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Sagarana ROBERT E LA CONTESSA


Yves Lecomte


ROBERT E LA CONTESSA



 

(…) Tra le persone che mia madre non mancava mai di invitare quando dava un ricevimento, c'era quella che lei considerava un po' come il suo fiore all'occhiello, anche se il detto fiore era alquanto appassito. La signora in questio­ne era la sorella dell'abbé Joly di Azé, vedova di un nobile veneziano. Mia madre la conosceva da molti anni, e la con­siderava una buona amica eppure, quando parlava di lei, non la chiamava mai altrimenti che "la contessa Minottò", pronunciando il nome alla francese, con l'accento tonico sulla "o" finale, perciò non ho mai saputo quale fosse il suo nome di battesimo. Morendo, il conte suo marito le aveva lasciato soltanto una piccola rendita, ma riusciva lo stesso a condurre una vita dignitosa, e a ricevere una volta alla settimana. I suoi invitati, sempre gli stessi, appartenevano per la maggior parte alla media borghesia: lei era l'unica nobile del gruppo. Sempre vestita di tailleurs scuri o neri, aveva un atteggiamento manierato che poteva far ridere, ma, sotto quella sua aria mondana e futile, era una donna molto infelice: aveva un figlio mongoloide, di ventiquattro anni, e nessuno che l'aiutasse a portare quella croce. Quando ri­ceveva, non potendosi permettere un'infermiera, era costretta a rinchiuderlo nella sua cameretta, dove il ragazzo se ne stava buono buono a giocare con i suoi cubi, e immagino l'angoscia della povera donna, mentre compiva sorridente il suo dovere di padrona di casa. Ogni tanto mia madre ci portava con sé, e mentre si fermava in salotto a noi toccava far compagnia a Robert, che sbavava dalla felicità. Io non vedevo l'ora di andare via: da una parte il poveretto mi faceva pena, ma dall'altra parte provavo nei suoi confronti una ripugnanza che non riuscivo a vincere, e che mi sono a lungo rimproverato. Diversi anni dopo, la contessa stava tornando a casa, in rue des Maronniers, quando cominciò a perdere sangue dalla bocca. Subito dei passanti si avvicina­rono per soccorrerla, ma, quando cercarono di portarla nella portineria di uno stabile, la custode rifiutò di lasciarla en­trare, perché tutto quel sangue avrebbe sporcato, e alla nostra povera amica così compassata, così chic, toccò l'umiliazione non solo di morire per strada, come un cane, ma soprat­tutto di non essere ricevuta da una portinaia. Tuttavia, il lato ancora più tragico di questa storia è la disperazione che Robert dové provare non vedendo tornare la madre; chissà quanto tempo aspettò dietro quella porta, chiusa a chiave, che lei non avrebbe mai più riaperto.






Tratto da Francese d’Italia, Alfredo Guida editore, Napoli, 2001




Yves Lecomte
Yves Lecomte è nato a Pallanza, sul lago Maggiore, nel 1930. Figlio di genitori francesi, nel 1939 la sua famiglia si è trasferita in Francia, prima in provincia e poi a Parigi. Ha pubblicato diverse raccolte poetiche in Italia e in Francia, fra cui: Bal masqué (1961), Le jeu des Osselets (1965, Il gioco degli astragali, tradotto in Italia da Salvatore Quasimodo),Danza dei mosaici (1980), Il Soggetto e il Verbo (1985), Poesie scelte e documenti (1994), Percorso (2008); e due raccolte di aforismi di cui si ricorda Aforismi (2004). Autore anche di teatro e di libri per bambini, nel 2001 è uscito il suo romanzo autobiografico Francese d'Italia.




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