LA PRIMA RACCOLTA Brano tratto dal romanzo Caduta libera Nicolai Lilin
(…) – Soldato, asciugamano! – ha allungato un braccio, aspettando che Mosca gli passasse il panno verde che già da un po' teneva bene in mostra, quasi fosse un'offerta votiva come quelle che nei tempi antichi si facevano alle statue degli dèi pagani. Solo allora mi sono accorto che non era un asciugamano ma una bandiera: era verde, con le strisce colorate e qualche scritta bianca in lingua araba. Nosov ha preso la bandiera e ha cominciato ad asciugarsi con quella, facendo le smorfie più strane. A me scappava da ridere. Lui allora ha fatto la faccia seria e mi ha chiesto: - Che cazzo hai da ridere, criminale ? Io ogni santo giorno rischio la pelle per conquistare queste bandiere di merda, avrò pure il diritto di usarle per pulirmi il culo, dato che non servono a nient'altro... Mosca si è fatto una risata anche lui, e ha staccato con i denti un altro pezzo di pane nero. Nosov ha tagliato corto: – Senti, ragazzo, qui funziona così: fino a quando non ti farai un po' d'esperienza nella squadra di pulizia, la nostra famiglia non ti accetterà mai per svolgere le operazioni militari. Adesso vai a mangiare, riposati, e da domani andrai a pulire i campi. Proprio l'altro ieri qui vicino si è conclusa un'operazione, ne avrai di lavoro da fare... Poi vediamo. Detto questo ha cominciato a vestirsi, buttando per terra la bandiera verde. Era tutta bagnata, ormai era diventata un pezzo di straccio inutile, destinato a mischiarsi con il fango. Con Mosca sono tornato alla baracca, e strada facendo lui mi raccontava come funziona la vita nel reparto. A quanto avevo capito, le regole più importanti erano due: non tentare di fuggire e mangiare sempre, quando c'era la possibilità. - Cosa significa 'sta storia della squadra di pulizia? – ho chiesto impaziente. – Che campi devo pulire? Mica mi manderanno a raccogliere i pomodori ? – Ma come, non l'hai capito? – mi ha detto lui guardandomi in modo triste. - Andrai a raccogliere i cadaveri... Lo fanno per abituarti al contatto coi morti, perché poi non ti trovi in difficoltà nei momenti importanti... Tutti siamo passati di li, amico: starai nella squadra di pulizia per un paio di settimane. Il mattino dopo, seguendo le indicazioni di Mosca, mi sono presentato davanti a un grosso camion militare aperto. Li, sulle panchine di legno messe lungo le pareti, stavano sedute altre dieci persone. Ho salutato e preso il mio posto. La squadra di pulizia era composta in tutto da una ventina di persone, chiamarli «soldati» proprio non mi
veniva: somigliavano a dei becchini, solo che indossavano un'uniforme e bevevano un casino di alcol. Il nostro lavoro era molto semplice: andavamo nei posti dov'erano avvenute le battaglie, spesso scontri di massa, e raccoglievamo tutti i corpi umani e di animali che trovavamo sul terreno. Buttavamo i cadaveri dentro il camion, poi ci mettevamo insieme a loro, e così facevamo il nostro allegro viaggio di ritorno verso il campo. La mia prima «raccolta», come la chiamavano, è avvenuta in una piccola frazione di un villaggio mezzo distrutto, abbandonato da anni. Mi hanno dato un paio di guanti di gomma spessa che arrivavano fin sotto le ascelle, normalmente usati nei reparti di protezione chimica. Poi mi hanno passato una corda lunga con un nodo
scorsoio in cima, come quella con cui s'impiccano le persone. Un tipo mi ha spiegato in tre parole come si fa a spostare i corpi: – Ne prendi due, li leghi
insieme per le gambe con la corda e poi li trascini verso il camion. Non frugargli le tasche e non prendere niente dai corpi, altrimenti sono guai. Se trovi delle armi, portale al sergente. La battaglia era avvenuta qualche giorno prima, ovunque era pieno di buchi di pallottole. Le strade erano zeppe di fossi che si erano formati dopo le esplosioni dei colpi di mortaio e delle bombe a mano. Proprio all'inizio del villaggio c'era una macchina blindata russa, sventrata e bruciata, con le ruote che non avevano più le gomme; le porte posteriori erano leggermente aperte e da li si vedeva uscire una gamba che indossava uno scarpone militare. Era strano, sembrava di vedere un quadro, l'impressione che avevo era quella di entrare in una dimensione dove il tempo si era fermato: tutto era morto, non passava niente di vivo li. Ho fatto qualche passo nella direzione che mi aveva indicato il mio nuovo compagno e ho visto un cadavere in un fosso, vicino alla strada principale che portava al centro del paesino. Era impressionante, perché non somigliava a nessun cadavere che avessi mai visto prima. E dire che io di morti ne avevo visti tanti: quelli che mi avevano fatto più senso erano i corpi degli annegati, ne avevo pescati parecchi nel fiume – purtroppo alcuni erano stati anche miei amici –, e la cosa che mi aveva colpito di più era l'odore. Finché stavano
nell'acqua non si sentiva niente, ma una volta portati a riva cominciavano a puzzare così tanto che non c'era neanche bisogno di toccarli: bastava stargli vicino e già ti veniva da vomitare. I corpi degli annegati si deformavano in maniera inspiegabile: diventavano gonfi, pieni di parti che marcivano e
perdevano liquidi, somigliavano a una specie di enorme gelatina. Quand'ero ragazzino, dopo il conflitto tra Moldavia e Transnistria nell'estate del 1992, per le strade avevo visto anche molti cadaveri di guerra. Ma quei corpi mi erano stati quasi indifferenti, ero troppo occupato a cercare le armi e le munizioni, e ai morti davo poca importanza. Il mio primo morto in Cecenia, invece, mi ha fatto un'impressione diversa. Mi faceva pena, perché sembrava essere stato colto di sorpresa, in un momento della sua vita in cui non si aspettava niente di brutto. Era steso dritto, con le gambe allungate, però teneva le mani unite, intrecciate vicino al cuore, come se prima di morire avesse cercato di non lasciare andare via la sua anima. La faccia era bianchissima, la pelle sembrava fatta di marmo, tutta tirata sulle ossa, con le vene nere sul collo e sulle tempie. Gli occhi erano spalancati, ed erano così neri che non si riconoscevano nemmeno le pupille. La bocca era leggermente aperta e si intravedevano i denti sporchi di sangue. Ho guardato un po' com'era fatto e
poi l'ho afferrato per il giubbotto antiproiettile, vicino al collo, cercando di spostarlo verso la strada. A una prima occhiata mi era sembrato robusto, ma quando l'ho tirato su dal fosso sono rimasto scioccato: non pesava quasi niente, sembrava di spostare un grande straccio bagnato. Ho esaminato con attenzione la sua uniforme, che in certi punti era sottilissima, come se sotto non ci fosse più un corpo ma solamente la sagoma di un essere umano, spessa come un foglio di cartone. Stando così immobile con quel poveretto in braccio, all'improvviso ho sentito un forte e violento movimento provenire dal suo corpo. Mi sono spaventato e per istinto ho mollato la presa. Il corpo è caduto a terra, e in quello stesso momento dal giubbotto - proprio li, dove un attimo prima lo tenevo con le mie mani - lentamente è uscito un grande, enorme topo di fogna. Aveva la coda grassa e schifosamente pelata, la pelle coperta di liquidi. Il topo è uscito alla luce del giorno, mi ha guardato con cattiveria e piano, senza correre, è sceso di nuovo nel fosso. Io ero paralizzato, cercavo ancora di capire che cosa avevo appena visto. Da dietro ho sentito la voce di uno della squadra di pulizie: - Non prenderli mai per il giubbotto, dentro sono pieni di topi. Son bestiacce pericolose: mangiano carne umana, perciò sono forti e aggressive. L'anno scorso un topo con un solo morso ha quasi staccato tre dita a un ragazzo... Fai come ti dico io: prendi i cadaveri solo per le gambe e prima di legarli dagli con il piede qualche colpetto sulla pancia, così quelle bestie scappano via... Non riuscivo a capire se il tipo mi prendeva in giro o mi stava semplicemente dicendo la verità. Comunque, da quel giorno ho fatto come mi ha detto lui. Quando il camion era carico, ci salivamo sopra e ci sedevamo sulle panchine di lato. I cadaveri erano
ammucchiati uno sopra l'altro davanti a noi. Ci costringevano a mangiare davanti ai corpi, per diventare resistenti alla loro presenza. Ogni tanto, quando il camion nel tragitto affrontava una curva, i cadaveri ci cascavano addosso. Le prime volte la cosa mi dava fastidio, ma dopo mi sono abituato, me li toglievo di dosso e li ributtavo nel mucchio. Ho imparato a trattare quei corpi come oggetti qualsiasi, senza importanza. Dopo due settimane di cadaveri e topi, mi hanno detto che potevo ufficialmente entrare a far parte dei sabotatori. Brano tratto dal romanzo Caduta libera, Einaudi editrice, Torino, 2010. Nicolai Lilin (Bender, 12 febbraio 1980) ha origini siberiane e ha vissuto in Transnistria fino al 2003 e da allora vive in Italia, in provincia di Cuneo. Lavora a Milano e scrive in lingua italiana. Oltre a Caduta libera, Lilin ha pubblicato i romanzi Educazione Siberiana e Il respiro del buio.
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