CARAIBI E CREOLIZZAZIONE IN PAULE MARSHALL Un viaggio intorno al romanzo Danza per una vedova Elisabetta Soro
Forte di un coraggio che era figlio della decisione presa all’improvviso nel mezzo della notte, Avey Johnson chiuse a forza la valigia sugli abiti che vi aveva stipati e fece slittare la serratura al suo posto.
È così che si apre il romanzo della scrittrice afroamericana Paule Marshall, Praisesong for the Widow, nella traduzione italiana Danza per una Vedova edito da Le Lettere nel 1999. Un romanzo, o, come lo definisce Giulia Fabi che ne ha curato l’edizione italiana, una “bella favola” moderna. Si apre con l’urgenza di chi ha un obiettivo preciso e deve raggiungerlo al più presto. Ma sfogliando le prime pagine ci accorgiamo subito che la protagonista è confusa, che sente l’impellente necessità di fuggire, ma non sa in quale direzione. E come una favola senza il C’era una volta classico, Danza per una vedova ne ripercorre le tappe fondamentali con uno sconvolgimento iniziale, un dilemma interiore, la lotta attraverso mille peripezie e il lieto fine.
Avey Johnson è una vedova benestante newyorkese di sessantaquattro anni, (“con i suoi cinquantotto anni, Clarice ne aveva sei in meno di Avey Johnson…”) che viaggia in un’ampia cabina deluxe di una nave da crociera, la Bianca Pride, insieme a due amiche. All’improvviso, un nodo allo stomaco, un inspiegabile malessere e in preda a un delirio seguito ad un sogno, decide di abbandonare la nave e scendere nel primo porto per prendere un volo diretto verso New York e tornare a casa.
Le due amiche non capiscono l’atteggiamento di Avey (“Deve essere impazzita,” dice Thomasina Moore) e nemmeno la protagonista inizialmente capisce cosa le stia accadendo. Si sente solamente stranita per quell’improvvisa sensazione e per il ritorno, seppure in sogno, dell’evanescente prozia Cuney con la quale tre notti prima del suo sbarco aveva avuto un faccia a faccia dopo anni di silenzio. La sogna come un tempo, per niente logorata nel fisico dalla morte e intenta a condurla nella loro rituale passeggiata agostana da Harlem a Tatem Island, verso il Landing, “il posto segnato nelle mappe come Ibo Landing.”
Sconcertata e confusa Avey decide di scendere dalla nave che attracca nell’isola di Granada nei Caraibi orientali. Sul molo mentre aspetta l’arrivo di un taxi che la conduca in aeroporto si imbatte in una folla di uomini, donne e bambini tutti in attesa di una barca. Parlano una lingua che non conosce, la salutano con cortesia, quasi con intimità, sembrano non essersi accorti che è una forestiera.
Sono gli abitanti dell’isoletta di Carriacou, le spiega il tassista poco dopo, che vivono e lavorano a Granada, e che una volta all’anno sono soliti tornare a casa per due o tre giorni. Parlano patois, “o creolo, come preferisce chiamarlo.” Il tassista l’avvisa anche che l’unico volo del giorno diretto a New York è già partito e che il prossimo è previsto per il giorno dopo. Trova quindi alloggio in un bell’albergo sulla costa in cui accusa nuovamente quel misterioso malessere allo stomaco e sotto il cuore che l’aveva perseguitata fin dai giorni prima sulla crociera.
Nella solitudine della sua camera ripensa a suo marito Jerome (Jay fino a quel maledetto martedì sera nell’inverno del 1947 in cui qualcosa era cambiato per sempre), ad Halsey Street, alla Harlem in cui aveva trascorso l’infanzia, alla casupola vicino alla ferrovia dove avevano vissuto per anni, alle sue figlie, Annawilda, Sis e Marion, al suo tentativo di sbarazzarsi di quest’ultima dal suo ventre, al sogno fatto due notti prima, a sua zia che la invitava a seguirla.
La notte trascorre tranquilla, ma verso la fine del sonno le sembra di sentire l’inconfondibile odore di un neonato che necessita di essere cambiato. Avey è convinta che si tratti di Annawilda salvo poi rendersi conto che quell’odore era “solo il lezzo stantio del proprio corpo negli abiti in cui aveva dormito.”
Decide di uscire a fare quattro passi. È una donna sfatta tanto che a stento l’addetto alla reception riesce a riconoscerla come la stessa donna elegante giunta in albergo il giorno prima. Il volo è confermato per le quattro di pomeriggio. C’è solo il tempo per una passeggiata sulla spiaggia. Assorta nei suoi pensieri non si accorge della direzione che ha preso e si allontana troppo dalla zona abitata degli alberghi. Intorno a lei un rigoglioso deserto.
Vede a distanza uno strano edificio. È stanca, le gira la testa. Si trascina all’entrata, la porta è leggermente socchiusa, e da quell’apertura proviene “una corrente scura e fresca, come una mano distesa a dare il benvenuto…e senza che lei facesse nulla…quella mano si tese e la trasse dentro.”
Era un bar, un rum shop, come lo chiamavano gli abitanti di quelle isole. Sembra non esserci nessuno. Avey si siede per riposare. Avrebbe desiderato un bicchiere d’acqua, ma il gestore sembra essersi assentato. “C’è nessuno qui dentro?” urla varie volte e quando lo sconforto sta per sopraffarla la voce di un vecchio la raggiunge all’improvviso oltre il divisorio.
“Il locale è chiuso, oui.” Un vecchio claudicante e dalle spalle curve appare da dietro lo schermo di foglie diretto verso Avey, ripetendo, seccato, che il locale è chiuso e invitandola ripetutamente ad andarsene. Avey insiste e dopo un po’ quel vecchio insopportabile con la voce ormai addolcita le spiega che tutti sanno che quando arriva quel periodo dell’anno il suo locale è chiuso per l’escursione a Carriacou. Ad Avey tornano alla mente le parole del tassista. L’anziano proprietario dice di chiamarsi Lebert Joseph con tale fierezza da innalzarsi sulla gamba più corta fino a raggiungere un altezza eguale. E le spiega che la ragione dell’escursione sono gli Antenati a cui bisogna dare la dovuta importanza. Poi il vecchio inizia ad interrogare Avey sulle sue origini: “Sono un Chamba, io! E lei cos’è?” Avey tentenna imbarazzata e confusa e lo è ancor di più quando Lebert Joseph inizia a farle l’elenco dei gruppi etnici a cui potrebbe appartenere: Arada, Cromanti, Yarraba, Moko, Temme, Banda? Alla fine Avey prende coraggio: “Io sono americana. Di New York.” Il vecchio sembra rattristarsi. A quel punto Avey Johnson sembra averne abbastanza di quel tipo eccentrico e della sua follia. Ma non riesce a varcare la porta e andarsene. Si siede nuovamente e inizia, lei questa volta, a raccontare a quell’estraneo del suo improvviso turbamento, dello strano sogno fatto, del Landing, di quel nodo allo stomaco che non l’abbandonava. Il vecchio sembra riuscire a leggere nel profondo del suo animo. “Non importava che non riuscisse a continuare. Perché l’uomo conosceva già il calvario attraverso cui era passata quella notte…anche se lei non aveva detto una parola.”
Il vecchio riprende a parlare dell’escursione, della fête, del Big Drum e dei balli e a sciorinare un elenco di nomi dai suoni strani: Belair, Cariso, Chiffone, Old Kalenda, Granbelair…accennando nel frattempo qualche passo di Juba, poi, come preso da un’improvvisa euforia, invita Avey ad unirsi a lui nell’escursione. Dopo vari tentennamenti Avey accetta.
Alle due di quello stesso pomeriggio in cui sarebbe dovuta partire per l’aeroporto, Avey Johnson si trova sul molo, in attesa dell’arrivo di una goletta che la conduca, insieme ad un altro centinaio di persone, a Carriacou. L’Emanuel C arriva puntuale, a bordo una moltitudine di donne, uomini e bambini. Tutti le sorridono cortesemente e tre anziane donne le si fanno vicine per assisterla durante il viaggio se necessario. E la necessità non tarda a sopraggiungere. Le grandi ondate che caricano la goletta da tutte le direzioni la fanno ondeggiare così tanto che Avey inizia a stare male. Lo stomaco inizia a contrarsi dolorosamente e la testa a girare.
Giunta sull’isola Avey viene ospitata e assistita in casa dalla figlia di Lebert Joseph, Rosalie Parvay. Sul suo buffet antiquato tutto è pronto per il Big Drum. “Una candela accesa su un candeliere…un piatto, una pannocchia di granturco arrostita, fresca di raccolto…” per gli Antenati. Rosalie, con l’aiuto della sua cameriera si prende amorevolmente cura della sua preziosa ospite. La lava, le massaggia il corpo stanco e l’aiuta a rivestirsi dopo quella notte agitata. Poche ore dopo, alle nove di sera, Avey Johnson, Lebert Joseph, Rosalie Parvay e Milda, la cameriera, salgano a piedi sulla collina del Big Drum. Entrano in un cortile già affollato perlopiù da anziani “A un lato dello spiazzo al centro del cortile, erano seduti tre percussionisti…i tamburi che cullavano tra le ginocchia erano semplici barilotti di rum sui cui era stato teso un pezzo di pelle di capra conciata” . Lebert Joseph in ginocchio, inizia a intonare il canto del Beg Pardon, a lui poi si uniscono i suoi parenti e i tamburi che fino ad allora avevano taciuto. I rappresentanti delle varie nazioni iniziano ciascuno la propria danza “non-danza” solenne, rigida con i piedi ben piantati nel terreno, ciascuno rendendo onore ai propri Antenati.
Ed essi non tardano ad arrivare, “chi nella veste di granchio, chi di coleottero, chi di falena, mosca o zanzara”. Avey col passare del tempo si sente sempre più coinvolta e una volta esibitisi tutti i gruppi decide di partecipare alle danze creole…“adesso possono ballare tutti quelli che ne hanno voglia”.
e i suoi piedi “si attennero al misurato scivolare-e-battere…il passo strascicato fatto per durare quanto la storia.” E quanto la storia avrebbe cercato di far durare la sua testimonianza su quanto aveva vissuto al suo rientro nelle North White Plains dove abitava, conducendo, nipoti e ospiti al Landing come sua zia faceva con lei e raccontando loro ciò che là accadde.
La trama apparentamene semplice e lineare del romanzo è organizzata, come evidenzia la Fabi, come una quest e offre diversi spunti di riflessione e analisi.
Danza per una Vedova affronta un problema determinante del nostro tempo, la mancanza di radici di una generazione di donne e di uomini di colore che abbandonano la propria terra, le tradizioni degli avi e il calore della comunità natale per la ricerca materialistica e sterile del Sogno Americano. La Marshall traccia il percorso di un contemporaneo, Avey Johnson, che soffre di questo dilemma moderno, e lo cura immergendolo in un mondo di storia, mito e rituali antichi.
Per Avey la realizzazione del Sogno Americano segna la fine del suo io, del suo essere. Si lascia completamente plasmare dalla nuova realtà in cui è inserita vivendo da benestante una vita non sua. Avey non si sente però completa. Il malessere che la assale durante il viaggio è sintomo di qualcosa che non va. “Si sentiva come qualcuno in un incubo che scopre che la strada lungo la quale sta fuggendo non è diritta come aveva pensato, ma circolare, e non ha fatto che riportarlo esattamente al punto dal quale aveva cercato di scappare.”
Sopraffatta dalla paura, la protagonista scende a Granada, abbandona amiche, sicurezza e successo, e si mette alla ricerca dell’io mancante, alla ricerca di una nuova vita, più spirituale e più vera, fatta di valori profondi e di identità forti. Avey Johnson riesce a forgiare delle connessioni col suo passato che, dopo il superamento di diverse prove a cui la protagonista si dovrà sottoporre, trasformano il suo presente. E in questa disperata e frenetica ricerca di se intervengono delle figure soprannaturali. Innanzitutto la prozia Cuney che torna dal mondo dei morti invitandola a seguirla. Rivive in sogno la loro annuale passeggiata al Landing e la sente nuovamente raccontare la storia degli Ibo che, si dice, furono condotti su quella costa in catene dal continente africano e una volta sbarcati si guardarono intorno, videro cosa sarebbe successo, “la schiavitù e la guerra…si voltarono a guardare i bianchi che li avevano portati lì,” e, camminando sulle acque con i ferri alle caviglie e ai polsi e anche attorno al collo, se ne andarono, per tornare nella loro terra.
Durante una conferenza dal titolo “Donne e Novecento” tenutasi a Cagliari la scrittrice disse che a ispirare questo romanzo fu un libro donatole tanti anni prima da un collega della Columbia University dal titolo Tamburi e Ombre. Questo libro raccoglieva numerose interviste a vecchi abitanti della costa del Sud Carolina e della Georgia. Quasi tutti raccontavano di un luogo mitico, di un’isoletta nella quale in un tempo che fu approdò un gruppo di immigrati della Nigeria. Scesi in ceppi e catene dalla nave dei negrieri, si guardarono intorno e decisero che non sarebbero rimasti un minuto di più su quella terra. Uomini, donne e bambini si voltarono verso il mare. “Avevano una tale fretta che decisero che avrebbero camminato sull’acqua”, disse Paule Marshall sorridendo. Secondo alcuni si fermarono subito, altri dissero che continuarono a camminare verso la libertà. “Potete immaginare quale versione della storia mi abbia intrigato di più.”
Ecco dunque profilarsi una prima similitudine tra gli schiavi nigeriani in catene e i loro discendenti che non hanno ceppi visibili, ma possono comunque essere incatenati in altri modi più ambigui. Come Avey Johnson, schiava del lusso, del successo a tutti i costi e del potere. Finché un sogno non cambia la sua vita restituendole la libertà.
L’allontanamento dal proprio spazio e dalla routine che fino ad allora l’aveva imprigionata è una possibile via di fuga, una risposta alla ricerca dell’identità. È attraverso il riconoscimento dei suoi legami col mondo caraibico infatti che Avey Johnson riesce a integrare diversi aspetti di se stessa. La riconciliazione col suo passato personale e con quello della sua gente le indicherà la strada per una svolta rigeneratrice della sua vita, ma segnerà anche la fine del Sogno Americano e l’inizio di un nuovo, più autonomo progetto di vita che vedrà finalmente la protagonista non plasmata sulla forma di altri, ma autentica. L’iniziale incanto dato dal successo e dalla ricchezza verrà poi sostituito dal fascino e dall’armonia che ruota intorno al legame uomo-natura-tradizione-storia.
Ma prima che Avey Johnson prenda coscienza del suo desiderio sopito di riconciliazione col passato, cerca rifugio nel mondo dei bianchi dimenticando e nascondendo una parte di se. E non è un caso che la nave da crociera in cui sta trascorrendo le sue vacanze si chiami Bianca Pride, “orgoglio bianco” e nemmeno che la casa di Avey si trovi nelle North White Plains.
Marion, la più giovane delle figlie di Avey, trova assurda la scelta di sua madre di trascorrere le vacanze su una nave da crociera “con un branco di bianchi” e cerca di dissuaderla dall’andare. E in effetti durante gli ultimi giorni di crociera prima del suo sbarco a Granada Avey soffre di quella presenza soffocante attorno a sé. Tutti i momenti di raccoglimento e solitudine sono violati dalla presenza ossessiva degli altri passeggeri, le cui facce incombono su di lei inusualmente larghe e bianche. Quando viene faccia a faccia con la sua immagine quasi non la riconosce.
Entrando a fare parte della classe media bianca e accettandone incondizionatamente le regole, Avey ha perso parte della sua identità. L’escursione a Carriacou è un’occasione per ritrovarla. È un’occasione per ristabilire un collegamento tra la sua infanzia e la sua terra d’origine, i Caraibi, la sua storia. E per fare questo Avey deve riiniziare il cammino da principio. Il processo di “purificazione” è lento e prosegue a tappe graduali. L’incontro con Lebert Joseph rappresenta una di queste. Lebert Joseph può essere considerato il mentore di Avey Johnson che la invita ad unirsi all’escursione sull’isoletta di Carriacou nel momento in cui si accorge del suo disorientamento. Tutti gli studiosi hanno riconosciuto in lui la personificazione del dio degli Yoruba (popolazione africana cui appartenevano molti schiavi trasportati nelle Americhe) Legba. E come il dio Legba che aveva una gamba corta e una lunga per fungere da collegamento tra il mondo dei vivi e quello dei morti, anche Lebert Joseph sarà il trait d’union tra il presente e il passato di Avey Johnson, l’anello di congiunzione tra il mondo terreno e quello degli spiriti, tra la generazione presente, gli antenati e quelli che ancora dovranno nascere e non in ultimo tra l’Africa e la diaspora.
E la ricongiunzione tra queste realtà apparentemente distanti avverrà sull’isoletta di Carriacou che per Avey segnerà il luogo della rinascita. La reintegrazione psicologica di Avey inizia qui, quando, a fine sera, dopo aver osservato le danze delle nazioni, si unisce ai balli rituali in un ritrovato stadio di bambina.
Il progressivo e crescente disorientamento di Avey, infatti, la fa regredire alla sua infanzia, punto di partenza per il suo nuovo e più importante viaggio verso l’io. E la trasformazione di Avey Johnson da donna matura e fatta a fanciulla da plasmare o da riplasmare segue delle precise e chiare tappe nel romanzo.
Si sveglia nella camera d’albergo sentendo l’odore, “tenue, ma familiare” di un bambino che necessita di essere cambiato e poi si rende conto che non è altro che il suo odore. E immediatamente dopo “come un bambino di due anni che stesse appena imparando a svestirsi da solo” compie dei movimenti lenti e goffi per toglierseli di dosso.
Ancora, mentre si accinge a lasciare l’albergo per fare una passeggiata l’addetto alla reception la chiama diverse volte prima di ricevere risposta e come un bambino che non ha ancora iniziato a parlare, le manca persino la parola quando lui le conferma che il prossimo volo per New York sarà quel pomeriggio alle quattro. Nella sua passeggiata sulla spiaggia Avey dimentica l’inseparabile orologio sulla toeletta del bagno e, come un bambino, è incapace di dire l’ora.
Per intraprendere il cammino verso la sua nuova vita, Avey lascia dietro di se ogni ricordo, riprende a pensare a se stessa come Avatara, dismette i suoi soliti abiti eleganti e raffinati per indossare scarpe basse “e uno chemisier di lino rosa che aveva preso a caso dalla prima borsa che aveva aperto, senza nemmeno preoccuparsi di stirare le pieghe.” Persino “la borsetta voluminosa e un po’ matronale che teneva in grembo rimpicciolì diventando la borsetta di vernice bianca di una bambina.” E quando Rosalie Parvay la sta lavando con delicatezza prima dell’escursione, lei stessa si sente come “una bambina che se l’è fatta addosso.”
È attraverso questo ritorno alla fanciullezza che Avey potrà iniziare il suo cammino di maturazione che avverrà pienamente sull’isola di Carriacou quando si fa chiaro riferimento ad una liberazione orgasmica che accompagna il bagno, rappresentato anch’esso come una cerimonia. “Tutti i suoi tendini, nervi e muscoli risuonarono in un potente accordo il cui riverbero si sentì nei più remoti angoli del suo corpo.”
Il tema del viaggio è ricorrente e accompagna il processo di purificazione. Ci sono tre tipi di viaggio a cui si fa riferimento nel testo: la crociera sulla Bianca Pride, le gite in barca sull’Hudson verso Bear Mountain (Avey Johnson ce ne parla in un lungo flashback sul molo in attesa che Lebert trovi una goletta che li conduca a Carriacou) e il viaggio finale verso Carriacou, tutti a richiamare il concetto di diaspora e dell’io migrante.
La ricerca di Avey si dirama su vari livelli e si sviluppa in un’articolata rete di legami che abbracciano diverse realtà. Dal punto di vista geografico, ad esempio, si svolge fisicamente nei Caraibi, ma, come sottolinea Carole Boyce Davies, è ambientata in Africa, con i suoi riti e le sue tradizioni a cui si cerca di dare continuazione nel Nuovo Mondo.
Danza per una vedova è un romanzo multiculturale. Prende come spunto la cultura caraibica, profondamente legata ad un passato africano, ma abbraccia contemporaneamente diverse realtà culturali del nostro tempo e del nostro passato. Molteplici, ad esempio, i riferimenti al cristianesimo con la leggenda degli Ibo e l’antico mito del camminare sulle acque (lo stesso del Vangelo), il messaggio evangelico del farsi testimoni di ciò che si è visto e sentito “fino agli estremi confini della terra” (Avey promette che al suo rientro a casa “si sarebbe assunta il compito di parlare dell’escursione ad altri, in altri luoghi. Il suo campo d’azione sarebbero stati gli angoli delle strade e i giardini della zona in cui abitavano…e il centro commerciale e la stazione del treno. E anche le strade come canyon tra gli alti edifici e i palazzi di uffici a Manhattan. Si sarebbe appostata agli ingressi dei grattacieli…”) e il nome della goletta che condurrà Avey verso la sua nuova vita, l’Emanuel C, dove “l’Emanuele” è il nome che nell’Antico Testamento il profeta Isaia darà al Messia, colui chiamato ad indicare all’uomo la via della salvezza. Si parla dell’America, rappresentata come un luogo in cui si perde di vista il sé (“non conosce la propria nazione”) per privilegiare la ricerca delle cose materiali; del rapporto che in vita si continua ad avere con i morti e i riti in loro onore, retaggio comune a molte culture e che ritroviamo spesso raccontate tra le pagine dei romanzi. Lebert Joseph racconta ad Avey che a Carriacou si usa preparare un piatto con una pannocchia di grano perché gli antenati possano analizzarne i chicchi e valutare il raccolto dell’anno. Questo racconto suscita in Avey il ricordo del filmino che sua figlia Marion aveva girato in Ghana durante il suo ultimo viaggio. In quell’occasione aveva ripreso le scene di un rito, il Durbar, in cui la ragazza aveva filmato le cerimonie per onorare con cibi e bevande gli antenati. L’autrice sarda Michela Murgia nel suo romanzo Accabadora, racconta che il giorno di Ognissanti le porte delle case del paesino di Soreni vengono lasciate aperte per consentire alle anime di entrare a rifocillarsi. Sul tavolo i culurgiones e l’abbardente (acquavite), tipici della cultura del luogo.
Il romanzo è certamente un inno alla sopravvivenza culturale, sia come credenza individuale sia come pratiche collettive rituali. E perché questo messaggio diventi universale la Marshall elude in modo singolare il problema della precisione geografica situando il suo racconto dentro il regno della mitologia e dell’immaginario piuttosto che del reale. L’isola di Carriacou rimane un miraggio.
Avey Johnson è dunque un personaggio moderno e universale che vive il dilemma della doppia appartenenza. Questa dualità di newyorkese perfettamente inserita nel tessuto sociale americano e al contempo discendente da antenati caraibici la mette in difficoltà. La propria storia e il luogo di origine riemergono a metà del suo cammino con tutta la loro forza richiamando a sé il migrante perduto. La lotta della protagonista per ritrovarsi non fa che evidenziare la problematicità della lotta identitaria. Ella vive una pluralità di identità e appartenenza che non è ancora riuscita a riconoscere e quindi a fare convivere. Avey Johnson ha oscurato una parte di se per fare posto all’altra, annebbiando quelli che sono i presupposti fondamentali della società moderna complessa, quelli che per Hannerz convergono nel termine “creolizzazione”.
La “creolizzazione”, secondo Edouard Glissant, è il risultato del contatto tra culture diverse in uno spazio circoscritto, che ha dato origine a qualcosa di totalmente nuovo e imprevedibile perché indipendente da ciascun elemento separato che lo costituisce.
Il termine “creolizzazione” deriva da concetti assimilabili come “meticcio” (dal latino mixticius i.e. composto da più parti), “ibrido” (da Hybrida i.e. bastardo, utilizzato nel francese medievale per indicare il figlio illegittimo di nobili e concubine) e “mulatto”,(da mulo, incrocio, con suffisso peggiorativo). La sua genesi è da ricercarsi nell’occasione storica delle migrazioni verso le Americhe che, ricordiamo, non sono mai state propriamente volontarie. Elementi forzosi, quali la povertà, i conflitti religiosi, le guerre civili, le necessità personali, e forzati quale la deportazione di schiavi africani, che fu accompagnata da uno dei più grandi genocidi della storia, hanno creato un assetto storico-culturale originale del Nuovo Mondo.
Parlando di creolizzazione non si può prescindere dal fare riferimento al mondo della piantagione e della campagna dove vennero inseriti gli schiavi provenienti dall’Africa. Nello spazio pluri-culturale che costituisce i Caraibi, molto spesso, furono questi i luoghi di conservazione delle tradizioni dell’Africa lontana, dove si poteva continuare a perpetrar la tradizione della musica, delle danze e dei culti.
Spesso i membri di diverse famiglie e gruppi etnici smembrati alla partenza dall’Africa o all’arrivo nel Nuovo Mondo furono i primi ad amalgamarsi in un processo di mescolanza di credo, usanze e tradizioni. Talvolta dei gruppi sociali tra loro ostili furono costretti a convivere gli uni al fianco degli altri generando da questa differenza una sorta di ispirazione per la nascita di nuovi generi, pensiamo alle musiche afro-cubane che coesistevano accanto a quelle tradizionali.
Durante la fête Avey Johnson assiste all’esibizione delle varie nazioni e riesce a partecipare alle danze, quindi a farne attivamente parte, solo alla fine quando hanno inizio le danze creole.
Nel corso della cerimonia del Big Drum le musiche che accompagnano le danze sono strettamente legate al culto nella fattispecie della venerazione degli antenati con l’utilizzo dei tamburi che, fin dai tempi della piantagione hanno avuto il compito di scandire il tempo, dare il ritmo e lo stimolo al danzatore-lavoratore. E la Marshall è così abile nell’utilizzo delle parole che è capace di rendere le atmosfere caraibiche vicine al lettore che in questo modo è quasi in grado di sentire il suono dei tamburi durante la commemorazione e prendere parte insieme ad Avey alla danza liberatoria.
Avey Johnson, come molti contemporanei, ha sposato negli anni la concezione occidentale che ciascuna identità ha una unica radice che esclude l’altra, negando quella che oggi definiamo creolizzazione (vista erroneamente come perdita, imbastardimento) che, al contrario, concepisce l’identità come radice che legittima un sistema di relazioni e che quindi rappresenta un arricchimento. La creolizzazione è fatta di elementi eterogenei che convivono in uno stesso contesto con lo stesso valore. Finché questi elementi non trovano un equilibrio per la coesistenza un elemento rischierà di essere sempre inferiore e degradante rispetto all’altro gettando l’individuo nella confusione.
Significativa è la scelta degli Stati Uniti come luogo di approdo-partenza. Infatti sebbene gli Stati Uniti siano in apparenza una società multietnica, tuttavia, tra i vari gruppi che creano tale molteplicità, c’è a tutt’oggi poco spazio per la “multirazzialità”. È negli Stati Uniti, infatti, che maggiormente si nota una tendenza a rifiutare i fenomeni legati all’ibridazione e al mescolarsi di gruppi etnici diversi, a cui si aggiunge un’eguale rifiuto ad accettare la realtà della creolizzazione. Pensiamo al bisogno diffuso di esporre la bandiera del proprio paese d’origine fuori dalla propria abitazione o sulla targa della propria automobile, oppure al bisogno di ritrovarsi insieme degli individui appartenenti agli stessi gruppi etnici creando talvolta dei veri e propri quartieri: “Little Italy,” “China Town”…e così via. “Solo perché viviamo qui non vuol dire che siamo di qui. Anche quando siamo nati qui, restiamo di Carriacou,” dice Lebert Joseph ad Avey Johnson spiegandole il senso dell’escursione. Glissant attribuisce questo fenomeno a tre fattori principalmente: i conflitti tra religioni di origine europee; le lotte contro gli indiani d’America e il loro sterminio quasi totale; le deportazioni di schiavi dall’Africa. In ciascuno di questi casi, l’oppressore e l’oppresso hanno dovuto sottolineare la propria unicità ricorrendo alla propria appartenenza etnica. Quindi, sotto questo aspetto, la storia degli Stati Uniti si è sviluppata all’interno di un’apparente contraddizione: una società multietnica con una forte tendenza all’isolamento tra gruppi etnici. Legare l’etnia all’unicità significa costruire un’identità da difendere in quanto avente un’origine unica, che esclude chiunque altro. Quando alla domanda di Lebert Joseph, “Qual è la sua nazione?” Avey Johnson non riesce a dare una risposta. “Temo che mi abbia scambiato per qualcuno di qui,” dice, aggiungendo solo in seguito, “Io sono americana. Di New York,” lo smarrimento iniziale cede il posto ad un atteggiamento arrendevole per lasciare emergere infine il suo altro io che si fa piena espressione proprio durante la danza “non-danza”, con i piedi che quasi non si alzavano dal suolo quasi a simboleggiare la ritrovata armonia con le sue radici a cui vuol stare bene attaccata. E da qua si va avanti in un crescendo di emozioni e sensazioni fino a sentire il suono struggente e profondo di un violoncello narrare “il tema della separazione e della perdita…l’inesplorato struggente desiderio che comunicava, davano voce e sentimenti che andavano al di là delle parole…a una moltitudine di ricordi subliminali che nel corso del tempo si erano dimostrati più durevoli e affidabili della storia di traumi e di sofferenza da cui essi traevano origine.”
Bibliografia
Marshall, Paule, Praisesong for the Widow. Danza per una Vedova. Firenze, Le Lettere, 1999.
Lee Liddell, Janice and Kemp, Yakini Belinda, Arms Akimbo: Africana women in contemporary literature, University Press of Florida, 1999.
Mary Conde (Editor), Thorunn Lonsdale (Editor) Caribbean Women Writers: Fiction in English [Hardcover] Publisher: Palgrave Macmillan Press, 1999.
Edouard Glissant, Migrazioni e creolizzazione nelle Americhe (La traduzione, a cura di Laura Fantone, è un adattamento basato su una trascrizione di supporto all’intervento orale di Edouard Glissant al convegno "Migrations in a changing world" (1995).
Jacques Arends, The Early Stages of Creolization, University of Amsterdam, 1996.
Elisabetta Soro nasce in provincia di Cagliari dove si laurea in Lingue e Letterature Straniere con una tesi in letteratura angloamericana dal titolo “The Florida Federal Writers’ Project.” Oggi è un preparatore linguistico presso l’Università degli Studi di Cagliari e continua a coltivare la sua passione per la letteratura afroamericana. Si occupa anche di traduzioni presso la stessa università e di scrittura creativa.
|