LA SAGGEZZA DI MENNùSH Elisa Chimenti
Al cuore dell’Harem (Les Editions du Scorpion, Paris 1958), il primo romanzo di Elisa Chimenti, racconta storie di donne attraverso una struttura narrativa policentrica e fluida, che fonde alla linea tematica centrale – la vita domestica e coniugale di Lallà Sakìna – digressioni e affabulazioni, canti e inserti poetici. In questo vasto racconto-poema, le donne – arabe, ebree, berbere, africane, occidentali, migranti, meticce – trascorrono le lunghe ore nell’harem raccontandosi a vicenda episodi privati e storie mitiche, come la leggenda beffarda narrata dell’ebrea Tàmo.
«Vi racconterò la storia di Giuhà il buffone, che senz’altro conoscerete perché è sulla bocca di tutti i marocchini, e nessuno potrebbe pretendere che sia stata inventata da un ebreo».
«Racconta» dissero le ospiti, ridendo al solo nome di Giuhà.
«Mi è giunta voce» cominciò l’ebrea, «che Sì Giuhà il fassì aveva affittato una casa in un vecchio quartiere, non lontano dall’abitazione di Mussà, il gioielliere ebreo. Al cuore della casa del musulmano vi era un albero alto quanto il minareto di una moschea, i cui rami sporgevano fin sopra il patio di Mussà, un patio aperto, dove ogni sera il gioielliere e la sua famiglia cenavano riuniti sotto la luce del qandìl, la lanterna a olio. Giuhà, che era curioso di natura, saliva sull’albero per guardare in casa del vicino. Vedeva le donne sgranocchiare semi di melone e confezionare con seta di vari colori i bottoni che ornavano i caffettani dei musulmani; vedeva gli uomini discutere, fumando e bevendo acquavite di fico, e poi i vecchi con i loro fazzoletti blu a pallini bianchi addormentarsi sui libri sacri.
Dopo mangiato, tutti gli ebrei si ritiravano, tranne Mussà, che stendeva il tappeto di feltro della preghiera sulle zellìge e, levando le mani al cielo, diceva: “Dio dei miei padri! Aggiungi, ti prego, ricchezza alla mia ricchezza e concedimi un buon posto in paradiso”».
«E qui è il narratore arabo che parla» spiegò Tàmo, «perché nessuno dei miei fratelli ha mai pregato in questo modo».
«Sei tu a dirlo» rispose Madame, a cui decisamente Tàmo non piaceva.
«Ti crediamo, donna» assicurò Sakìna, «devi essere più informata di noi per quanto riguarda la tua fede».
«Giuhà» proseguì Tàmo, «udì la preghiera del vicino e si rallegrò pensando: “Bisogna che alleggerisca questo infedele di una parte del suo oro”.
Avendo preso tale decisione fra sé e sé, chiamò con voce grave e remota: “Mussà, mio servitore, ho esaudito la tua preghiera, sarai ricco, e inoltre ti permetterò di scegliere il posto che abiterai in paradiso dopo la tua morte. Ma devi portare con te le tue ricchezze, per non esporre, in tua assenza, tua moglie e i tuoi figli a troppe tentazioni”.
“Porterò il mio oro e le mie gioie, signore” rispose l’ebreo tutto contento.
La sera stessa raccontò alla moglie: “Domani vedrò il paradiso di Dio e sceglierò il posto dove andare ad abitare dopo la morte”. Simìta, la moglie del gioielliere, si mostrò molto interessata a ciò che aveva raccontato il marito e non smise di interrogarlo per tutta la sera.
“Ci sono turchi nella gennà, in paradiso?”
“Abbiamo lasciato un posticino anche per loro” rispose Mussà con enfasi, come se il paradiso gli appartenesse davvero”.
“E i musulmani?”
“Credi che il paradiso sia una stalla?”».
«Ah! Ah! Ah!» disse Madame Kaliàn scoppiando a ridere, «Tàmo non lo manda certo a dire ai musulmani, quello che di fatto i suoi correligionari pensano di loro».
«Ripeto ciò che è stato detto prima, che questa storia è stata inventata dai marocchini, non faccio altro che ripetere le loro parole».
«L’indomani, Giuhà appese un grande canestro di dum a un gancio di ferro, e il gancio di ferro a uno dei rami dell’albero che sovrastavano il cortile del vicino; e nel momento in cui l’ebreo iniziò la preghiera, si arrampicò sullo stesso ramo e chiamò: “Mussà, mio servitore, sei pronto a visitare il paradiso?”.
“Sono pronto, Signore!” rispose l’uomo.
“Bene, metti i tuoi beni in questo cesto, in modo che possano ascendere insieme a te”.
Mussà aveva racchiuso il suo oro e le sue pietre preziose in una cassetta, che piazzò sul fondo del cesto.
“C’è proprio tutto dentro la cassetta?” interrogò Giuhà, contraffacendo la voce.
“C’è proprio tutto, Sidnà!” rispose il gioielliere, cercando di sedersi nel cesto; ma Giuhà stava già tirando su il gancio e il gancio tirava su la corda annodata al cesto. Il tesoro del malcapitato ebreo scomparve tra i rami. Mussà il gioielliere non rivide mai più le gioie che costituivano tutta la sua ricchezza e il suo orgoglio”».
«Povero Mussà» dissero le ascoltatrici ridendo, «ma è stato così ingenuo! ».
«E’ proprio quello che volevo sentirvi dire» rispose trionfante l’ebrea, «era troppo ingenuo, eppure i miei fratelli vengono tacciati di furbizia in qualsiasi circostanza. Conosco più di cento racconti arabi e ogni volta qualche yudìo viene raggirato da un musulmano. Cosa prova questo, se non che la gente della mia razza è semplice e credulona, e che i cristiani abusano della sua buona fede? ».
«Tu dici i cristiani mentre temi i musulmani?” domandò Madame Kaliàn.
«Perché dovrei temere i musulmani più di quanto tema i nazareni?».
«Andiamo, non ricominciate con le vostre discussioni» intervenne Lallà, «ovunque nel mondo si cuociono fave, vi sono sia buoni che cattivi. Non sai, Madame, quello che si dice in Algeria, che occorrono dieci cristiani per ingannare un ebreo, e dieci ebrei per ingannare un cabilo?».
«Dio ha fatto tutte le religioni» concluse Mennùsh con saggezza, «e, come gli arabi, gli ebrei discendono dal nostro padre Abramo - Dio sia soddisfatto di lui – o per lo meno questo è quanto mi ha detto Zubèida Bent el Fqih, che è una sapiente».
«Hai parlato bene» disse Tàmo e si alzò per congedarsi, poiché si avvicinava l’imbrunire e la sua prole numerosa e affamata non avrebbe tardato a tornare dalla scuola dell’Alliance Israélite. Le atre due ospiti se ne andarono a loro volta dopo mille salàm e infiniti complimenti. Brano tratto da Al cuore dell’harem, a cura di Emanuela Benini, e/o, Roma 1999. Questo brano è stato scelto, per la serie “Le viaggiatrici” di “Sagarana”, da Milva Maria Cappellini. Elisa Chimenti, nata a Napoli nel 1883, ha solo pochi mesi di età quando segue la famiglia in un precipitoso esilio nordafricano i cui motivi rimangono poco chiari. Il padre Rosario è un libero pensatore, medico di buona fama e scrittore in dialetto. A Tunisi, Elisa impara l’arabo dalla propria balia e ha in seguito come insegnante Rabi Eliezer, un erudito ebreo che le trasmette l’amore per le letterature antiche e per le Sacre scritture. Più tardi – presumibilmente nei primi anni Novanta del secolo - Rosario Chimenti accoglie l’invito del Sultano del Marocco, Hassan I, e diventa medico di corte, in un paese prossimo a perdere l’indipendenza, economicamente debole e travagliato da lotte tribali. I Chimenti si trasferiscono così a Tangeri, all’epoca abitata da una popolazione cosmopolita, composta in prevalenza da musulmani ed ebrei che vivono insieme a rifugiati di tutte le nazioni e di tutte le opinioni, comprese le più rivoluzionarie. In un simile contesto, difficile ma ricco, Elisa riceve un’educazione aperta e libera, frequentando la scuola dell’Alleanza Israelitica Universale, la Scuola Coranica e soprattutto la Farmacia Sorbier, vivace cenacolo posto al centro della Medina, nel Petit-Socco, il mercato frequentato dagli immigrati europei. Elisa approfitta, verosimilmente, della biblioteca del padre, ricca di classici e di testi anarchici, e collabora con lui soprattutto in veste di intermediaria con le pazienti, le quali non potevano parlare direttamente con il medico per ragioni religiose. Con lui frequenta la zona del Rif – la regione montuosa a nord del Marocco – venendo a contatto diretto con le popolazioni più povere del paese. Compie inoltre diversi viaggi in Europa (in Portogallo, Spagna, Inghilterra, Olanda, Germania, Polonia e Russia). Il suo interesse per le lingue straniere è grande: arriverà a dominarne una quindicina, comprese le lingue morte. All’inizio del Novecento Elisa possiede una conoscenza straordinaria della cultura europea, araba e berbera, nonché dei testi sacri delle tre religioni monoteiste. Nel 1912 sposa Fritz Dombrowski, un polacco naturalizzato tedesco, che darà subito segni di grave squilibrio mentale e dal quale otterrà il divorzio nel 1924. Vivrà poi un grande e travagliato amore con l’interprete e traduttore algerino Si Ahmed Fekhardji. Per tutta la vita, Elisa lavora con passione e rigore, contribuendo a innovare profondamente la didattica, l’antropologia, l’etnologia, la sociologia. Tiene un salotto in cui si danno convegno intellettuali di tutte le fedi e di tutte le tendenze, ma è anche capace di organizzare un’associazione di solidarietà che aiuta le donne lavoratrici. Si veste all’europea ma all’occasione porta il velo musulmano e finisce per incarnare, senza alcun cedimento al sincretismo, una sorta di ideale interculturale e pluri-identitario. E’ l’unica straniera, e soprattutto l’unica non musulmana, a poter insegnare l’arabo letterario e a dissertare sui testi antichi con i sapienti islamici. Nel 1914, Elisa fonda, insieme a sua madre, la prima scuola italiana frequentata da allievi cristiani, musulmani e israeliti. L’École Italienne tangerina avrà in seguito una lunga vertenza con il governo fascista, tanto che Elisa potrà tornare a insegnarvi solo nel 1943. Mentre insegna (anche nell’École Libre Musulmane, fondata nel 1935 dall’amico fraterno Si Abdallah Guennoun, filosofo ed erudito, uomo politico riformista), collabora con numerose riviste marocchine e internazionali, scrive e pubblica in Marocco e in Francia diversi volumi – tra i quali Eves Marocaines (1935) e Chants de femmes arabes (1942) – e raccoglie materiali per progettate opere sulla “Chérifa d'Ouezzane”, Emily Keene, e sulle donne cristiane andate spose a principi arabi. Al centro della sua scrittura è - insieme alla natura, colta con un’attenzione che si direbbe già ecologista - la vita delle donne, con le relazioni complicate che esse intrecciano, i piccoli eroismi quotidiani che permettono loro di sopravvivere, le meschinità e gli slanci, i grandi dolori, i dettagli minuti delle attività domestiche. Lo scenario è la Tangeri variopinta e viva del primo Novecento, la lingua è un francese meticciato, denso di termini arabi, berberi, ebraici e darija. Elisa continua a insegnare nella scuola italiana a Tangeri fino al 1966. Nel 1957 aveva ricevuto dal Presidente della Repubblica Gronchi una medaglia di Cavaliere del Merito, ma l’ultima parte della sua vita è segnata da dolori familiari e da ristrettezze economiche. La lettera che nel 1959 un centinaio di allievi scrivono con le loro famiglie al console italiano di Tangeri, affinché permetta alla settanteseienne Elisa di ritirarsi dall’insegnamento continuando a vivere decorosamente, ottiene una risposta negativa. Altre suppliche, negli anni, non avranno esiti più consistenti. Elisa muore nell’agosto del 1969, e viene sepolta nel cimitero cristiano di Tangeri. Dal 2010, nel Palazzo delle Istituzioni Italiane della città marocchina ha sede la “Fondazione Mediterranea Elisa Chimenti”. Le note biografiche sono tratte dai testi presenti sul sito www.elisachimenti.org
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