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Sagarana MICHELE


Brano tratto dal romanzo La ciociara


Alberto Moravia


MICHELE



 

(…) La famiglia di Paride aveva tutto il necessario non soltanto per mangiare ma anche per vestirsi, come dire lino, lana e cuoio e buon per loro perché, come ho già detto, quattrini non ne avevano affatto o quasi, e se non avessero provveduto in questo modo, sarebbero dovuti andare in giro
nudi. Coltivavano, dunque, il lino e ci avevano le pecore per la lana e adoperavano il cuoio delle vacche, quando le ammazzavano, per le ciocie e i giubbetti. La lana e il lino, dopo averli filati al modo che ho detto, li tessevano sul telaio nella nostra stanza, ora Luisa, ora la sorella e ora la cognata di Paride; ma debbo dire che tra tutte e tre non erano buone a nulla e che, nonostante tutto quel lavoro di fuso, di conocchia e di telaio, non ci sapevano fare. Il tessuto che fabbricavano in questo modo e poi tingevano malamente di turchino con certi loro cattivi colori e finalmente tagliavano per farne pantaloni e giubbe (e non ho mai visto roba tagliata peggio, come con l'accetta) non passava una settimana che si rompeva ai ginocchi o ai gomiti e già le donne ricucivano le toppe sopra i buchi, così che appena quindici giorni dopo aver inaugurato i vestiti nuovi, la famiglia andava in giro già tutta rattoppata e pezzente. Insomma, facevano, sì, tutto quanto da loro, senza acquistare niente, ma facevano ogni cosa male e da pecioni. Michele, il figlio di Filippo, al quale comunicai queste mie osservazioni, mi rispose, serio, scuotendo la testa: "Chi fabbrica più ormai a mano quando ci sono le macchine? Soltanto dei miserabili come questi, soltanto i contadini di un
paese arretrato e miserabile come l'Italia." Non bisogna credere, però, da queste parole che Michele disprezzasse i contadini, al contrario. Soltanto, lui si esprimeva sempre in questo modo, col massimo dell'asprezza, crudo e perentorio; ma al tempo stesso, ed era questo che mi faceva maggiore impressione, senza alcuna violenza nella voce, in tono tranquillo, come se avesse detto cose ovvie e indiscutibili per le quali lui ormai non se la prendeva più da tempo e si limitava a dirle così, come un altro direbbe che il sole splende nel cielo, che la pioggia cade.
Era un tipo curioso, Michele; e siccome, poi, diventammo amici e io dovevo affezionarmi a lui come a un figlio, voglio descriverlo se non altro per riaverlo un'ultima volta davanti agli occhi. Era non tanto alto, anzi bassino, ma largo di spalle e un po' ingobbito, con la testa grossa e la fronte molto alta. Portava gli occhiali e camminava impettito, fiero e superbo, con l'aria di chi non si lascia intimidire né sopraffare da nessuno. Era molto studioso, e, come appresi da suo padre, proprio quell'anno doveva laurearsi o si era laureato, non ricordo più. Insomma aveva intorno ai venticinque anni, benché per gli occhiali e anche per il contegno così serio ne mostrasse almeno trenta. Ma il carattere, soprattutto, era insolito, diverso da quello degli altri sfollati e anche da quello delle persone che avevo sinora conosciuto. Come ho detto, si esprimeva con una sicurezza assoluta, come chi sia convinto di essere il solo a conoscere e a dire la verità. Da questa convinzione derivava, secondo me, quel fatto curioso che ho notato: pur dicendo cose aspre o violente non si scaldava affatto, anzi le diceva con un tono calmo e ragionevole e, per così dire, quasi casuale e senza rilievo, come se si fosse trattato di roba vecchia sulla quale ormai tutti quanti erano d'accordo da molto
tempo. E invece questo non era affatto vero, almeno per quanto mi riguardava; perché a sentirlo parlare, per esempio, del fascismo e dei fascisti, io provavo sempre come un senso di stupore. Per vent'anni, infatti, cioè da quando avevo cominciato a ragionare, io non avevo sentito dire
che del bene del governo; e benché ogni tanto avessi trovato a ridire su questa o quest'altra cosa che riguardava soprattutto il mio negozio, anche perché non mi sono mai occupata di politica, pensavo, in fondo, che, se i giornali approvavano sempre il governo, dovevano averci le loro buone ragioni e non stava a noialtri, poveretti e ignoranti, giudicare di cose che non capivamo né conoscevamo. Ma
ecco che Michele negava ogni cosa; e dove i giornali avevano sempre detto bianco, lui diceva nero; e non c'era niente che fosse stato buono per quei vent'anni: e tutto quello che era stato fatto per quei vent'anni, in Italia, era sbagliato. Secondo Michele, insomma, Mussolini e i suoi ministri e tutti i pezzi grossi e tutti coloro che contavano qualche cosa, erano dei banditi, proprio così diceva: banditi.
Io rimanevo a bocca aperta di fronte a queste affermazioni, fatte con tanta sicurezza, tanta noncuranza e tanta calma. Avevo sempre sentito dire che Mussolini per lo meno, per lo meno era un genio; che i suoi ministri a dire poco erano grandi uomini; che i segretari federali, proprio a voler essere modesti, erano persone intelligenti e per bene; e che tutti gli altri più piccoli, sempre tenendosi bassi, era gente da fidarsene ad occhi chiusi; ed ecco che Michele mi rovesciava, come si dice, la frittata sotto il naso, tutta in una sola volta, e li chiamava tutti quanti, senza eccezione,
banditi. Intanto, però, mi domandavo come mai lui fosse arrivato a pensare in questo modo; perché non sembrava che fossero cose che lui le avesse cominciato a pensare, come tanti in Italia, dal momento che la guerra si era messa male; come ho già accennato, si sarebbe detto che
lui quelle cose lì fosse nato pensandole a quel modo, così, naturalmente, come gli altri bambini normalmente danno il loro nome alle piante, agli animali, alle persone. Semplicemente, lui ci aveva una sfiducia antica, incrollabile, incallita, in tutti e in tutto. E questo mi pareva tanto più sorprendente in quanto lui non ci aveva che venticinque anni e perciò, per così dire, non aveva mai conosciuto altro che il fascismo ed era stato tirato su ed educato dai fascisti e così, a fil di logica, se l'educazione conta qualche cosa, avrebbe dovuto essere anche lui fascista o per lo meno, come ce n'erano tanti adesso, uno di quelli che criticavano sì il fascismo, ma a mezza bocca e senza sicurezza. Invece no, Michele, con tutta la sua educazione fascista, era proprio scatenato contro il fascismo. E io non potevo fare a meno di pensare che in quell'educazione ci dovesse essere
qualche cosa che non andava, altrimenti Michele non si sarebbe espresso in quel modo.
Qualcuno penserà a questo punto che Michele per parlare così avesse già fatto chissà quante esperienze: si sa, se uno fa qualche brutta esperienza e questo può succedere anche coi migliori governi, poi è portato a generalizzare, a vedere tutto nero, tutto brutto, tutto sbagliato. Invece no,
frequentando Michele, mi convinsi piano piano che lui di esperienze ne aveva fatte poche assai e queste poche tutte insignificanti, comuni appunto a tutti i giovanotti della sua
condizione e della sua età. Era cresciuto a Fondi con la famiglia; e a Fondi aveva fatto i primi studi e come tutti gli altri ragazzi della sua età era stato via via balilla e avanguardista.
Poi si era iscritto all'università di Roma e a Roma aveva studiato ed era vissuto qualche anno, stando in casa di uno zio magistrato. Questo era tutto. Non era mai stato all'estero; dell'Italia, oltre Fondi e Roma, conosceva appena le città principali. Insomma non gli era mai successo niente di straordinario, o se gli era successo, si trattava sempre di cose che gli erano successe nella testa, non
nella vita. Per esempio in fatto di donne, secondo me, non aveva mai fatto l'esperienza dell'amore che a tanti, in mancanza d'altro, apre gli occhi su quello che sia la vita. Lui stesso ci disse più volte che non era mai stato innamorato, che non era mai stato fidanzato, che non aveva mai fatto la
corte a una donna. Tutt'al più, a quanto mi parve di capire,
aveva avvicinato qualche mignotta, come fanno tutti i giovanotti come lui, che non hanno né soldi né conoscenze.
Così venni alla conclusione che lui queste convinzioni così radicate se le era fatte, per così dire, quasi senza rendersene conto, forse soltanto per spirito di contraddizione. Durante vent'anni i fascisti si erano sfogati a proclamare che Mussolini era un genio e i suoi ministri tutti
grand'uomini; e lui, appena aveva cominciato a ragionare, così, naturalmente, come una pianta spinge i rami dalla parte dove c'è il sole, aveva pensato il contrario giusto di quello che proclamavano i fascisti. Sono cose misteriose, lo so, e io sono una poveretta ignorante e non pretendo di comprendere e di spiegarle; ma spesso ho osservato che i bambini fanno il contrario giusto di quello che gli dicono di fare o anche fanno i genitori, non tanto perché capiscano veramente che i genitori fanno male ma per la sola e buonissima ragione che loro sono bambini e i genitori sono genitori e loro vogliono avere anche loro la loro vita, a modo loro, dopo che i genitori hanno avuto la loro. Così penso che fosse di Michele. Lui era stato tirato su dai fascisti per diventare un fascista; ma proprio per il solo fatto che lui era vivo e che voleva avere una vita a modo suo, lui era diventato antifascista.
Michele, in quei primi tempi, prese a trascorrere con noi quasi tutta la giornata. Non so che cosa l'attirasse perché eravamo due donne semplici, non tanto diverse in fondo
da sua madre e da sua sorella; d'altra parte, come dirò in seguito, non provava neppure per Rosetta un'attrazione particolare. Probabilmente ci preferiva alla sua famiglia e agli altri sfollati perché eravamo di Roma e non parlavamo in dialetto e non discorrevamo, come gli altri, delle cose di
Fondi che a lui, come disse più volte non interessavano anzi davano fastidio. Insomma, lui veniva la mattina presto che eravamo appena alzate e non ci lasciava che all'ora dei pasti, stando così con noi, praticamente, tutta la giornata.
Mi pare ancora di vederlo che si affacciava alla stanzetta dove noi stavamo senza far niente, io sul letto e Rosetta sulla seggiola e annunziava con voce gioiosa: "Allora che ne dite di andare a fare una bella passeggiata?" Noi accettavamo, benché poi queste sue belle passeggiate fossero
sempre le stesse: o si prendeva per la macera, torno torno le montagne e, sempre camminando in piano, a metà montagna, si poteva anche andare a finire in un'altra valle accanto, del tutto simile a quella di Sant'Eufemia; oppure si saliva fino al passo, attraverso le pietraie e i querceti; oppure si scendeva di qua o di là verso la valle. Quasi sempre sceglievamo la strada piana, per non faticare troppo e seguendo la macera andavamo a finire su uno sperone del
monte di sinistra che si sporgeva a picco sopra la valle. Lì c'era un grande carrubo e c'era la macchia tutta verde e piena di sole, e c'era in terra un musco morbido che serviva da cuscino. Ci mettevamo a sedere, quasi in cima allo sperone, non lontano da una roccia azzurra dalla quale si poteva spiare tutto il panorama di Fondi, di sotto; e lì restavamo alcune ore. Che facevamo? Eh, adesso che ci ripenso, non saprei dirlo. Rosetta qualche volta girava per la macchia, insieme con Michele, e coglievano i ciclamini che a quella stagione crescevano fitti, belli e grandi, con le corolle
rosa acceso ritte tra le foglie scure dovunque ci fosse un po' di borraccina. Lei faceva un gran mazzo e me lo portava e io più tardi lo mettevo in un bicchiere, sul tavolo della nostra stanza. Oppure stavamo seduti e non facevamo niente; guardavamo il cielo, il mare, la valle, le montagne.
Di quelle passeggiate a dire la verità non ricordo niente perché non ci succedeva niente, salvo beninteso i discorsi di Michele. Questi li ricordo, come mi ricordo di lui, perché erano discorsi nuovi per me e anche lui era un tipo nuovo, da me mai incontrato prima di allora. Eravamo due donne ignoranti e lui era un uomo che aveva letto molti libri e sapeva molte cose. Però io avevo
una esperienza della vita che lui non aveva; e penso adesso che con tutti i libri che aveva letto e le cose che sapeva, lui era in fondo un ingenuo che non sapeva niente della vita e si faceva su molte cose delle idee sbagliate. Ricordo, per esempio, un discorso che mi fece uno dei primi giorni: "Tu (ci dava del tu a tutte e due e noi davamo del tu a lui), tu Cesira, è vero sei negoziante e non pensi che al tuo negozio ma non sei guastata dal negoziare, per tua fortuna, sei rimasta proprio come eri quando eri bambina." Domandai: "Che cosa?" E lui: "Una contadina." Dissi: "Non mi fai un complimento... i contadini non conoscono niente all'infuori della terra, non sanno niente, vivono come bestie." Lui si mise a ridere e rispose: "Non era un complimento tanto tempo fa... ma oggi è un complimento... oggi quelli che leggono e scrivono e vivono in città e sono signori, sono i veri ignoranti, i veri incolti, i veri incivili... con loro non c'è niente da fare... con voialtri contadini invece si può ricominciare daccapo." Io non capivo bene quel che volesse dire e insistetti: "Ma che significa ricominciare daccapo?" E lui: "Be', farne degli uomini nuovi." Esclamai: "Si vede che i contadini tu non li conosci, caro mio... coi contadini non c'è niente da fare... Che ti credi
che sono i contadini? Sono gli uomini più vecchi che ci siano. Altro che uomini nuovi. Loro erano contadini prima di tutti, prima che ci fosse la gente in città. Sono contadini
e saranno sempre contadini." Lui scosse la testa con compatimento e non disse nulla. E io ebbi l'impressione che lui i contadini li vedesse come non erano e non sarebbero mai stati; piuttosto come voleva vederli lui, per i motivi suoi, che come erano davvero, nella realtà.
Lui parlava bene soltanto dei contadini e degli operai; ma secondo me non conosceva né questi né quelli. Glielo dissi un giorno: "Tu Michele parli degli operai ma non li conosci." Mi domandò: "E tu li conosci?" Risposi: "Si capisce che li conosco, al mio negozio ne capitano tanti... abitano lì vicino." "Che specie di operai?" "Eh, artigianelli, stagnari, muratori, elettricisti, falegnami, tutta gente che fatica, di tutto un po'." "E secondo te come sono gli operai?" domandò lui a questo punto, con una specie di aria canzonatoria, come preparandosi a sentire delle stupidaggini. Gli risposi: "Caro mio, non lo so come sono... per me queste differenze non esistono... sono uomini come tutti gli altri... ce ne sono dei buoni e dei cattivi... Alcuni sono sfaticati e altri lavorano... alcuni vogliono bene alla moglie e altri corrono invece dietro alle mignotte... alcuni bevono e altri giocano... Insomma c'è di tutto come dappertutto, come tra i signori e i contadini e gli impiegati e tutti gli altri." Lui disse allora: "Forse hai ragione tu... tu li vedi come uomini simili a tutti gli altri e hai ragione a vederli così... se tutti li vedessero come li vedi tu, ossia come uomini come tutti gli altri e li trattassero in conseguenza, certe cose non succederebbero e forse non saremmo quassù a Sant'Eufenia." Io domandai: "Come li vedono gli altri?" E lui: "Li vedono non come uomini come tutti gli altri ma soltanto come operai." "E tu come li vedi?" "Come operai anch'io." "Dunque," dissi, "anche tu ci hai colpa che noi stiamo quassu... Beninteso ripeto quello che hai detto tu,
sebbene non ti capisca: anche tu li consideri come operai e non come uomini simili agli altri." E lui: "Si capisce anch'io li considero come operai... ma bisogna vedere perché... ad alcuni fa comodo considerarli come operai e non come uomini per sfruttarli meglio... a me fa comodo per difenderli." "Insomma," dissi ad un tratto, "tu sei un sovversivo." Lui rimase sconcertato e domandò: "Che c'entra questo." Dissi: "L'ho sentito dire da un maresciallo dei carabinieri che frequentava il negozio... tutti questi sovversivi, diceva, fanno l'agitazione tra gli operai." Lui disse, dopo
un momento: "E mettiamo che io sia un sovversivo." Io insistetti: "Ma tu l'hai mai fatta l'agitazione tra gli operai?" Lui si strinse nelle spalle e ammise, alla fine, malvolentieri, che non l'aveva fatta. Dissi allora: "Lo vedi che non li conosci gli operai?" Questa volta non rispose nulla.
Però, nonostante questi suoi discorsi difficili che non sempre capivamo, Rosetta ed io preferivamo sempre la sua compagnia a quella degli altri uomini che stavano lassù. Lui, insomma, era più civile e inoltre era il solo che non pensasse all'interesse e ai quattrini e questo lo rendeva meno
noioso degli altri, perché l'interesse e i quattrini sono certamente importanti ma sentirne parlare tutto il tempo finisce per dare come un senso di oppressione. Filippo e gli altri sfollati non parlavano che di interesse, cioè di roba da vendere o da comprare e del costo e del profitto e di
come le cose andavano prima della guerra e di come sarebbero andate dopo. (…)
 






Brano tratto dal romanzo La ciociara, RCS Editori, Milano, 2002.




Alberto Moravia
Alberto Moravia




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