LE FERITE INTERIORI Brano tratto dal romanzo Il vento contro Stefano Tassinari
Raffy, dintorni di Queyrières, 23 ottobre 1943
Costretti dalla canna di un mitra a rientrare di colpo nella loro stanza-prigione, Jean, Maurice, Abraham e Pietro hanno trascorso un altro paio d'ore della sera precedente a dissertare sul concetto di mito, approfittando di un tema così straniante per farsi coraggio a vicenda, ma senza dichiararlo apertamente. Adesso sono le dieci del mattino e, strano a dirsi, non sì è ancora fatto vivo nessuno, nemmeno per spedirli a pulire le latrine o a raccogliere legna da ardere. Sono tutti svegli da tempo, eppure hanno scelto, ognuno per conto proprio, di restare rintanati sotto le coperte, un po' per ripararsi dal freddo – il fuoco sì è spento da molte ore – e un po' per difendersi dall'onda lunga di un'umiliazione. Perché di questo si tratta, quando la canna di quel mitra sembra il bastone di un pastore e quattro uomini sono ridotti a comportarsi come pecore. camminando uno a ridosso dell'altro, formando un piccolo gregge destinato al proprio recinto. Le ferite interiori fanno peggio di quelle inferte al corpo, ed è per questo Che Jean non ha chiuso occhio per tutta la notte, girando su se stesso in cerca di una via d'uscita da quel dolore intenso, dall'impotenza che si prova di fronte ai muri – visibili o trasparenti, materiali o solo immaginari – dai quali è circondato. Per una volta Jean è preso soltanto da se stesso e non sente muoversi i corpi degli altri, né i loro discorsi pronunciati a bassa voce. Pensa ai pezzi sparsi della propria famiglia, all'attimo in cui ha scelto di fare quella vita anziché lasciarsi andare al ritmo lento della normalità, agli incontri che avrebbe potuto schivare e invece ha realizzato a tutti i costi, ai molti che gli sono passati accanto per poi tirarsi indietro di fronte ai primi rischi. Era destino o è stata colpa delle circostanze? Quel bisogno insopprimibile di ribellarsi se lo porta dietro fin dall'infanzia o gli è stato trasmesso da qualcuno? E poi: è davvero insopprimibile o lo si può scambiare con un visto d'uscita per l'America, o con l'abiura delle proprie convinzioni? Sotto il peso di queste domande gli sembra di essere ancora più infossato nel giaciglio, impermeabile ai suoni e ormai stordito dai dubbi. Che cosa fa di un uomo un irriducibile nemico del sistema in cui è immerso, e subito dopo di una sua precisa parte, e infine di una fazione avversa dello stesso campo? Il caso, avrebbe voglia di dire, ma preferisce pensare a una necessità interiore, a qualcosa che non si riesce a dominare neanche con la ragione, anche se di fatti scatenanti e di incidenti di percorso è piena la vita di ciascuno. Jean è nato poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, quindi non ha alle spalle la pesantezza e i drammi di quel periodo, così importanti nell'orientare le scelte di altri compagni, a cominciare da Pietro, che quella guerra l'ha combattuta nella maniera più dura. Ha trascorso un'infanzia come tante, senza subire traumi che ne potessero condizionare il pensiero, e già da giovanissimo ha iniziato a lavorare come impiegato nel settore del commercio. Tutto normale, niente che possa spiegare i motivi di un'adesione così totale a un gruppo politico tanto esposto ai rischi da costringere i propri militanti a guardarsi da chiunque. Eppure, a soli ventiquattro anni, è già considerato un esponente di spicco del movimento trotskista marsigliese, con alle spalle una condanna a dieci anni di carcere e di lavori forzati, la stessa che stava scontando nel carcere di Le Puy. Una condanna esagerata, comminata dal tribunale per aver diffuso documenti considerati "insurrezionalisti" e resa ancor più odiosa dal dubbio – in realtà quasi una certezza – che a provocarla sia stato il comportamento di un agente dei servizi segreti sovietici, così distratto da dimenticare certi materiali in un cassetto, subito ritrovati, guarda caso, dai poliziotti guidati dal commissario Sirinelli. E poi c'è il paradosso, insopportabile per Jean, di una sentenza basata su leggi che reprimono l'attività a favore della Terza internazionale staliniana, e cioè proprio l'organizzazione a cui sono fedeli gli uomini che lo tengono prigioniero adesso e quelli che, un po' di tempo prima, l'hanno consegnato agli alleati dei nazisti. Per tutto ciò dovrebbe ringraziare un certo Noél Field, un seguace americano di Stalin infiltrato in un'associazione umanitaria (e in seguito membro famoso del Partito comunista francese), ma Jean non lo sa e non lo saprà mai. Quello che sa, oggi, rinchiuso in una baita dell'Alta Loira, è che gli eventi l'hanno travolto ancor prima di capirne la natura, e per questo non si dà pace. Quegli eventi cerca di metterli tutti in fila, come se il dare loro un senso cronologico lo potesse aiutare a comprenderli meglio. All'inizio c'è il giorno della scelta, avvenuta in un caffè nei pressi del porto di Marsiglia, e alla fine c'è la porta di questa baita che viene chiusa a chiave alle sue spalle. In mezzo ci sono i pochi e intensi anni della sua dedizione, gli occhi scuri di una ragazza della quale non sa più nulla, l'incoscienza dei gesti a perdere, l'attimo confuso del suo arresto, la gola che si secca al suono della frase «condanna a dieci anni», la timidezza provata di fronte ai compagni più anziani nel campo di prigionia di Mauzac, gli sguardi malinconici sulla libertà della gente comune lanciati dai camion durante i trasferimenti carcerari, la solidarietà di alcuni e il disprezzo di altri, la fuga inattesa da Le Puy-en-Velay, la speranza improvvisa e la delusione quasi immediata. Ma in mezzo, prima di ogni ricordo, c'è un giovane corpo abbandonato al proprio destino, sorretto da una mente che, un'ora dopo l'altra, perde di lucidità, per quanto Jean non si dia per vinto. Io non sono un eroe e vivo la paura come un sentimento umano, ripete a se stesso col pensiero. Mentre nasconde gli occhi alla luce del giorno, riflette sul fatto di non aver previsto di ritrovarsi in questa situazione. Non quando aveva diciott'anni, almeno, spontaneista e istintivo com'era a quell'età, l'unica che gli sia stato concesso di vivere senza tensioni. Non è sicuro che gli faccia bene rivangare quel passato prossimo e remoto nello stesso tempo, ma stamattina non riesce a evitarlo. Così, sopra uno schermo immateriale, scorrono le immagini di certe passeggiate in riva al mare di Marsiglia, delle serate trascorse con gli amici d'infanzia a rinnovare un sogno dopo l'altro, delle prime discussioni affettuose e pacate con il padre socialista, degli amori adolescenziali e dell'orgoglio provato nel ricevere il primo salario da lavoratore. E scorre anche un ricordo buffo, capace persino di farlo sorridere. La memoria lo riporta a quando aveva sedici anni, a un giorno in cui, assieme ai genitori, visitò per la prima volta la città di Nîmes. Passeggiando per il centro, notò la targa di una strada che portava il suo nome: rue Jean Reboul. Emozionato da questa scoperta chiese informazioni al padre, senza ottenerne: né lui né la madre sapevano nulla di questo suo omonimo così importante da meritarsi l'intestazione di una via. Chiedendo in giro, scoprirono subito l'identità e la storia del personaggio, in onore del quale, con una controversa celebrazione svoltasi il 17 maggio 1876 – contestata da gruppi di repubblicani al canto della Marsigliese – il sindaco e il consiglio comunale decisero di erigere una statua, inaugurata proprio quel giorno all'interno del jardin de la Fontaine. Quel Jean Reboul, nato nel 1796 a Nîmes e morto nella stessa città nel 1864, era un poeta – anzi, un"poeta fornaio", visto che gestiva una boulangerie – oltre a essere un fervente monarchico esattamente come il sindaco che gli dedicò il monumento, un certo Adolphe Blanchard, passato alla storia, se così si può dire, proprio per aver rallentato in tutti i modi l'applicazione dei principi repubblicani nella sua città. Insomma, pensa Jean girandosi nel letto, non c'era certo da vantarsi di quell'omonimia!
Rimarrà qualcosa di tutto ciò – della sua educazione sentimentale e politica, della vicenda del poeta di Nîmes, delle chiacchierate con il padre, delle emozioni e degli innamoramenti giovanili – o verrà cancellato assieme al resto dalle manipolazioni architettate dai vari Misa, Sosso, Vial e dai loro capi? E poi, è proprio questo che gli preme salvare – la dignità delle proprie scelte e il valore dei propri ricordi – o non è piuttosto la sopravvivenza fisica? (…) Brano tratto dal romanzo Il vento contro, Marco Tropea editore, Milano, 2008. Stefano Tassinari (Ferrara, 24 dicembre 1955 – Bentivoglio, 8 maggio 2012) è stato uno scrittore, drammaturgo e sceneggiatore italiano. Ha pubblicato diversi romanzi e suoi racconti sono presenti in una decina di antologie, pubblicate in Italia e in alcuni Paesi stranieri. Autore di testi teatrali, letture sceniche e di programmi radiofonici per Rai Radio 3, è stato ideatore e direttore artistico di varie rassegne letterarie, tra le quali La parola immaginata e Ritagli di tempo (ITC Teatro di San Lazzaro). È stato autore di documentari televisivi girati, oltre che in Italia, in Nicaragua, Spagna, Francia, Portogallo ed ex Jugoslavia. Ha curato la messa in scena di decine di opere letterarie di scrittori italiani e stranieri, collaborando con attori e registi (tra gli altri: Leo Gullotta, Marco Baliani, Ottavia Piccolo, Silvano Piccardi, Antonio Catania, Matteo Belli, Ivano Marescotti, Laura Curino e Renato Carpentieri), musicisti (tra gli altri: Paolo Fresu, Riccardo Tesi, Mauro Pagani, Yo Yo Mundi, Têtes de Bois, Mario Arcari, Armando Corsi, Antonello Salis, Daniele Sepe, Patrizio Fariselli, Jimmy Villotti, Paolo Damiani e Gianluigi Trovesi) e fotografi (tra gli altri: Mario Dondero, Giovanni Giovannetti, Tano D'Amico, Raffaella Cavalieri, Luca Gavagna e Dario Berveglieri). Vicepresidente dell’Associazione Scrittori Bologna, ha scritto di letteratura su quotidiani e riviste. È stato direttore e fondatore di Letteraria (rivista semestrale di letteratura sociale), legata dapprima ai nuovi Editori Riuniti e poi dal 2010 a Edizioni Alegre. È stato prima militante di Avanguardia operaia, poi segretario della federazione ferrarese di Democrazia proletaria, infine (dopo una parentesi nei Verdi arcobaleno), è stato militante del Partito della Rifondazione comunista, fondatore e animatore del circolo PRC "Victor Jara" di Bologna. È scomparso nel 2012 all'età di 56 anni dopo una lotta contro una grave malattia durata otto anni. I suoi libri: Riflesso di ruggine, Cooperativa Charlie Chaplin, 1980, All’idea che sopraggiunge, Corpo 10, 1987, Ai soli distanti, Mobydick, 1994, Assalti al cielo. Romanzo per quadri, Calderini, 1998, Perdisa, 2000, L’ora del ritorno, Marco Tropea Editore, 2001, I segni sulla pelle, Marco Tropea Editore, 2003, L’amore degli insorti, Marco Tropea Editore, 2005, Il vento contro, Marco Tropea Editore, 2008, D'altri tempi, Edizioni Alegre, 2011.
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