas, e due romanzi, El huésped, finalista del “Premio Herralde”, e El cuerpo en que nací, Nettel collabora con diverse riviste letterarie messicane e francesi (L'inconvénient, Liberation, Quimera, El Ángel, Letras Libres y El País) e attualmente dirige la rivista Número 0, uno spazio di convergenza fra la letteratura latinoamericana e quella francofona.
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