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Sagarana MOGHREB


Isabelle Eberhardt


MOGHREB



 

Che sollievo, che voluttà persino, quando il sole cala, quando le ombre delle palme da datteri e dei muri si allungano, avanzano lentamente, spegnendo le ultime luci sulla terra!
Dilegua la cupa indifferenza che si impadronisce di me durante il giorno, in certe ore moleste; ed è con uno sguardo nuovamente avido e affascinato che guardo il quotidiano splendore di questo scenario già familiare di Kenadsa. E’ di una bellezza semplice con le sue linee sobrie e i suoi colori caldi e insieme trasparenti, che abbelliscono in modo inatteso la monotonia dei primi piani, mentre vapori diafani sommergono gli sfondi.
È molto dolce e consolante questa rinascita dell’anima, che avviene tutte le sere.
L’ultima ora calda del giorno trascorre dolcemente per me, nei giardini, in tranquille contemplazioni, in pigre conversazioni interrotte da lunghi silenzi.
Nell’ora del Moghreb, quando il sole è tramontato, andiamo a pregare nella hamada che precede i grandi cimiteri e le koubba della beata Lella Aїcha, il cui candore diventa iridescenza.
Tutto è calmo, tutto è sogno, tutto è sorriso, in quest’ora incantevole.
Passano le donne, che vanno a piedi nudi verso l’Aїn Sidi Embarek. Gli uomini che chiacchieravano, semisdraiati per terra, si alzano.
Un grande mormorio di preghiera sale da questo angolo del deserto, dominato dallo ksar e dalla Barga.
Finita la preghiera, si resta seduti sui burnus stesi, le mani sgranano i rosari neri, i rosari rossi… le labbra recitano a mezza voce le litanie del Profeta.
… Essere sano il corpo, non contaminato dal peccato, dopo grandi bagni d’acqua fresca, essere semplice e credere, non aver mai dubitato, non avere mai lottato contro se stesso, aspettare senza timore e senza impazienza l’ora inevitabile della morte. – Questa è la pace, la felicità musulmana, – e chi sa? forse la saggezza…Certo, qui, le ore monotone scorrono con la dolcezza e la tranquillità di un fiume in pianura, in cui non si riflette nulla se non delle nubi molto vaporose che passano e non ritornano.
… Poco a poco sento che i dispiaceri e i desideri svaniscono in me. Lascio che il mio spirito fluttui nel vago e che la mia volontà si assopisca.
Intorpidimento pericolo e delizioso, che porta insensibilmente, ma sicuramente, alle soglie del nulla.
Questi giorni, queste settimane in cui non è successo niente, in cui non si è fatto niente, in cui non si è nemmeno tentato un qualche sforzo, in cui non si è sofferto, a mala pena si è pensato, bisogna cancellarli dall’esistenza e compiangerne il vuoto? Dopo l’inevitabile risveglio bisognerà, invece, rimpiangerli, come se fossero stati i migliori di tutta la vita?
Non so più.
Man mano che mi impregno della sensazione di vecchio Islam immobile, che qui sembra essere il respiro stesso della terra, man mano che scorrono i miei giorni, diventati calmi, mi appare sempre meno evidente la necessità del lavoro e della lotta. Io che, ancora non molto tempo fa, sognavo viaggi sempre più lontani, io che volevo agire, arrivo al punto da desiderare, senza osare ancora confessarlo a me stessa sinceramente, che l’ebrezza dell’ora e della sonnolenza attuali possano durare, se non sempre, almeno ancora a lungo.
Tuttavia, so bene che la febbre del vagabondaggio mi riprenderà, che me ne andrò; sì, so bene che sono ancora molto lontana dalla saggezza dei fachiri e degli anacoreti musulmani.
Ma quello che parla in me, quello che mi rende inquieta, non è la voce più saggia della coscienza, è quello spirito irrequieto per il quale la terra è troppo stretta e che non ha saputo trovare in sé il suo universo.
Finire nella pace e nel silenzio di qualche zaouїya del sud, finire recitando preghiere estatiche, senza desideri né rimpianti, di fronte ad orizzonti splendidi.
In fondo, sarebbe questa la fine auspicabile quando verranno la stanchezza e il disincanto, più tardi.






Brano tratto da Nel paese delle sabbie, traduzione di O. Antoninetti, Como-Pavia, Ibis,1998. Questo brano è stato scelto, per la serie “Le viaggiatrici” di “Sagarana”, da Milva Maria Cappellini.




Isabelle Eberhardt
Isabelle Eberhardt nasce a Ginevra nel 1877, da Nathalie Eberhardt Moerder, vedova di un generale russo, e da padre sconosciuto, forse il pope armeno Alexandre Trophimowski, precettore dei figli di Nathalie, amico di Bakunin e discepolo di Lev Tolstoj. Ventenne, Isabelle – che già studia l’arabo - visita l’Africa con la madre, convertitasi all’islamismo, che vi muore e viene sepolta a Bône (l’antica Ippona, oggi Annaba) sulla costa algerina. Tornata in Europa, Isabelle rifiuta il matrimonio con un diplomatico turco e due anni più tardi fa ritorno in Nord Africa: iniziano i suoi viaggi nel deserto e nelle città nordafricane, con gli abiti e l’identità maschile di Si Mahmoud Saâdi, “un giovane turco scappato da un collegio francese”: “Vestita come si conviene a una ragazza europea, non avrei mai visto niente – scriverà Isabelle – non avrei avuto accesso al mondo, poiché la vita esterna sembra essere stata fatta per l’uomo e non per la donna. E invece mi piace immergermi in un bagno di vita popolare, sentire le ondate di folla scorrere su di me, impregnarmi dei fluidi del popolo. Solo così posseggo una città e ne so ciò che un turista non capirà mai, malgrado tutte le spiegazioni delle sue guide”. Isabelle si lega al musulmano di nazionalità francese Slimène Ehni, sottufficiale degli spahi, e viene iniziata alla confraternita sufi dei Qadriya. Espulsa dalle autorità coloniali algerine, insospettite dai suoi comportamenti eccentrici, rientra nel paese grazie alla nazionalità francese che ha acquisito nel 1901 sposando, a Marsiglia, Slimène. Può così riprendere le esplorazioni a cavallo, in Algeria, in Tunisia e in Marocco, spinta dal “torturante bisogno di sapere e vedere quello che c’è là, al di là della misteriosa muraglia blu dell’orizzonte”. Diventa amica di legionari e marabutti, sceicchi ed eremiti, eppure la solitudine sembra essere per lei il bene più grande: “Essere soli - scrive - è essere liberi, e per il carattere del vagabondo, la libertà era la sola gioia a cui si potesse pervenire”. Si ammala di malaria e forse di sifilide, frequenta i caffè arabi, beve e fuma il kif, vive un’esistenza ricca e turbinosa, eppure è sedotta dalla fatalistica immobilità esistenziale islamica, dall’abbandono al mektoub, il destino in quanto volontà di Dio: “Ho scritto così poco sul mio taccuino, malgrado qualche rimorso, qualche velleità di scrittura… Ancora una volta la vita beduina, facile, libera, con il suo ritmo regolare e dolce, mi ha catturata per inebriarmi e intorpidirmi. Scrivere… Perché?”. Tuttavia, annota avventure e dettagli, paesaggi e sensazioni, in appunti che, rielaborati, vengono poi pubblicati su riviste francesi e locali. Scrive anche un diario di viaggio, racconti, un romanzo. Nell’estate del 1904, trascorre un periodo di contemplazione e studio nella zaouïya di Kenadsa. Nell’ottobre dello stesso anno, una devastante inondazione distrugge la città di Aïn Sefra, in cui Isabelle vive: a 27 anni, l’inquieta Isabelle- Mahmoud muore travolta dalle acque di un torrente in piena, in mezzo al deserto del Sahara. L’opera di Isabelle Eberhadt si legge in italiano soprattutto nelle edizioni Ibis, a cura di Olimpia Antoninetti: Nel paese delle sabbie, 1998; La via del deserto (vol. 1: Yasmina e altre novelle algerine; vol. 2: Il paradiso delle acque, 2002-2003); nelle edizioni Guanda è apparso nel 2002 il volume Sette anni nella vita di una donna – lettere e diari, a cura di Eglal Errera e nella traduzione di Leonella Prato Caruso. Nel 2008 è uscito Scritti sulla sabbia, presso l’editore Mursia.




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