L’ARANCIA MECCANICA È TRA NOI Anthony Burgess
Di mestiere faccio lo scrittore. Si tratta - penso - di un mestiere innocuo, anche se non ovunque è considerato rispettabile. Gli scrittori di romanzi mettono turpiloquio in bocca ai loro personaggi e li descrivono mentre sono impegnati a fornicare o vanno al gabinetto. Per di più, non si tratta di un mestiere "utile" in senso stretto, come potrebbe esserlo quello del muratore o del pasticciere. Lo scrittore fa passare il tempo, tra un'azione utile e l'altra; contribuisce a riempire i vuoti che si creano nell'ordito serio della vita. È un mero intrattenitore, una specie di clown. Imita, fa gesti grotteschi, è patetico o comico e talora entrambe le cose, lancia le parole in aria, a vorticare come palloncini colorati. L'uso che egli fa delle parole non deve essere preso troppo sul serio. Il presidente degli Stati Uniti usa parole; il medico, il meccanico, il generale dell'esercito o il filosofo usano parole e queste parole sembrano riferirsi al mondo reale, un mondo nel quale le tasse si devono imporre e togliere, le automobili si devono guidare, le malattie si devono guarire, i grandi pensieri vanno pensati e si devono combattere grandi battaglie. Nessun inventore di trame e di personaggi - per quanto bravo - deve essere ritenuto un pensatore serio. Neppure Shakespeare. In verità, è difficile capire che cosa pensa veramente lo scrittore pieno di immaginazione, dato che egli si nasconde dietro le sue trame e i suoi personaggi. E quando sono i personaggi a iniziare a pensare, e a esprimere i loro pensieri, non necessariamente si deve credere che quelli siano i pensieri dello scrittore. Macbeth pensa una cosa e Macduff una cosa diametralmente opposta alla prima; le idee del re non sono le idee di Amleto. Perfino il drammaturgo più serio resta pur sempre un clown, dato che suona un motivo triste su un trombone strapazzato. Poi, però, il suo stato d'animo tragico cambia, ed egli diventa un buffone che fa acrobazie e cammina sulle mani. Non deve essere preso sul serio. Talvolta accade, invece, che un semplice intrattenitore come me sia trascinato - contro la propria volontà - nella sfera del pensiero "serio". Si trova costretto a rilasciare le proprie opinioni su questioni molto profonde. L'occasione di tale imposizione può essere un improvviso interesse da parte dell'opinione pubblica per uno dei suoi romanzi, un libro che ha scritto senza averne preso in seria considerazione il significato, un libercolo scritto in fretta e furia giusto per pagare l'affitto e che di colpo ha assunto un significato che l'autore stesso non aveva voluto. Oppure, può accadere con un romanzo che, a causa di un'incontenibile preoccupazione o di rabbia nei confronti di qualcosa che sta accadendo nel mondo reale, il romanziere - con sua grande vergogna - abbia reso meno piacevole del solito, più una predica o un'omelia o un comunicato divulgativo - non essendo la produzione di tutte queste cose di pertinenza di uno scrittore. Di questi tempi mi trovo a scrivere un libro molto diverso da qualsiasi altro io abbia mai scritto e l'occasione che mi ha spinto a scriverlo non è l'interesse dell'opinione pubblica nei confronti di un mio romanzo, bensì l'interesse dell'opinione pubblica nei confronti di un film basato su uno dei miei romanzi. Il libro e il film si intitolano entrambi Arancia meccanica. Ho pubblicato la prima stesura del libro nel 1962 e a partire da quell'anno il mio libro ha avuto un numero sufficiente di lettori sulle due sponde dell'Atlantico da continuare a essere stampato. Eppure, a dieci anni di distanza da quando ne ho corretto le bozze, il suo titolo e il suo contenuto sono diventati noti a milioni di persone - non soltanto a migliaia - in seguito alla trasposizione cinematografica molto aderente al testo che ne ha fatto Stanley Kubrick. Così mi sono ritrovato a essere convocato assai di frequente per spiegare il reale significato del libro e del film in tutti i media americani, come pure in alcuni in Europa, e la mia spiegazione è stata più o meno di questo tenore. Prima di tutto, il titolo. Sentii per la prima volta pronunciare l'espressione "sballato come un'arancia a orologeria" in un pub londinese, prima della Seconda guerra mondiale. Si trattava di un'espressione tipica del vecchio slang Cockney, in allusione a una stranezza o anormalità così estrema da sovvertire la natura, giacché quale altra idea più bizzarra può esserci di quella di un'arancia con meccanismo a orologeria? L'immagine mi piacque per il fatto di non essere soltanto qualcosa di fantastico, ma anche perché implicava qualcosa di oscuramente significativo, di surreale, e a uno stesso tempo di reale, in senso osceno. Il connubio forzoso di un organismo - una cosa vivente, che cresce, è dolce e succosa - e di un meccanismo, un manufatto freddo e inerte, poteva essere soltanto un'idea da incubo? Ho scoperto quanta risonanza potesse avere una tale immagine per la realtà del Ventesimo secolo nel 1961, quando iniziai a scrivere un romanzo su come porre rimedio alla delinquenza giovanile. Avevo letto da qualche parte che utile e proficua poteva essere l'idea di eliminare del tutto l'impulso a delinquere tramite la terapia dell'avversione e ne ero rimasto turbato. Iniziai a elaborare le implicazioni di questa teoria in una breve opera di fiction. Il titolo - Arancia meccanica - era lì, già pronto per congiungersi al libro. Era l'unico titolo possibile. Il protagonista del libro come del film è un giovane delinquente di nome Alex. Gli detti quel nome per la sua natura internazionale (non avrebbe potuto esistere un ragazzo britannico o russo di nome Chuck o Butch), e anche per impliciti significati ulteriori: Alex è un diminutivo buffo di Alessandro il Grande, che si fece largo nel mondo a colpi di spada e massacri e lo conquistò; ma è anche il nome di colui che alla fine è vinto, impotente e senza parole. Egli fu "A lex", la legge di sé stesso, e diventò una creatura senza legge e senza lessico. Questi velati giochi di parole, naturalmente, non hanno nulla a che vedere con il vero significato del nome Alessandro, che è "difensore di uomini". All'inizio del libro e del film, Alex è un essere umano dotato - forse anche sovra-dotato - di tre caratteristiche che noi consideriamo attributi fondamentali per un uomo. Si compiace di utilizzare un linguaggio eloquente e ne inventa addirittura una nuova forma (ancora lontano dall'a-lessicale - "a-lexical" - in questa fase); ama la bellezza che individua nella musica di Beethoven più che in qualsiasi altra cosa; è combattivo. Con i suoi amici - meno umani di lui, dato che non si interessano granché alla musica - a notte fonda terrorizza le strade di una grande città. Questa città può essere ovunque, anche se io l'ho immaginata come una specie di mix tra Manchester, la mia città natale, Leningrado e New York. Anche l'epoca avrebbe potuto essere una qualsiasi, ma in sostanza è quella presente. Alex e i suoi amici effettuano rapine, mutilano, stuprano, vandalizzano, e alla fine arrivano a uccidere. Il giovane anti-eroe è arrestato e condannato, ma la condanna non è abbastanza per lo stato. Poiché è risaputo che il carcere non funge da deterrente per la criminalità, il ministero degli Interni introduce una forma di terapia dell'avversione dal successo garantito, che in sole due settimane dovrebbe far piazza pulita per sempre di qualsiasi tendenza a delinquere. Alex, nella sua ingenuità, accoglie favorevolmente l'occasione di essere "curato". Ha una tale fede nell'indistruttibilità della sua libido da considerarsi perfettamente in grado di tener testa agli esperti statali di comportamento. Gli praticano l'iniezione di una sostanza che gli induce una nausea violenta, e la nausea è di proposito associata alla visione forzata di film indicibilmente violenti. Ben presto non riesce più ad assistere a un episodio di violenza senza provare un violento attacco di nausea. Dato che anche l'atto amoroso è stato per lui qualcosa di meramente aggressivo, ecco che perfino vedere una partner sessualmente desiderabile gli scatena una nausea insopportabile. È costretto a camminare sul filo di una "bontà" imposta. La società si rallegra del risultato e già guarda con ottimismo a un millennio privo di criminalità. Ma gli uomini, dopo tutto, non sono macchine ed è sempre difficile distinguere un istinto umano dall'altro. Il trattamento al quale è stato sottoposto Alex consiste nella visione di film particolarmente violenti e nel provare simultaneamente una forte nausea indotta. Questi film, per di più, avevano come "elementi di intensificazione emotiva" colonne sonore di musica sinfonica. Dopo il trattamento, il criminale riformato scopre di non riuscire ad ascoltare Beethoven senza sentirsi inconsolabilmente male. Lo Stato si è spinto troppo in là: è entrato in un ambito che va ben oltre il suo patto con la cittadinanza. Ha precluso alla sua vittima un universo intero di bene non-morale, la visione di quell'ordine paradisiaco che la musica meravigliosa può indurre. Impazzito dopo aver ascoltato una registrazione della Nona sinfonia, Alex tenta il suicidio; negli elementi liberal della società compaiono turbamento e compassione; Alex è sottoposto a una terapia ipnopedica, che lo riporta alla sua condizione anteriore di "essere libero"; e ci accomiatiamo da lui mentre egli sogna nuove modalità, ancora più elaborate, di accanimento sul prossimo. E questo dovrebbe essere recepito come un lieto fine. Quello che cercavo di esprimere è che è meglio essere malvagi per propria scelta che essere buoni grazie a un lavaggio scientifico del cervello. Quando Alex ha il potere di scegliere, sceglie soltanto la violenza. Ma, come dimostra il suo amore per la musica, ci sono anche altri ambiti nei quali può scegliere. Nell'edizione britannica del libro - non in quella americana e neppure nel film - c'è un epilogo nel quale si vede Alex crescere, imparare a provare disgusto per il suo vecchio modo di vivere, pensare all'amore come a qualcosa di più di un gesto violento e arrivare a immaginarsi un giorno marito e padre. La strada, quindi, è sempre stata aperta: alla fine è lui a scegliere di imboccarla. È stato un'arancia molto aspra e amara. Adesso si riempie di qualcosa di paragonabile a una dignitosa dolcezza umana. La libertà di scelta è davvero così importante? E, a questo proposito, l'uomo è davvero capace di scegliere? E ancora: la parola libertà significa qualcosa di preciso? Queste sono le domande che devo formulare e alle quali devo cercare di rispondere. Per il momento devo prendere atto di essere stato deriso e rimproverato per aver manifestato le mie paure nei confronti del potere dello stato moderno - sia esso la Russia, o la Cina o quella che potremmo definire l'Anglo-America - di limitare la libertà dell'individuo. La letteratura ha messo più volte in guardia da tale potere, con libri come Il mondo nuovo di Aldous Huxley e 1984 di George Orwell, ma le persone "sensibili" che non si lasciano impressionare dalla scrittura creativa, ci dicono sempre che abbiamo ben poco da temere. In verità, il libro di B. F. Skinner "Oltre la libertà e la dignità" è uscito nel momento stesso in cui Arancia meccanica arrivava sugli schermi per la prima volta, pronto a dimostrare i vantaggi di quello che potremmo definire un proficuo lavaggio del cervello. Il nostro mondo è in pessima forma, dice Skinner, a causa di vari problemi, come la guerra, l'inquinamento ambientale, la violenza civile, la crescita esplosiva della popolazione terrestre. Il comportamento umano deve cambiare - e questo, dice, è palese, e ben pochi avrebbero da ridire al riguardo. Ci occorre assolutamente una tecnologia del comportamento umano. Possiamo lasciare perdere l'uomo interiore, l'uomo che incontriamo quando parliamo con noi stessi, l'essere non visibile che si preoccupa di Dio e della propria anima e della realtà ultima delle cose. Dobbiamo guardare all'uomo da fuori, considerando in particolare che cosa induce un tipo di comportamento umano a evolvere in un altro. L'approccio comportamentista all'essere umano - di cui il professor Skinner è un grande esponente - lo vede muoversi verso tipologie quanto mai differenziate di azione tramite stimoli avversivi e non-avversivi. La paura della sferza induceva lo schiavo a lavorare; la paura del licenziamento ancor oggi spinge lo schiavo retribuito a lavorare. È questo tipo di stimoli negativi all'azione che il professor Skinner condanna più di ogni altra cosa; ciò che egli vorrebbe che si diffondesse di più è al contrario lo stimolo positivo. A un animale del circo non si insegna a fare acrobazie con la crudeltà, ma con la gentilezza (ormai Skinner dovrebbe saperlo: buona parte del suo lavoro sperimentale infatti lo ha portato avanti sugli animali; e alcuni dei risultati da lui conseguiti nel condizionare gli animali hanno molto in comune con quelli di un circo professionista). Considerati gli opportuni stimoli positivi - ai quali noi reagiamo non razionalmente ma tramite i nostri istinti condizionati - diventeremo tutti cittadini migliori, sottomessi a uno stato che ha a cuore il bene della collettività. Dobbiamo - questo attesta la teoria - non aver paura del condizionamento. Abbiamo bisogno di essere condizionati per poter salvaguardare l'ambiente e la razza. Ma il condizionamento deve essere del tipo giusto. Seguendo l'argomentazione di Skinner, dunque, è un condizionamento del tipo sbagliato a trasformare il protagonista di Arancia meccanica in un rivoltante modello di non-accanimento. Il fatto che io stesso, addirittura, consideri sbagliato qualsiasi tipo di condizionamento è riconducibile - così presumo - alla forza della tradizione religiosa nella quale sono stato cresciuto. Ne sono stato condizionato, per così dire, ma la mia parte razionale approva i verdetti di colpevolezza che sento a livello viscerale. La mia famiglia è originaria del Lancashire, quella contea settentrionale che un tempo era una roccaforte della fede cattolica. La Riforma protestante, che trasformò l'Inghilterra in quella che è oggi, non raggiunse mai il Lancashire, oppure - se lo fece - lo fece così amabilmente e ragionevolmente, con penetrazioni pacifiche, nei periodi più tolleranti che fecero seguito alle imposizioni sanguinarie dei Tudor. Il genere di protestantesimo che fiorì all'epoca di Cromwell e generò una nuova razza di mercanti borghesi era calvinista e la predestinazione dell'anima ne era l'epicentro dottrinale. L'uomo non poteva volere la propria salvezza; la sua futura condizione era stata predeterminata da Dio. Il cattolicesimo respinge una dottrina che pare mandare arbitrariamente gli uomini in paradiso e altri - in modo altrettanto arbitrario - all'inferno. La tua futura destinazione, dice la teologia cattolica, è interamente nelle tue mani. Non c'è niente che ti impedisca di peccare, se vuoi peccare; e, a uno stesso tempo, non c'è niente che ti trattenga dall'avvicinarti ai canali della grazia divina che ti garantiranno la salvezza. Il fatto che due dottrine del tutto contrastanti - quella del libero arbitrio e quella della predestinazione - riescano a coesistere nella stessa confessione religiosa richiede qualche spiegazione. Tanto per cominciare c'è il fatto dell'onniscienza divina. Se Dio sa tutto, sa anche se sarò dannato o mi salverò. La mia ultima dimora, per così dire, è già stata prenotata dai tempi dei tempi. Se invece Dio concede all'uomo il potere di scegliere liberamente, si potrebbe pensare che Egli si astenga da solo dal conoscere anticipatamente quello che un dato uomo farà di quel potere. Un Dio onnisciente e onnipotente, in segno d'amore per l'uomo, pone alcuni limiti sia al suo stesso potere sia al suo stesso sapere. Nella sua autobiografia Sean O'Faolain, riferisce di come l'incapacità a conciliare il libero arbitrio umano con l'onniscienza divina un giorno gli sia stata chiarita - per un'improvvisa magia o per un miracoloso barlume introspettivo - mentre si trovava in taxi a Manhattan. O'Faolain è giunto alla conclusione che qualsiasi azione umana resta una libera scelta fino a quando non è commessa. Una volta che un'azione è commessa diventa ciò che Dio voleva che fosse commesso. Dopo questa scoperta lui e il tassista sono andati a ubriacarsi. Ma i calvinisti hanno sempre avuto un colpo da novanta col quale difendere la loro campagna a favore della predestinazione. Contro l'esercito del libero arbitrio puntano il cannone della Caduta. Adamo cadde per il peccato originale della disobbedienza; ha trasmesso a tutti i suoi discendenti la colpa di quel peccato; gli uomini sono predisposti a peccare, non sono libere creature. La risposta ortodossa a ciò è che naturalmente Cristo è morto per liberare gli uomini, ma il calvinismo stranamente non sembra aver recepito questo. Le teocrazie create dai calvinisti - le città stato o intere confederazioni governate da santi uomini autonominatisi - sono sempre state caratterizzate da una malinconia tetra come il brutto tempo. Si pensi all'Inghilterra di Cromwell, al Massachusetts di Cotton Mather, alla Ginevra dello stesso Calvino. Per loro lasciare che fossero gli uomini a scegliersi i propri destini fu un segno della perversione cattolica. Da qui la chiusura dei bordelli (che i paesi cattolici non chiusero); la messa al bando di frivolezze come le opere teatrali o la letteratura leggera; la pena di morte per adulterio. Gli uomini sono peccatori, gli uomini non si asterranno dal peccare (e perché dovrebbero, dato che sono in ogni caso predestinati all'inferno o al paradiso, a prescindere da ciò che faranno?), gli uomini devono essere resi buoni. E ancor più le donne, le figlie della traditrice Eva. Il calvinismo è pieno di rinforzi negativi. Non ho intenzione di insegnare i fondamenti della teologia, e di sicuro non intendo analizzare il mondo contemporaneo dal punto di vista di una fede ereditata. Mi sta a cuore soltanto dimostrare che certi termini che prendiamo in prestito dalla teologia hanno una valenza nell'approccio laico ai nostri problemi. Essendo una persona nella quale la fede religiosa è stata altalenante per quarant'anni, sarei ipocrita qualora predicassi che per porre fine alle guerre e per rigenerare i fiumi inquinati gli uomini dovrebbero tornare a Dio. Quello che intendo dire è che la religione e simili dottrine laiche o antropocentriche come la filosofia, la psicologia e la sociologia hanno qualcosa in comune, ovvero la consapevolezza della costante condizione di infelicità dell'uomo. Parrebbe anche che alcune parole di origine antica - come dio, male, libero arbitrio e perfino peccato originale - non debbano essere rimpiazzate da una terminologia pseudo-scientifica solo perché capita che derivino da un approccio all'uomo incentrato su Dio. "Voi definite nera la scacchiera, io bianca" dice il Vescovo Blougram nella poesia di Robert Browning. In altre parole, una visione ottimistica della vita umana è valida tanto quanto quella pessimista. Ma a quale vita alludiamo? A quella dell'intera razza umana o a quella di quell'irrilevante frammento di essa che ciascuno di noi definisce "io"? Io penso di essere ottimista sull'uomo: penso che la sua razza sopravvivrà, penso che risolverà - seppur lentamente o dolorosamente - i suoi maggiori problemi soltanto perché è consapevole di essi. Per quanto mi riguarda, tutto ciò che posso affermare è che sto invecchiando, che la mia vista si è indebolita, che i miei denti richiedono costanti attenzioni, che non posso più mangiare o bere quanto ero solito fare, e che sempre più spesso mi annoio. Non riesco a tenere a mente i nomi delle persone, la mia mente lavora lenta, ho attacchi di invidia per i giovani e provo rancore per il mio imminente decadimento fisico. Se avessi una fede ardente nella sopravvivenza dell'individuo, questa cupa visione della senescenza ne uscirebbe di molto alleviata. Ma ho perduto questa fede ed è improbabile che io la possa recuperare. Talvolta provo un ardente desiderio di morire subito, ma l'impulso a rimanere vivo ha sempre la meglio. Esistono sì forme di consolazione - l'amore, la letteratura, la musica, la vita frenetica e vivace della città del sud nella quale trascorro buona parte del mio tempo - ma sono pur sempre assai saltuarie. Esiste una consolazione più grande e più duratura: il fatto che sono libero di scrivere ciò che voglio, che non sono tenuto a seguire alcun orario, che non devo chiamare "signore" nessuno e a nessuno sottomettermi con trepidazione. Da questa libertà, però, hanno origine i miei stessi rimorsi: mi sento in colpa se non lavoro, sono il tiranno di me stesso. Delle cose che posseggo adesso avevo maggior bisogno quando ero giovane. Ricordo bene il detto di Goethe: "Stà attento a desiderare qualcosa in gioventù, perché l'otterrai alla mezza età". Ammetto di essere più benestante della maggior parte delle persone, ma non mi considero dispensato dall'ansia e dall'angoscia che affliggono uomini e donne schiavi di vite che non si sono scelti, cittadini di comunità che detestano. Mi riferisco soprattutto agli abitanti delle grandi città industriali e commerciali, New York, Londra, Bombay, la mia stessa Manchester. "Ti guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte " dice molto bene il libro della Genesi. La difesa di una società complessa passa e dipende sempre più dal lavoro di routine, il lavoro dal quale sono assenti entusiasmo e creatività. Le cose che mangiamo, gli abiti che indossiamo, i posti nei quali viviamo diventano sempre più standardizzati, perché la standardizzazione è il prezzo che paghiamo per i prezzi che paghiamo. La vita per la maggior parte di noi trascorre come il tempo per una sveglia di Woolworth. Cresciamo assuefatti al ritmo impostoci dalle nostra esigenze di sussistenza. E ben presto arriviamo a farci piacere la nostra schiavitù. Uno degli slogan del superstato di George Orwell in 1984 è "La libertà è schiavitù". Si può interpretare ciò col fatto che il peso di effettuare le proprie scelte risulta insopportabile a molte persone. Essere vincolati alla necessità di prendere una decisione per se stessi equivale a essere schiavi della propria volontà. Ricordo quando, a ventidue anni, entrai nell'esercito britannico: in un primo tempo tollerai male la disciplina, la privazione della più piccola tra le libertà (come il diritto di mangiare quando e quello che si vuole, il diritto di andare al gabinetto quando lo impone l'intestino e non lo squillo della tromba). Ben presto, tuttavia, il mio adeguarmi a essere un pezzo dell'ingranaggio, di un meccanismo a orologeria, iniziò a piacermi, a rassicurarmi. Essendo parte di un'unità, obbedendo agli ordini con tutta l'unità, non potendo in nessun modo rivolgere domande o mettere in discussione ordini, in quattro anni di inflessibile vita accademica mi presi una deliziosa vacanza dalla necessità di effettuare scelte di continuo. Dopo sei anni di quella vita, riuscivo a simpatizzare con il civile che è infelice di dover prendere le proprie decisioni - dove mangiare, per chi votare, che cosa indossare. Avere chi ti comanda è di gran lunga più facile: fuma le Hale che hanno il 90 per cento in meno di catrame; leggi questo romanzo, rimasto per 75 settimane nella classifica dei best-seller; non andare a vedere quel film che è robaccia. Forse si dovrebbe dire qualcosa in merito al conformismo della vita sociale quando le nostre vite lavorative lasciano così poco spazio allo scabro individualismo: è doloroso essere un esperto di Spinoza alla sera e un ingranaggio al lavoro per il resto della giornata. E c'è qualcosa nel nostro essere sottomessi che fa sì che ci venga voglia di conformarci. Perfino chi si ribella contro il conformismo trova un conformismo tutto suo: come l'uniforme fatta di capelli lunghi, barbe, pantaloni di cotone, perline o amuleti, per esempio, e l'immutabile voglia di marijuana e di canzoni di protesta suonate con la chitarra. Un uomo deve conformarsi a un modello di lavoro per sostentarsi e sfamare la propria famiglia; un uomo può trovare gradevole o naturale oppure opportuno conformarsi nei propri gusti sociali. Ma quando i modelli di conformismo sono imposti dallo stato, allora si ha il diritto a essere spaventati. Purtroppo, il conformismo politico che porta all'uniforme colorata, alla bandiera, allo slogan, alla museruola apposta alla libertà d'espressione, tende ad agire sulla volontà a conformarsi in ambiti non-politici. Presumibilmente non abbiamo il dovere di amare Beethoven o di detestare la Coca Cola, ma è quanto meno credibile avere il dovere di diffidare dello stato. Thoreau scrisse sul dovere della disobbedienza civile. Whitman disse: "Obbedite poco, resistete molto". Nel caso dei liberali, e di molti altri, la disobbedienza è una cosa buona, di per sé. Nelle piccole realtà sociali - quali le parrocchie inglesi, i cantoni svizzeri - l'apparato che governa talvolta riesce a essere identificato con la comunità che è governata, ma quando la realtà sociale è grande, si fa megalopoli, stato, federazione, allora l'apparato di governo diventa qualcosa di remoto, di impersonale, perfino di disumano. Ci porta via i soldi per scopi che non pare proprio che approviamo; ci tratta come astratte entità statistiche; controlla un esercito; appoggia un apparato di polizia le cui funzioni non sempre ci sembrano protettive. Questa, naturalmente, è una generalizzazione che può essere ritenuta una sciocchezza piena di pregiudizi. Per quanto mi riguarda, non mi fido dei politici o degli uomini di Stato - pochissimi scrittori e artisti lo fanno - e ritengo che gli uomini entrino in politica per la motivazione negativa che hanno scarso talento e scarsa propensione per altro e per la motivazione positiva che il potere è sempre appetibile. Contro ciò occorre opporre la verità che il governo emana leggi benefiche per proteggere la comunità e, nel grande mondo internazionale, queste possono essere espressioni delle nostre tradizioni e aspirazioni. Resta tuttavia il fatto che, nel nostro secolo, lo Stato è responsabile di buona parte dei nostri incubi. Nessun individuo da solo, nessuna libera associazione di singoli individui, potrebbe aver concretizzato le tecniche repressive dei nazisti tedeschi, attuato massacri con bombardamenti intensivi, o costruito la bomba atomica. I dipartimenti della guerra possono pensare in termini di mega-morti, mentre è già tanto se l'uomo medio riesce a fantasticare in sogno di voler ammazzare il proprio capo. Lo stato moderno - sia esso di un paese totalitarista o di un paese democratico - ha di gran lunga troppo potere, e probabilmente abbiamo ragione ad averne paura. È significativo che i libri di incubi della nostra epoca non parlino di nuovi Dracula e novelli Frankestein, bensì di quelle che possono essere a buon motivo definite distopie - utopie ribaltate, nelle quali per esempio un immaginario governo megalitico porti la vita umana a un livello eccelso di privazione. Nel suo romanzo (stranamente dimenticato) Qui non è possibile, Sinclair Lewis presenta un'America che diventa fascista, caratterizzata da un fascismo tanto americano quanto lo è la torta di mele. Il grezzo presidente che ama dire spiritosaggini e assomiglia a Will Rogers usa le clausole della Costituzione creata dagli ottimisti jeffersoniani per dar vita a un dispotismo che, per l'indifferente maggioranza, risulta in un primo tempo niente più che ordinario e semplice buonsenso. Le botte inflitte agli intellettuali capelloni e agli anarchici accaniti piacciono sempre all'uomo medio, anche se in realtà rivelano che il pensiero liberale è soffocato (la Costituzione americana è stata opera di intellettuali capelloni) e la dissidenza politica eliminata. 1984 di Orwell - una visione angosciosa che avrebbe potuto plausibilmente scongiurare che si realizzasse l'incubo, perché nessuno si aspetta che il 1984 sia davvero come quello descritto da Orwell - mostra l'imperturbabile amore per il potere e la crudeltà che fin troppi leader politici hanno tenuto nascosti sotto i florilegi di una retorica "ispirazionale". Il "Partito degli Interni" della futura Inghilterra orwelliana esercita il controllo sulla popolazione distorcendo il passato, così che nessuno possa fare appello a una morta tradizione di libertà; ponendo vincoli al linguaggio, così che non si possano neppure formulare pensieri sovversivi; utilizzando un'epistemologica "incoerenza ideologica" che fa sì che il mondo esterno appaia come i governanti vogliono che appaia; e utilizza la tortura e il lavaggio del cervello. Sia la visione americana sia quella britannica concordano nel dare per scontato che gli avversati strumenti che incutono paura e torture sono le tecniche inevitabili di un dispotismo che mira al controllo totale sull'individuo. Eppure, già nel lontano 1932 Aldous Huxley nel suo Il mondo nuovo dimostrava che la docilità asservita che gli stati potenti richiedono dai loro sudditi era ottenibile più facilmente tramite tecniche non disapprovate. Il condizionamento prenatale e infantile rende gli schiavi felici della loro condizione di schiavi e la stabilità è fatta rispettare non a colpi di frusta, ma tramite un piacere scientificamente imposto. Questa, naturalmente è una strada che l'uomo può imboccare qualora desideri veramente un mondo nel quale non ci siano guerre, né crisi tra la popolazione, né tormenti alla Dostoevskij. Le tecniche di condizionamento, del resto, esistono e sono disponibili; forse la situazione mondiale spaventerà gli uomini molto presto e al punto da far sì che le accettino. Nondimeno, come dichiara Huxley tramite il suo protagonista - un selvaggio primitivo, cresciuto in una riserva indiana - la felicità non è quello che vogliamo veramente. Un uomo è - quasi per definizione - una creatura irrequieta, creativa, distruttiva, portata a gioire come a soffrire. Il giovane selvaggio reclama ciò che il temerario mondo nuovo non può dare - l'infelicità - e quindi si suicida. Diceva G. K. Chesterton che l'uomo è una donna: non sa quello che vuole. Pochi tra noi non respingerebbero in toto sia l'incubo di Orwell sia quello di Huxley. In un certo senso, preferiremmo una società repressiva, piena di agenti segreti e di filo spinato, a quella scientificamente condizionata nella quale essere felici significa fare la cosa giusta. Tutti noi potremmo concordare col professor Skinner che una società condizionata ben amministrata è una cosa eccellente per una nuova razza - una nuova specie di uomini razionalmente convinti della necessità di essere condizionati, purché tale condizionamento si basi sulla ricompensa e non sulla punizione. Ma noi non siamo la nuova razza e testardamente ci ostiniamo a non volere essere nient'altro che ciò che siamo, più o meno - creature consapevoli dei propri difetti e creature determinate a fare a modo nostro qualcosa in merito a quei nostri difetti. Possiamo addirittura pensare in termini di due tipologie di esseri umani: noi, uomini liberi o uomini imperfetti, e gli uomini nuovi che ancora devono essere creati (creazione dunque dell'uomo, non della natura), e che forse potremmo chiamare neantropi, neologismo che suona un po' come una strozzatura. Battezzare "neouomo" un essere della nuova epoca, o epoca skinneriana, potrebbe sembrare inappropriato: il grande Cardinale inglese si rivolterebbe nella tomba. Curiosamente - ma anche no, forse - i personaggi della storia che onoriamo maggiormente sono quegli uomini e quelle donne che combatterono contro la repressione e affrontarono addirittura il martirio per difendere il bene e il giusto. Prometeo, Socrate, Gesù Cristo, Sir Thomas More, Giordano Bruno, Galileo - l'elenco è estremamente lungo, e la storia vi aggiunge anche personaggi come i Kennedy e Martin Luther King. È come se ci ostinassimo ad aver bisogno dell'intolleranza perché non possiamo fare a meno di eroi. Ciò che i grandi intransigenti fanno per noi è ricordarci alcuni assoluti come il bene e il male. Fu l'occupazione nazista della Francia a indurre Jean-Paul Sartre a formulare una nuova filosofia umana, che - benché non lo sia - sembra una teologia. Parlando dell'"era degli assassini" anticipata da Rimbaud, Sartre (in Che cosa è la letteratura) dice: "Ci è stato insegnato a prendere il Male sul serio. Non è colpa nostra, né merito nostro, se abbiamo vissuto in un'epoca in cui la tortura era una faccenda quotidiana. Chateaubriand, Oradur, la Rue de Saussaies, Dachau e Auschwitz ci hanno dimostrato che il Male non è apparenza, che conoscerne la causa non lo fa scomparire, che non si contrappone al Bene così come un'idea confusa si contrappone a un'idea distinta... A dispetto di noi stessi, siamo pervenuti a questa conclusione, che sembrerà sconvolgente per le anime nobili: il Male non può essere redento". Il periodo marcio, stanco, corrotto degli anni Trenta in Francia rappresentò una specie di condizione a orologeria, un ticchettare per nulla entusiasmante della macchina umana. Proprio quando i francesi furono meno liberi, sotto occupazione, per un paradosso tipicamente umano furono finalmente liberi di recuperare un senso di dignità della libertà umana. Ci fu la Resistenza; ci fu l'irriducibile e ultima libertà di dire "no" al male. Questo è un diritto non disponibile in una società preoccupata di consolidare il comportamento. Che un uomo sia disposto a subire la tortura e la morte per il bene di un principio è una sorta di perversità folle che ha poco senso nel laboratorio dei comportamentisti. Siamo tutti portati a utilizzare la parola "male" senza essere disposti a definirlo. Non è proprio un sinonimo di "cattivo", poiché non possiamo dire di un'arancia che è male, se non come figura poetica, e nello stesso modo non possiamo definire una performance di violino un male. Di sicuro, inoltre, male non è sinonimo di "sbagliato". "Giusto" e "sbagliato", lo sappiamo, sono parole con riferimenti quanto mai variabili. In altri termini, ciò che è giusto in una data epoca può essere sbagliato in un'altra. Nel periodo della guerra contro la Germania sarebbe stato sbagliato essere amici dei tedeschi, tanto che per una cosa del genere si poteva essere fucilati; in periodo di pace, sarebbe giusto essere loro amici, o quanto meno sarebbe pressoché irrilevante. È giusto obbedire alle leggi in vigore in una data epoca, e sbagliato violarle di proposito. Non possiamo prendere sul serio le definizioni di giusto e sbagliato, poiché cambiano e si trasformano molto. Ci servono quindi termini assoluti, come "bene" e "male". Il nostro atteggiamento nei confronti del bene curiosamente è vago e non impegnativo o poco sentito; siamo più abituati a sentirci dire di non commettere il male che incoraggiati a fare il bene. Il male è sempre male, e potrebbe essere concepito forse come qualcosa di fondamentalmente distruttivo, una negazione voluta e deliberata della vita organica. È sempre male ammazzare un altro essere umano, anche se talvolta è giusto farlo. Quasi certamente è male uccidere un organismo vivente, fossero anche i manzi e le pecore che ci servono per il nostro nutrimento. Essere carnivori non è né giusto né sbagliato, quanto meno nella società occidentale: è qualcosa dal significato neutro. L'induismo percepisce a tal punto la sacralità di qualsiasi forma di vita da opporsi all'idea di ammazzare un essere vivente, sia per cibarsene sia, addirittura, per difendersi da esso. È lecito utilizzare una zanzariera, ma non è lecito ammazzare gli insetti. Ho visto alcuni lavoratori hindu sobbarcarsi grandi fatiche soltanto per prendersi cura del benessere di forme di vita striscianti estratti dalla vanga o dalla pala. Occidente e oriente in linea di principio sono d'accordo sulla sacralità della vita, ma l'occidente è più pragmatico in relazione a essa. Con una sorta di evoluzione metaforica, l'occidente si spinge ben oltre l'oriente nel considerare altrettanto male distruggere un'opera d'arte, soprattutto allorché quell'opera d'arte è un capolavoro. Un capolavoro è qualcosa di organico, e sfregiare un dipinto o sfasciare una statua non costituisce soltanto un'offesa alla proprietà, ma un'offesa vera e propria alla vita. Si potrebbe applicare il principio del male ad ambiti comportamentali nei quali la distruzione della vita non è intenzionale. È sbagliato spacciare droga tra i bambini, ma pochi negherebbero che ciò è anche male: la capacità di autodeterminazione di un essere vivente ne uscirebbe compromessa. Mutilare è male. Gli atti di aggressione sono male, anche se tendiamo a trovare qualche scusante nello spirito ardente di vendetta (che è una sorta di giustizia selvaggia, diceva Francis Bacon) o nel desiderio di proteggere il prossimo da atti di violenza presunti anche se non sempre portati a termine. Tutti noi abbiamo nel nostro immaginario o tra i nostri ricordi qualche immagine del male dal quale è esente qualsiasi giustificazione seppure piccola - quattro giovanotti sghignazzanti che si accaniscono a torturare un animale, una gang di stupratori, i vandali a sangue freddo. E da ciò pare conseguire che condizionare con la forza una mente - a prescindere da quanto sia buona l'intenzione sociale - debba essere male. Tratto dal sito Repubblica.it, agosto 2012. Traduzione Anna Bissanti. Anthony Burgess, pseudonimo di John Burgess Wilson (Manchester, 25 febbraio 1917 – Londra, 22 novembre 1993), è stato uno scrittore, critico letterario e glottoteta britannico, attivo anche come compositore, librettista, poeta, drammaturgo, sceneggiatore, giornalista, saggista, traduttore ed educatore. È considerato uno dei più grandi autori inglesi del Novecento.
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