LA FERITA E LA CARNE: SITUAZIONE Daniele Giglioli
… e l’estremo
L’estremo non è un repertorio tematico – per esempio la violenza, il sangue, l’abiezione, attraverso cui può manifestarsi ma in cui non si risolve. Né un’opzione preferenziale per soluzioni stilistiche di oltranza espressiva – anche se non tutte le forme e i generi ne sono stati ugualmente investiti, come vedremo. E non è nemmeno un archivio di enunciati ideologici, che lo nominano ma non lo circoscrivono, e ne sono determinati più di quanto lo determinino. È piuttosto un movimento, una tensione verso qualcosa che eccede costitutivamente i limiti della rappresentazione. Non perché si incarni in un’alterità incommensurabile, come il selvaggio del racconto d’avventura, il mostro della letteratura fantastica, l’alieno della fantascienza; ma perché è sottoposto all’ingiunzione contraddittoria di essere insieme presente e inafferrabile. È il rappresentante, il porta parola, il luogo-tenente (per parafrasare Heidegger) della vita nell’epoca del trauma senza trauma. Non viene da fuori ma da dentro. Non è altrove; è qui, onnipresente e inafferrabile. Non si presta a entrare nel gioco differenziale che presiede all’ordinato scambio dei segni. Ma proprio perché non ha segni che lo indichino direttamente, genera senza sosta un supplemento di discorso, immaginario, ideologia. È un performativo, un enunciato che produce ciò che dice. È il nome di un’operazione, la traccia scritta di un gesto, il diagramma del rapporto tra una tensione e l’azione in cui si scarica.
Da cosa nasce questa tensione? Da un disagio, da una sofferenza, da una crisi – non cominciata oggi, d’altra parte – dei rapporti tra letteratura e mondo. Molti ostacoli si frappongono a questo matrimonio. Intanto il lutto mai definitivamente elaborato dell’autoreferenzialità modernista e avanguardista, secondo cui l’opera è un messaggio che indica in primo luogo se stesso. Poi l’indebolimento delle barriere tra realtà e finzione che sta dietro a molte delle poetiche postmoderne, con il suo corredo di pastiches, citazioni, ibridazioni, intertestualità forsennate, dissoluzione del soggetto, perdita di profondità. E più in generale quella mescolanza di scetticismo nichilista e di realismo ingenuo che fa da liquido amniotico al senso comune di una società in cui l’immagine del mondo è stata quasi interamente requisita dai mass media. Non crediamo a nulla e ingoiamo di tutto. Ci è quasi impossibile stabilire un ordine di preferenze motivate, una gerarchia verificabile che non sia idiosincratica o al contrario – ma è lo stesso – acriticamente ricevuta. In quella che Antonio Scurati ha chiamato l’età della compiuta “inesperienza”, la realtà si dissolve tra le dita di chiunque voglia raccontarla, stretta com’è tra la Scilla del relativismo (a ciascuno la sua realtà) e la Cariddi del cliché del luogo comune e della ripetizione.
Dalla realtà al Reale
La crisi dell’esperienza non è una novità degli anni zero. La paternità del sintagma si deve a Walter Benjamin. Il Novecento l’ha chiamata in molti modi: disincanto, meccanizzazione, povertà di spirito, inautenticità, malafede, falsa coscienza, reificazione, alienazione, simulacro, spettacolo, irrealtà. Ma ciò che per le generazioni novecentesche era stato possibilità, rischio, timore, è diventato per quelle operanti oggi norma, habitus, altra natura, condizione trascendentale di ogni attività pratica e simbolica. È il nostro ambiente, è la lingua da cui siamo parlati prima ancora di essere in grado di parlarne, così come è solo la pressione dell’acqua a determinare la forma della macchia d’inchiostro emessa dalla seppia per difendersi dai suoi predatori. Di qui l’esigenza di individuare un supplemento, una fessura che permetta di squarciare quel velo di Maia della rappresentazione in cui modernismo e postmodernismo, sia pure con modalità diverse, avevano accettato tragicamente o euforicamente di rinchiudersi. Se la realtà coincide sempre più con la sua rappresentazione, allora bisogna trovare un punto di fuga che la trascenda pur restandole perfettamente complanare. Quel punto di fuga, quel centro di collimazione, facendo tesoro di un distinguo di Jacques Lacan, potremmo chiamarlo il Reale.
A differenza della realtà, il Reale è ciò che resiste testardamente a ogni tentativo di simbolizzazione. È un buco nell’ordine simbolico, è la “cosa” inevitabilmente perduta, muta, ottusa, liscia, impredicabile. È l’incontro che non si può non mancare, è il luogo in cui il linguaggio, quel linguaggio che struttura la realtà per come possiamo conoscerla, finisce, viene meno, perde i suoi poteri. Il Reale ha la natura dell’evento, non del senso, o meglio dell’evento senza senso, traumatico, in quanto non può essere elaborato, simbolizzato, reso nominabile. Un trauma, però, lo abbiamo già detto, che non necessariamente dev’essere accaduto davvero. Anzi. “Nella cultura popolare come nel mondo accademico”, ha scritto un critico d’arte come Hal Foster in un libro intitolato appunto Il ritorno del Reale,
… il concetto di “trauma” scorre liberamente come un significante generico nell’organizzazione della soggettività e della storia stessa. Oggi, alcuni tra gli scrittori e i registi più provocatori concepiscono l’esperienza secondo questa modalità paradossale, ossia come esperienza non vissuta, almeno non puntualmente, perché arriva troppo presto o troppo tardi per essere registrata consapevolmente, e dunque può essere solo ripetuta compulsivamente o rimessa insieme dopo che il fatto è accaduto.
Ora, è precisamente questo che distingue una simile modalità di trauma dallo choc che presiedeva alle poetiche moderniste da Baudelaire a Beckett. La modernità letteraria e artistica si è nutrita di un trauma effettivo – industrializzazione, inurbamento, secolarizzazione, modernizzazione tecnologica, guerre mondiali, armi di distruzione di massa. Il nostro è un trauma fastasmatico, presenza-assenza infondata ed efficace di qualcosa che può arrivare all’essere (e a dire l’essere che lo circonda) solo attraverso la sua continua convocazione immaginaria, prima ancora che nei contenuti, nella sintassi sussultoria, paratattica, non lineare, tutta cut up povera di nessi logici evidenti, dei mezzi di comunicazione di massa. La televisione è stata il nostro Vietnam, un bombardamento di immagini che non generano esperienza ma la requisiscono, rendendola impossibile da descrivere senza il ricorso a immagini che nulla hanno a che fare con l’esistenza quotidiana. Pullula ovunque un’immaginazione del disastro spicciolo. Non siamo stanchi, siamo in coma. Ogni notizia è una bomba. La situazione è sempre allucinante. Per fortuna certe persone sono mitiche. Immagini immotivate. Arbitrarie, anche se non casuali, mezzi banali per far fronte a una minaccia tutt’altro che banale. A questo reagisce quella parte della letteratura odierna che invece di torcersi le mani e vomitare bile – come nella modernità avrebbero fatto, davanti a questo sciocchezzaio, implacabili persecutori del banale quali Flaubert o Kraus – sceglie piuttosto di rincarare la dose. La scrittura dell’estremo è il tentativo di rimotivare a posteriori i segni vuoti in cui ci rispecchiamo – con il rischio costante di rimanere imprigionati nello specchio.
Qui si giustifica la sua predilezione per la violenza, per il sangue, per la morte (predilezione eventuale, lo vedremo: non di tutti). Per il complotto, per il tradimento, per il segreto, per la paranoia. Ovvero per quella modalità di indistinzione tra soggetto e oggetto che Julia Kristeva ha chiamato “abiezione”, e Gayatri Spivak ha acutamente identificato come lo “stupido” che si nasconde sotto il “sublime”, come sempre accade quando “la linea tra agente e oggetto vacilla, […] quando si vede se stessi come un oggetto, capace di distruzione, in un mondo di oggetti, cosicché la distruzione degli altri è indistinguibile dalla distruzione di sé”. Ma qui si comprende anche la ricerca, di cui la letteratura e l’arte contemporanea danno così spesso prova, non tanto del brutto o del grottesco (come nella modernità dai romantici in poi) ma del disgusto, ovvero di quella tonalità affettiva che secondo Kant non può in alcun modo diventare oggetto di contemplazione estetica disinteressata, in quanto non permette di essere percepita e apprezzata per le sue qualità formali. Aristotele diceva che è virtù propria della mimesis artistica far percepire come belle anche cose che nella realtà ci procurerebbero paura o ripugnanza, come una fiera o un cadavere. Come sarebbe possibile altrimenti la tragedia? Ma qui si aspira a provocare lo stesso effetto del cadavere, a far collassare la cosa e il suo ritratto. Il folle, il serial killer, il cannibale (che dà il titolo a una fortunata antologia di giovani narratori, Gioventù cannibale, uscita nel 1996), il disgustoso, l’abbietto si sforzano di non essere più soltanto oggetti di rappresentazione, tentando di generare la stessa reazione che scaturirebbe dalla cosa rappresentata. Se la generazione di scrittori italiani che è fiorita negli anni ottanta deve molto al nuovo cinema tedesco (Wim Wenders, Edgar Reisz), al minimalismo americano dei Carver e dei Leavitt, al recupero di certi scrittori “laterali” come Giovanni Comisso, Silvio D’Arzo, Antonio Delfini, gli ispiratori di tanta letteratura italiana a cavallo degli anni zero sono stati autori border-line come il James Ellroy di American Tabloid e il Bret Easton Ellis di American Psycho. Censendo fenomeni analoghi nel campo dell’arte contemporanea (body art, posthuman, sperimentazioni cyborg), Mario Perniola ha parlato di un “realismo psicotico”. Il segno aspira allo stesso statuto della cosa, la rappresentazione è combattuta con le sue stesse armi, il “dentro” delle cose viene estratto come si eviscera un cadavere da esporre alla luce autoptica del “fuori”. La crudeltà è garanzia di autenticità, l’eccesso include la norma, la verità non è sotto la pelle ma è la pelle nel momento in cui viene strappata. Brano tratto da Senza trauma – scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio,Quodlibet s.r.l. Macerata. Daniele Giglioli insegna Letterature comparate all’Università di Bergamo. Tra le sue pubblicazioni: Tema, La Nuova Italia, Firenze 2001; Il pedagogo e il libertino, Bergamo University Press, Bergamo 2002, All’ordine del giorno è il terrore, Bompiani, Milano 2007. Collabora a “Il manifesto” e al “Sole 24ore”.
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