UNA NOBILDONNA NELL’HAREM Brano tratto da Vita intima e vita nomade in Oriente Cristina di Belgioioso
Il mio vecchio muftì, che all’età di novant’anni ha parecchie mogli, la più anziana delle quali ha trent’anni, e figli di ogni età, dal marmocchio di sei mesi al sessantenne, manifesta una ripugnanza di buon gusto per il baccano, il disordine e la sporcizia dell’harem. Ci va durante il giorno, come va nella scuderia per vedere e ammirare i suoi cavalli, ma abita e dorme, a seconda della stagione, nell’uno o nell’altro dei suoi saloni. Il brav’uomo comprese che se una lunga abitudine non aveva potuto riconciliare lui con gli inconvenienti dell’harem, doveva essere ancora peggio per me, appena sbarcata da quella terra di incanti e raffinatezze che qui viene chiamata Franchistan. Così mi dichiarò innanzitutto che non mi avrebbe relegato in quel luogo di tenebre e di confusione, infetto e pieno di fumo, che si chiama l’harem, e che mi cedeva il suo appartamento. Accettai con riconoscenza. Quanto a lui, si installò nel salone d’estate. Benché fossimo a fine gennaio e la neve coprisse la città e la campagna, preferiva la fontana gelata, il pavimento umido e le correnti d’aria alla calda, ma immonda atmosfera dell’harem.
Distruggo forse qualche illusione parlando con così poco rispetto degli harem.
Abbiamo letto descrizioni degli harem nelle Mille e una notte e in altri racconti orientali; ci è stato detto che in questi luoghi abitano la bellezza e gli amori: siamo autorizzati a credere che le descrizioni pubblicate, benché esagerate e abbellite, siano comunque basate sulla realtà, e che in questi misteriosi ritiri si debbano trovare riunite tutte le meraviglie del lusso, dell'arte, della magnificenza e della voluttà. Quanto siamo lontani dal vero! Immaginate muri anneriti e screpolati, soffitti in legno con crepe qua e là e coperti di polvere e di tele di ragno, sofà strappati e unti, cortine a brandelli, tracce di candela e di olio ovunque. Io che entravo per la prima volta in questi affascinanti ritiri, ne ero sgradevolmente colpita; ma le padrone di casa non se ne accorgevano. La loro persona è conforme al resto. Poiché gli specchi sono molto rari in questo paese, le donne si mettono addosso a casaccio orpelli di cui non possono apprezzare l’effetto bizzarro. Appuntano molte spille di diamanti e pietre preziose su fazzoletti di cotone stampato che avvolgono intorno alla testa. Non c’è niente di meno curato dei loro capelli, e solo le grandi dame che hanno abitato nella capitale hanno dei pettini. Quanto al fard multicolore di cui fanno un uso smodato, possono regolarne la distribuzione solo aiutandosi reciprocamente con i loro consigli, e poiché le donne che abitano la stessa casa sono altrettante rivali, incoraggiano volentieri le une con le altre le più grottesche colorazioni del viso. Si mettono del vermiglio sulle labbra, del rosso sulle guance, sul naso, sulla fronte e sul mento, del bianco a casaccio e come riempitivo, del blu intorno agli occhi e sotto il naso. Ancora più strano è il modo in cui si tingono le sopracciglia. Probabilmente è stato detto loro che, per essere bello, il sopracciglio deve formare un grande arco, ed esse ne hanno concluso che l’arco sarebbe stato tanto più ammirevole, quanto più fosse stato grande, senza chiedersi se il posto di quest’arco non fosse stato irrevocabilmente determinato dalla natura. Così, destinano alle sopracciglia tutto lo spazio esistente da una tempi all’altra, e dipingono sulla fronte due archi immensi che partono dalla radice del naso e se ne vanno ciascuno dalla propria parte sino alla tempia. Ci sono belle ragazze eccentriche che preferiscono la linea diritta a quella curva, e che si tracciano una grande riga nera attraverso la fronte, ma questi sono casi rari.
L’effetto di questo modo di combinarsi combinato con la pigrizia e la mancanza di pulizia innate nelle donne orientali, è indiscutibilmente deplorevole. Ogni viso femminile è un’opera d’arte molto complicata che non si potrebbe rifare ogni mattina. Persino le mani e i piedi, variopinti d’arancione, temono l’azione dell’acqua come nociva per la loro bellezza. Anche il gran numero di bambini e di domestiche, soprattutto negre, che popolano gli harem, e la situazione di parità in cui vivono padrone e domestiche, sono cause aggravanti della sporcizia generale. Non parlerò dei bambini, ognuno conosce il loro modo di comportarsi e le loro abitudini; ma immaginiamo un momento cosa diventerebbe il nostro bell’arredamento europeo, se le nostre cuoche, le nostre donne di servizio, venissero a riposarsi dei loro lavori sui nostri divani, sulle nostre poltrone, con i piedi sui nostri tappeti e la schiena contro le nostre tappezzerie. A ciò aggiungete che in Asia i vetri rappresentano ancora una novità, che la maggior parte delle finestre è chiusa con carta oleata, e che là dove anche la carta è poco diffusa, si rimedia a ciò eliminando completamente le finestre e accontentandosi della luce che penetra dal camino, luce più che sufficiente per fumare, per bere, e per frustare i bambini eccessivamente ribelli: sole occupazioni a cui si dedicano durante il giorno le uri mortali dei fedeli musulmani.
Tuttavia non si creda che faccia poi così buio in queste camere senza finestre. Poiché le case hanno sempre un solo piano e poiché i tubi dei camini non superano mai l’altezza del tetto e sono molto larghi, capita spesso che abbassandosi un po’ davanti al camino si veda il cielo attraverso l’apertura. Ciò che manca completamente, in questi appartamenti, è l’aria; ma queste signore sono ben lontane dal lamentarsi di questo. Freddolose per natura e senza la possibilità di riscaldarsi per mezzo di un’attività, restano per ore intere accoccolate per terra davanti al fuoco, e non si rendono conto che talvolta ci si sente soffocare. Il solo ricordo di queste caverne artificiali, piene di donne trasandate e di bambini maleducati, mi fa star male, e benedico dal più profondo del cuore l’ottimo muftì di Cerkes e la sua straordinaria delicatezza, che mi ha risparmiato un soggiorno di quarantott’ore nel suo harem, tanto più che il suo non era dei meglio tenuti. Tratto da Vita intima e vita nomade in Oriente, traduzione di Olimpia Antoninetti, Ibis, Como-Pavia 1993. Cristina di Belgioioso, o Cristina Trivulzio nasce il 28 giugno 1808 a Milano, da una famiglia nobile e ricchissima. Morto quattro anni dopo il padre, la madre sposa il marchese Alessandro Visconti d’Aragona, mentre Milano vive i tempi tumultuosi del governo napoleonico. Cristina viene educata secondo i moduli dell’aristocrazia lombarda, che prevedono la conoscenza delle lingue, in particolare il francese, e nozioni di geografia e matematica; grazie a Ernesta Bisi, insegnante di disegno, entra in contatto con il mondo delle cospirazioni politiche che agitano la capitale lombarda negli anni successivi al Congresso di Vienna. E’ bella e intelligente, e frequenta la buona società cittadina. A sedici anni sposa il nobile Emilio di Belgioioso, prestante, libertino e sifilitico; il matrimonio è fragile e i due si separano pochi anni dopo, rimanendo però amici per tutta la vita. Cristina frequenta Teresa Confalonieri, Matilde Visconti e la pittrice Bianca Milesi. Le attenzioni della polizia le impongono di trasferirsi: si fa rilasciare il passaporto e si sposta a Genova, poi a Lugano, mentre il governo austriaco comincia a incalzarla e lo stesso Metternich preme perché sia arrestata. Cristina – che corrisponde con lo storico Augustine Thierry - è a Genova quando viene arrestato il gruppo di cospiratori di cui fa parte Mazzini. Fugge verso Nizza evitando la cattura, poi va a Marsiglia; finanzia il piano di insurrezione di Ciro Menotti, vende i gioielli per la causa e la notte cuce coccarde tricolori. Il fallimento dei moti carbonari del 1831 la obbliga a rifugiarsi, priva di ogni mezzo, a Parigi, dove cerca aiuto per gli esuli italiani in Francia. Convince il marchese de Lafayette a intercedere presso l’Austria a favore dei patrioti, mentre la sua azione di propaganda comincia a venir riconosciuta. Lavora come pittrice e scrittrice per il “Costitutionel” e viene ammessa tra le dame di corte, nella Parigi elegante e intellettuale. Si trasferisce nel palazzo del duca de Plaisance e qui può aprire un suo salotto (frequentato tra gli altri da Vincenzo Bellini, Heinrich Heine, Liszt, de Musset). L’Austria torna a interessarsi pesantemente di lei, che stringe amicizia con Madame Jaubert, molto conosciuta alla corte di Luigi Filippo, e con Franz Liszt. Nel 1838 ha una figlia, Maria Gerolama Belgioioso, forse dallo storico François Mignet. Due anni dopo torna nella Milano ormai acquietata e si ritira nelle proprietà di Locate dove apre un asilo e una scuola, ispirandosi alle idee socialisteggianti di Charles Fourier, fa costruire abitazioni, organizza forme di previdenza per i contadini e scrive. I comportamenti progressisti e anticonformisti le attirano la diffidenza dell’aristocrazia milanese, conservatrice e benpensante: Alessandro Manzoni le impedisce di vedere la propria madre Giulia Beccaria. Nel frattempo il marito si allontana definitivamente per vivere con la duchessa de Plaisance. Cristina pubblica la traduzione francese della Scienza nuova di Vico e continua a operare per la causa dell’indipendenza italiana (ma anche per la questione sociale) in prospettiva monarchica e unitaria; negli anni che preparano il Quarantotto, fonda la rivista «Ausonio» sul modello della famosa «Revue des Deux Mondes». Incontra Cavour, Cesare Balbo, Niccolò Tommaseo, Giuseppe Montanelli. Quando scoppiano le Cinque Giornate di Milano è a Roma, dove organizza l’“esercito Belgioioso”, un gruppo di 200 volontari condotti in piroscafo a Genova e da qui a Milano. Poco tempo dopo si unisce ai patrioti della Repubblica Romana, trascorre giorni negli ospedali dove organizza come infermiere – per la prima volta - dame aristocratiche, donne borghesi e anche prostitute: una notizia che, diffusasi anni dopo, scandalizzerà benpensanti e il Papa stesso, al quale Cristina risponderà con rispetto ma fermezza in una lettera aperta. Dopo la sconfitta della Repubblica Romana, l’indomita Cristina s’imbarca a Civitavecchia con la figlia, sbarca a Costantinopoli, arriva in Turchia, dove con un capitale ottenuto in prestito acquista una proprietà, fonda una colonia agricola aperta ai profughi italiani, si interessa della popolazione locale, si guadagna da vivere scrivendo articoli sull’Anatolia, il Libano, la Siria, la Palestina. Nel 1855, ottenuta dall’Austria la restituzione dei propri beni, torna in Italia. Dopo la proclamazione dell’unità d’Italia, nel 1861, la principessa di Belgiojoso lascia l’attività politica e vive tra Milano, Locate e il lago di Como, insieme all’affezionato servo turco Burdoz e alla governante inglese Miss Parker, da molti anni suo compagni di viaggi e d’avventure. Muore nel 1871, a 63 anni, a Locate dove ancora oggi è sepolta. Tra le opere di Cristina di Belgioioso, sono state ripubblicate in tempi recenti Il 1848 a Milano e Venezia e, nello stesso volume, Della presente condizione delle donne e del loro avvenire (Feltrinelli 1977), Ricordi dall'esilio (Paoline 1978), Vita intima e vita nomade in Oriente (Ibis 1993), Emina (Tufani 1997), Un principe curdo (Tufani 1999); Le due mogli di Ismail Bey (Tufani, 2008). Notizie su Cristina si trovano nel sito www.cristinabelgjoso.it (al quale vanno aggiunti almeno la voce a lei dedicata da Elena Doni in www.enciclopediadelledonne.it) nonché nelle opere seguenti: Rachele Farina (a cura di), Dizionario delle donne lombarde, Baldini e Castoldi 1995; H. Remsen Whitehouse, A Revolutionary Princess. Christina Belgiojoso Trivulzio: Her life and times, New York, E.P. Dutton 1906; Arrigo Petacco, La principessa del Nord, Rizzoli 1992; Mino Rossi, Principessa Libertà, Tufani 2006. La principessa di Belgiojoso ha una mente libera e aperta: in una delle Scènes de la vie turque (Le due mogli di Ismail Bey) che pubblica sulla “Revue des Deux Mondes” rappresenta l’astuta vendetta di due mogli forti e intelligenti nei confronti di un marito fedifrago. Tuttavia, l’harem del vecchio muftì di Cerkes, nell’Anatolia centrale, risulta alla nobildonna lombarda – che, tra l’altro, trova inammissibili certe confidenze concesse dalle signore musulmane alle serve - incomprensibile fino al disgusto. (Testo e nota a cura di Milva Cappellini.)
|