LA SFIDA DELLA SCHIAVITù MODERNA Brano tratto dal saggio Economia canaglia Loretta Napoleoni
Oggi la schiavitù ce la ritroviamo un po’ ovunque, anche nel frigorifero.
Dalla frutta alla carne, dallo zucchero al caffè, sono gli schiavi che portano il cibo sulla nostra
tavola. Miguel, uno schiavo messicano liberato dall’organizzazione umanitaria statunitense
Coalition of Immokalee Workers (Ciw), potrebbe aver raccolto le mele che mangiamo a
colazione. Miguel, controllato a vista, raccoglie la frutta negli Stati Uniti. È emigrato
clandestinamente verso el Norte per poter guadagnare i soldi con cui pagare le cure per il figlio
di sei anni malato di cancro, ma il suo datore di lavoro lo ha schiavizzato.
Il cacao della cioccolata fumante che beviamo mentre leggiamo il giornale del mattino potrebbe
provenire dalla Costa d’Avorio, che approvvigiona la metà del mercato mondiale. Qui, i bambini
e gli adolescenti del Mali, addirittura più poveri dei loro coetanei ivoriani, raggiungono a piedi
le piantagioni di cacao per guadagnare un salario di sussistenza. Spesso vengono schiavizzati
nelle remote fattorie degli altipiani. Poveri schiavizzano poveri.
Il diciannovenne Drissa era uno di loro. Nel 2000, alla sua liberazione, aveva da poco superato
un periodo di «addestramento», durante il quale il padrone lo stava abituando alla schiavitù.
Aveva la schiena segnata dalle ferite cicatrizzate delle frustate.
La quasi totalità dei prodotti che consumiamo ha una storia nascosta e oscura. Una storia di
schiavitù e pirateria, contraffazione e frode, furto e riciclaggio di denaro. Sappiamo molto poco
di queste trame segrete dell’economia perché, lo ripetiamo, i consumatori moderni vivono
all’interno di quell’intricata rete di illusioni che è la matrix del mercato.
La prima soluzione che ci viene in mente, quando scopriamo che la nostra cioccolata calda è
prodotta dagli schiavi, è boicottare il cacao della Costa d’Avorio. Dobbiamo però capire che non
è così facile. Questa decisione non aiuterebbe a liberare le migliaia di giovani schiavi come
Drissa, anzi, potrebbe peggiorare la loro vita e danneggiare i coltivatori onesti. «L’Africa è come
un corpo infestato da parassiti. Bisogna stare attenti a non uccidere il corpo per sbarazzarsi dei
parassiti» sintetizza Rico Carish. La sussistenza di milioni di persone dipende da questa
economia parassitaria. Le alternative virtuose potrebbero impoverire e persino uccidere la
gente.
Spesso le aziende occidentali non hanno alcun contatto diretto con i coltivatori. Il commercio
avviene tramite intermediari del posto, distributori e trasportatori. I profitti della schiavitù sono
incorporati nel prodotto e gli intermediari o non lo sanno o non lo vogliono sapere. Bloccare le
importazioni dalla Costa d’Avorio non basta per porre fine alla schiavitù, ma potrebbe far
precipitare nella povertà migliaia di onesti coltivatori con le loro famiglie e far piombare il paese
nell’anarchia. E' già successo in molti stati africani, anche in Congo. Per sradicare il fenomeno
bisogna scavare alla radice, e ricostruire. Solo i governi locali possono farlo. Nel continente
africano, però, anche il buon governo è merce rara.
Nel ventunesimo secolo la schiavitù è una realtà in piena espansione a livello mondiale. Le
Nazioni Unite stimano che la crescita avvenga a un ritmo senza precedenti. Oggi si contano
almeno 27 milioni di schiavi. Questa nuova schiavitù è in grado di produrre, a detta dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), profitti annuali che si aggirano intorno ai 31
miliardi di dollari. L’esplosione demografica e le grandi migrazioni, insieme alla globalizzazione,
hanno incrementato questo mercato. «L’aumento della schiavitù è legato alla globalizzazione»
concorda Kevin Bates, autore di Ending Slavery: How We Will Free Today's Slaves.
Non si tratta dei lavoratori delle fabbriche dello sfruttamento che vivono con salari da fame. Gli
schiavi sono totalmente controllati da un’altra persona, spesso violenta [lo schiavista]; sono
sfruttati economicamente e ricevono solo il cibo sufficiente e un riparo per sopravvivere. La
durezza dell’esperienza di milioni di vittime si discosta poco da quella degli schiavi di centinaia
di anni fa.
La recrudescenza della schiavitù è direttamente correlata al suo costo, che diminuisce da
decenni. Gli schiavi sono a buon mercato. Bates calcola che mentre negli ultimi 3000 anni il
prezzo medio di uno schiavo è passato da 20 000 a 80 000 dollari, oggi la gente può essere
comprata e venduta per un decimo del prezzo. Dopo la Seconda guerra mondiale c’è un
improvviso aumento dell’offerta di schiavi che ne fa crollare il prezzo. Paradossalmente, questo
fenomeno è una delle conseguenze della decolonizzazione. I proprietari di schiavi non sono più
le potenze coloniali ma i loro stessi connazionali. Sono questi gli schiavisti, non le potenze
straniere. Quello che vale per i prodotti, vale anche per gli schiavi: è un mercato regolato dalla
legge della domanda e dell’offerta. E l’offerta abbonda tra i milioni di persone che sopravvivono
con uno o due dollari al giorno.
Oggigiorno c’è una diretta relazione tra democrazia e schiavitù. In altri termini, i due fenomeni
non solo presentano tendenze identiche, ma l’una condiziona l’altra. Durante il processo di
decolonizzazione, mentre le ex colonie conquistano l’indipendenza dalle potenze straniere e
abbracciano la libertà, il numero degli schiavi si moltiplica. L’aumento dell’offerta riduce il
costo, rendendo lo schiavismo un affare molto redditizio.
E noi consumatori viviamo nella beata ignoranza. La matrix del mercato, anche questa volta,
nasconde la natura sfruttatrice del commercio internazionale. Gli scaffali dei supermercati
occidentali sono pieni di articoli prodotti dagli abitanti dei paesi in via di sviluppo, che
percepiscono una frazione infinitesimale del loro prezzo. Se mai noi consumatori decidessimo di
fermarci a riflettere, saremmo scioccati, e certo a disagio, nello scoprire chi intasca la maggior
parte dei profitti della nostra spesa quotidiana. Brano tratto dal saggio Economia canaglia, Il Saggiatore editrice, Milano, 2009. Loretta Napoleoni (Roma, 1955) è un'economista e saggista italiana. Si è occupata dello studio dei sistemi finanziari ed economici attraverso cui il terrorismo finanzia le proprie reti organizzative. Nata e cresciuta a Roma, vive da molti anni nel Regno Unito, a Londra.
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