FLEMMONI Brano tratto dal romanzo Essere senza destino Imre Kértesz
Trascorsi la notte nella tenda dell’infermeria, all’ultimo piano di un box, per di più da solo, e l’unico aspetto spiacevole fu che alla solita ora dell’attacco di diarrea non riuscii a usare la gamba e invano cercai aiuto – prima sussurrando, poi chiamando più forte e infine addirittura gridando. Il mattino seguente, insieme a numerosi altri corpi, hanno buttato anche il mio sulla lamiera bagnata di un camion scoperto e mi hanno portato in una località vicina che si chiamava, se ho capito bene, Gleina, dove si trovava l’ospedale effettivo del nostro campo. Durante il trasbordo ci sorvegliava un soldato seduto su un vezzoso strapuntino, con il fucile bagnato e luccicante appoggiato sulle ginocchia: sulla faccia aveva un’espressione visibilmente contrariata, a tratti di ripugnanza, forse per un improvviso fetore o per quanto inevitabilmente era costretto a vedere, qualche volta arricciava anche il naso in segno di schifo – e ne aveva in parte ragione, come dovevo ammettere anch’io. Ma soprattutto mi feriva il fatto che sembrava essersi fatto un giudizio ben preciso, che evidentemente era giunto a una conclusione molto diffusa, e io avrei tanto voluto giustificarmi: in fin dei conti non è tutta colpa mia, in origine non era questa la mia natura – solo che sarebbe stato difficile dimostrarlo, me ne rendevo conto, è naturale. Una volta arrivati, dovetti subire l’improvviso getto d’acqua proveniente da un tubo di gomma, una specie di tubo da annaffiamento, che era diretto su di me e mi inseguiva senza pietà lavandomi via di dosso tutto, gli stracci che mi rimanevano, lo sporco, ma anche la fasciatura di carta. Poi mi portarono in una stanza dove mi consegnarono una camicia e mi assegnarono il comparto inferiore di un letto di tavole di legno: qui mi fu concesso di distendermi su un pagliericcio che, per quanto duro, schiacciato e appiattito – suppongo dal mio predecessore – e qui e là mostrasse macchie sospette, colorazioni che odoravano e scricchiolavano in modo altrettanto sospetto, era pur sempre un giaciglio vuoto, tutto per me. E qui, finalmente, lasciarono che fossi io a decidere come passare il tempo e soprattutto mi lasciarono veramente dormire.
A quanto pare, ci portiamo appresso le vecchie abitudini anche nei posti nuovi: devo ammettere che anch’io, all’ospedale, ho dovuto combattere inizialmente contro numerose abitudini inveterate, incallite. Per esempio c’era la questione della coscienza: nei primi tempi mi faceva svegliare sempre puntuale, di primo mattino. Una volta mi capitò di svegliarmi di soprassalto con l’impressione di aver mancato l’appello e che fuori mi stessero già cercando: solo poco alla volta le palpitazioni rallentarono e mi resi conto dell’errore, realizzai quello che vedevo intorno, la testimonianza della realtà che, in un certo senso, mi trovavo a casa, che tutto era a posto: nel letto accanto qualcuno geme, poco oltre due stanno conversando, là qualcuno fissa il soffitto, stranamente zitto, col naso affilato, gli occhi sbarrati e la bocca aperta, avverto solo il dolore alla ferita e tutt’al più – come sempre – la sete, probabilmente per via della febbre. In poche parole, mi ci vuole un po’ di tempo per crederci davvero: niente appello, non occorre che veda i soldati e soprattutto non devo andare al lavoro – e non c’era circostanza concomitante, non c’era malattia che potesse realmente sminuire tutti questi vantaggi, almeno per me. Di tanto in tanto mi portavano anche in una piccola stanza al primo piano, dove operavano due medici, uno più giovane e l’altro più avanti negli anni del quale io ero per così dire il paziente. Era un uomo simpatico, magro, coi capelli neri, l’abito e le scarpe puliti, portava una fascia sul braccio e aveva una faccia ancora come si deve, riconoscibile, che ricordava una vecchia volpe gentile. Mi domandò da dove venissi e raccontò che lui era originario della Transilvania, intanto mi aveva già strappato via la fasciatura di carta ormai lacera, che nella zona del ginocchio era incrostata e di un giallo verdognolo, aveva puntato entrambe le mani sulla mia coscia per schiacciare fuori quanto nel frattempo vi si era accumulato. Alla fine, con una specie di uncinetto, mi infilò tra la pelle e la carne dei pezzi di garza arrotolata spiegando che lo faceva “per tenere vivo il flusso”, per il “processo di depurazione”, perché la ferita non si rimarginasse prima del dovuto. Io, per parte mia, ascoltavo volentieri queste cose, dopo tutto fuori non perdevo niente, per me la guarigione non era affatto urgente, a ben pensarci, è comprensibile. Un po’ meno di mio gusto fu invece un’altra sua osservazione. Riteneva che il buco sul mio ginocchio fosse insufficiente. Secondo lui occorreva praticare un taglio anche lateralmente e collegarlo poi al primo mediante una terza incisione. Mi chiese se lo avrei lasciato fare e io mi meravigliai moltissimo, perché mi guardava come se stesse veramente aspettando una mia risposta, forse addirittura il mio consenso, per non dire la mia autorizzazione. Dissi: “Come lei crede”, e allora lui reputò che fosse meglio mettersi subito all’opera. Così intervenne seduta stante, solo che io non riuscivo a evitare di gridare e mi accorgevo che questo lo metteva in imbarazzo. Più volte mi avvertì: “Così non riesco a lavorare” e io cercavo di difendermi: “Non ci posso fare niente”. Dopo aver inciso qualche centimetro, lasciò perdere senza portare a termine quanto era nelle sue intenzioni. Tuttavia anche così mi sembrò discretamente soddisfatto, infatti osservò: “Meglio che niente”, perché da quel momento poteva spillarmi il pus in due punti, così disse.
In ospedale il tempo trascorreva facilmente: quando non dormivo, a tenermi occupato erano la fame, la sete, il dolore alla ferita, di tanto in tanto due chiacchiere oppure l’evento della medicazione – ma anche senza occupazioni, anzi, potrei dire: proprio grazie alla stuzzicante consapevolezza di ciò, grazie a questo privilegio, fonte di inesauribile gioia, stavo molto bene. Di tanto in tanto interrogavo i nuovi arrivati sulle novità del campo, da quale blocco provenissero e se per caso conoscevano un certo Bandi Citrom del Block V, uno di media statura, col naso rotto e senza gli incisivi, ma nessuno ne sapeva niente. Le ferite che ebbi modo di vedere nella stanza delle medicazioni erano simili alla mia, nella maggioranza dei casi sulle cosce o sui polpacci, anche se qualche volta erano più in alto, sui fianchi, sul didietro, sulle braccia e persino sul collo e sulla schiena; erano quello che la scienza chiama flemmoni, così sentivo dire in continuazione e il fatto che si formassero e si manifestassero tanto di frequente non era né strano né sorprendente viste le normali condizioni di vita in un campo di concentramento, come venni a sapere dai medici.
Qualche tempo dopo arrivarono quelli cui bisognava amputare uno, due, a volte persino tutte le dita dei piedi; furono loro a riferire che fuori era inverno e che in quegli zoccoli gli si erano congelati i piedi. Un’altra volta entrò nella stanza delle medicazioni un tipo con la divisa a righe che gli stava a pennello, doveva trattarsi di un eminente d’alto rango. Udii la parola “Bonjour!” pronunciata sottovoce ma chiaramente distinguibile; da questo, come pure dalla “F” sul suo triangolo rosso, dedussi che era francese mentre dalla fascia con scritto “O.-Arzt” che portava sul braccio, dedussi che doveva trattarsi del medico capo del nostro ospedale. Lo osservai bene, perché da tempo non avevo più visto un uomo altrettanto bello: non era molto alto, il suo vestito però era riempito in proporzioni giuste, ovunque la carne gli ricopriva le ossa in quantità sufficiente, altrettanto piena era la faccia, ogni lineamento era inconfondibilmente il suo, le espressioni e la mimica erano ben riconoscibili, il mento era arrotondato con una fossetta al centro, la pelle un po’ scura, olivastra, riluceva alla luce proprio come un tempo a casa tra esseri umani. Non mi sembrava ancora vecchio, lo immaginavo intorno ai trenta.
Mi accorsi che anche i dottori si diedero subito da fare cercando di compiacerlo, di spiegargli ogni cosa, ma notai che non lo facevano tanto obbedendo agli usi del campo quanto piuttosto a un’abitudine vecchia e familiare, un’abitudine che destava antichi ricordi, e lo facevano con la squisitezza, la felicità e quella vanità sociale che sorgono quando si ha occasione di mostrare che si è perfettamente in grado di comprendere e di parlare una lingua dotta, come per esempio in questo caso il francese. D’altro canto – come dovetti constatare – era chiaro che il medico capo non vi dava importanza: guardò tutto fornendo di tanto in tanto qualche breve risposta oppure annuendo, ma lo fece lentamente, sottovoce, con aria malinconica, indifferente, e sulla faccia e negli occhi color nocciola aveva sempre la stessa espressione di scoraggiamento, anzi, quasi di desolazione. Ero sconcertato, perché non riuscivo a capire da cosa potesse dipendere, visto che si trattava di una persona così benestante, considerata e distinta, che per di più era riuscita a raggiungere un rango tanto elevato. Cercai di leggergli in faccia, di seguire i suoi movimenti e poco per volta ci arrivai: anche lui, questo era poco ma sicuro, era costretto dopo tutto a stare qua e solo lentamente e non senza stupore, non senza un allegro modo di sconcerto, si rafforzò in me l’impressione, la supposizione che ad affliggerlo fosse proprio questo – in poche parole la prigionia in quanto tale, così mi parve. Stavo quasi per dirgli di non essere triste, che era il minore dei mali – ma temevo di essere presuntuoso, inoltre mi sovvenni di non sapere una sola parola di francese.
Il trasferimento nel complesso me lo sono perso perché ho dormito. Anche a me era già giunta voce che al posto delle tende di Zeitz era stato eretto un campo per l’inverno, baracche di pietra, la più adatta delle quali era stata adibita a ospedale. Di nuovo mi buttarono su un camion - dall’oscurità dedussi che era sera e dal freddo che era pieno inverno – dopo riconobbi l’anticamera illuminata e fredda che conduceva a un’enorme sala, e una vasca di legno che odorava di sostanze chimiche: vi dovetti entrare anch’io – fu inutile lamentarsi, supplicare e protestare – bisognava immergersi fino ai capelli per motivi di igiene e questo mi fece inorridire non soltanto per il freddo del contenuto di quella vasca ma anche perché tutti gli altri malati in fila prima di me, come vidi, si erano già immersi in quella broda marrone – con le loro ferite e tutto il resto. Dopo, il tempo ha cominciato a scorrere anche qui, in sostanza come nella località precedente, tutto sommato con poche divergenze. Nel nostro nuovo ospedale, per esempio, le cuccette erano a tre piani. Dal medico mi portavano meno di frequente, quindi la mia ferita doveva depurarsi da sola, abbandonata com’era a se stessa. In più, ben presto si fece sentire un dolore all’anca, quindi comparve l’ormai nota sacca color rosso fuoco. Un paio di giorni più tardi, dopo aver aspettato per vedere se per caso si riassorbiva oppure se a volte capitava tra capo e collo qualcos’altro, dovetti mio malgrado comunicarlo all’infermiere e dopo un ulteriore rinvio, dopo altri giorni di attesa, è arrivato il mio turno dai medici nell’anticamera della baracca; così adesso avevo un taglio lungo circa come la mia mano non solo al ginocchio ma anche all’anca. Un’altra circostanza spiacevole era data dal posto che occupavo in uno dei letti in basso, proprio di fronte a una finestrella angusta e alta, affacciata su un cielo eternamente grigio, le cui inferriate erano sempre ricoperte di ghiaccioli e di aghi di gelo dovuti probabilmente alle esalazioni che si formavano qui dentro. Io, invece, indossavo solamente quanto era concesso a un malato: una camicia corta senza bottoni e in vista dell’inverno uno strano berretto di maglia verde, che scendeva sopra le orecchie, sulla fronte era a forma di cuneo e ricordava un pattinatore di velocità o la maschera di Satana in teatro, ma che per il resto era molto utile. Di conseguenza soffrii molto il freddo, specialmente dopo aver perso una delle mie due coperte, i cui brandelli mi erano serviti fino ad allora per supplire abbastanza bene ai difetti dell’altra: se gliela potevo imprestare solo per un attimo che me l’avrebbe restituita – così aveva detto l’infermiere. Invano avevo cercato di trattenerla con tutte e due le mani, di avvinghiarmi a un capo, lui si era dimostrato più forte e, oltre alla perdita, mi turbava anche il pensiero che le coperte – almeno per quanto ne sapevo io – venivano sottratte principalmente a quelli di cui si calcolava prossima la fine, anzi, potrei dire a quelli di cui ci si aspettava la fine. Un’altra volta fui messo in guardia da una voce ormai ben nota, anch’essa proveniente da uno dei letti in basso, ma più verso il fondo: doveva essere comparso un altro infermiere con in braccio un nuovo malato e sembrava intento a capire in quale dei nostri letti avrebbe potuto depositarlo. Quello della voce, però – come venimmo a sapere – aveva diritto a un letto tutto per sé a causa della gravità del suo caso e per concessione del dottore, sicché sbraitò e tuonò con voce potente: “Io protesto!” e recriminò “Io ho diritto! Lo chieda al dottore!” e di nuovo: “Io protesto!” . Così gli infermieri ogni volta finivano col depositare il loro carico su un letto che non fosse il suo – per esempio sul mio – e in questo modo mi arrivò come compagno di branda un ragazzo su per giù della mia stessa età. Avevo l’impressione di aver già visto la sua faccia gialla, i suoi grandi occhi ardenti – anche se qui tutti avevano la faccia gialla e grandi occhi ardenti. La prima cosa che disse fu, se alle volte avessi un goccio d’acqua e io gli risposi che non l’avrei disdegnato nemmeno io; la seconda, subito dopo la prima: e sigarette?, ma naturalmente nemmeno con questa richiesta ebbe fortuna. In cambio mi offrì del pane, io però gli dissi che le sue parole non servivano, che non dipendeva da questo ma semplicemente non ne avevo; a quel punto ammutolì per un poco. Suppongo che avesse la febbre, perché dal suo corpo che tremava senza sosta fluiva un calore costante che per me era piacevole quanto utile. Meno gradevole, invece, era il fatto che di notte si dimenasse e si agitasse, e non sempre con il dovuto riguardo per le mie ferite. Finché poi gliel’ho detto: basta, che mi concedesse un po’ di pace, infatti a un certo punto ha dato ascolto alle mie parole. Solo il mattino dopo ho visto perché: all’ora del caffè ho cercato invano di svegliarlo. E quando l’infermiere mi ha bruscamente chiesto di porgergli la sua gamella, proprio mentre gli stavo per annunciare il caso, non ci ho messo né uno né due e me la sono fatta riempire. Poi mi sono fatto dare anche la sua razione di pane e la sera la sua zuppa e avanti così, finché un giorno ha cominciato a essere davvero troppo strano: a quel punto non mi è non mi è rimasta altra scelta che comunicarlo, del resto non potevo tenerlo di più nel mio letto. Ero un po’ imbarazzato, perché il ritardo era evidente e con quel po’ di esperienza che dovevo mettere in conto, anche il motivo era palese – tuttavia lo portarono via insieme agli altri grazie a Dio senza dire niente e per qualche tempo mi lasciarono senza compagno di branda. (…) Brano tratto dal romanzo Essere senza destino, Feltrinelli Editore, Milano, 1999. Traduzione dal tedesco di Barbara Griffini. Imre Kértesz, scrittore ungherese, Nobel per la Letteratura 2002.
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