TORE Brano tratto dal “Diario di un morto che cammina” Alessandro Angeli
“La figura è idda, non sta nello specchio che la riflette”, disse tutto incantato, indicando col mignolo unghiuto il tavolino lucido accanto a lui. Mio zio Giovanni si divertiva a confonderci con i suoi rompicapi e noi ce lo dovevamo assuppare. Se ne approfittava perché come falegname in Inghilterra aveva fatto i picciuli e non ci veniva praticamente mai quaggiù, se non per farci vedere la sua macchina di merda e abbagnarci a tutti quanti. Nel piccolo soggiorno lucido ce lo guardavamo costernati, zitti zitti, poi mia madre si alzava per preparare il caffè, e così, almeno lei si salvava.
“E se sfasci lo specchio che succede Zio? Porta scalogna per caso?” Mettevo lì per ridere.
“Che c’entra la scalogna picciò, quella è roba pì i baciapili ... è proprio iddo ... se sconocchi lo specchio, tieni il tavolino”.
“E chi sono i baciapile zio?”
Approfittavo del tempo che impiegava a spostare la testa a destra e a manca per attirare su di sé quella poca attenzione rimasta, come faceva sempre prima di rispondere, per svignarmela. Quando con gli occhi mi teneva troppo sottotiro invece, ero costretto a inventarmi una scusa qualunque, gli dicevo che Tore e Salvo erano abbasso che mi aspettavano e che dovevo scappare. “Vero è Zio, devo proprio andare!” Lui allora mi guardava come a dire, fa’ come ti pare e indispettito come una scimmia volgeva lo sguardo.
Col sole che avvampava alto sul mare, lungo i detriti del molo, correvamo in bicicletta, la bocca arsa per la sete, la grande palla rossa che si stampava alle nostre spalle pareva finta. Sfrecciavamo come falchi tra i banchi di Ballarò, ci alzavamo con le mani sui manubri per lo sforzo, i piedi scalzi. Io chiudevo la fila. Tore stava davanti, Tano e Salvo invece si disponevano ai lati. Quando decidevamo di non tornare a casa, avanzavamo piano nella sera che si spargeva silenziosa tra le case. Andavamo a infrattarci lungo il binario morto della stazione Notarbartolo. Nel vecchio vagone abbandonato ci dividevamo quello che durante il giorno eravamo riusciti a trovare.
Tore se ne stava quasi sempre in disparte, si avvicinava solo quando aveva finito di strafogarsi la roba sua. “Faccillo vedè che ti sei accucchiatu … Tore!!”
“Fatti i cazzi tuoi”, gli rispondeva lui senza guardarlo, mentre continuava a rimasticarsi la cicca e allora Tano si zittiva.
Qualche volta decidevamo di annottarci al vagone. Tutt’intorno c’era un silenzio che spaccava le orecchie. Rincantucciato nel buio, sentivo in lontananza un locomotore fare manovra, lo sentivo trascinarsi stancamente le tonnellate di ruggine del suo peso, in un bordello di fischi e stridori. Qualcuno di nascosto veniva a rubarsi il ferro vecchio, per buscare il quarto di chilo al mercato. Li sentivo ghignare mentre attraversavano i binari vuoti, con la voce dei lupi.
La mattina stordito dalla veglia e dal sole che si spargeva ovunque tentavo di tornare a casa. Non riuscivo nemmeno a svoltare l’angolo, che mia madre era già fuori dal portone che mi rincorreva tutta allazzata.
“Talè, ven’a cca disgraziato, ven’a cca fetuso”, urlava furiosa per la strada e quando si era stancata di rincorrermi, prendendo la mira, tentava di colpirmi con la tappina. Con tutto il quartiere affacciato alla finestra, che faceva da cornice.
Un giorno sempre a Ballarò, Tore, dopo uno dei nostri soliti traccheggi al mercato, si era fermato a guardare una moto di grossa cilindrata e quella pausa gli era stata fatale. Vidi il grosso braccio nerognolo agguantarlo per la maglietta, Tanuzzo e Salvo si erano già dati da un pezzo. Rimasi imbambolato per qualche istante, con un piede puntato a terra, ma quando l’uomo voltò il suo sguardo verso di me, feci leva sui pedali e scappai. Per molte notti prima di addormentarmi ho rivisto quella scena nella testa: l’espressione annichilita di Tore e l’uomo che lo afferra e carica il pugno, un attimo prima di colpirlo.
Dopo le partite al campetto dei salesiani andavamo al forno Letizia a chiedere l’acqua frizzante, era l’unico negozio del circondario, coi muri accanto che esplodevano al sole. La mamma di Filippo il fornaio, teneva in braccio il nipote in mezzo ad una gara di mosche. Guardavo i biscotti di buccellato, le crostate, i baci di zucchero, mentre lui si asciugava il sudore.
“Picciò l’acqua noi la pagamo e quella che fa ’e bolle ve la potete pure scurdà! Sentite a me”. Ripeteva donna Fiorenza come una cantilena, succhiando la dentiera, mentre gli altri vecchi intorno a lei si sforzavano con gli occhi socchiusi di metterci a fuoco. Allora Filippo andava nel retro, riempiva due bottiglioni di acqua del sindaco e li appoggiava sulla vetrina appiccicosa di marmellata.
“Jatevinne” diceva con un sorriso sdentato e noi uscivamo fuori.
In mezzo a un nugolo grigio, accanto al cofano aperto della sua macchina, Mimmo ogni tanto sporgeva la testa e santiava tutto il calendario, perché aveva bruciato un’altra volta la coppa del motore. Sul muro, accanto al negozio cinese dalle lanterne sbrindellate, c’era una scritta nera fatta con lo spray: DIA MERDA, diceva.
Per un po’ di tempo non vedemmo più Tore, pensavamo fosse sparito chissà dove o finito a fare il manovale pure lui, nel cantiere edile di suo cugino Ignazio a Bagheria. Poi un giorno al campetto dei salesiani mentre qualcuno mi passava la palla in mezzo alla puzzolana, ricomparve, ed io lo vidi. Tanto che il Menno, (o mennomato), per la prima volta in vita sua, me l’aveva sfilata dal piede la palla, senza che me ne accorgessi. Era insieme ad altri due tasci più grandi di lui, uno indossava una giacca blu elegante e ci cadeva dentro. La cosa che più mi sorprese però, era che Tore non aveva scavalcato il muretto di cinta come facevamo tutti noi, ma era passato direttamente dall’ingresso principale, come facevano i preti. Guardavo Tore fumare al bordo del campo sportivo, faceva lo smargiasso. Tanto che quando Salvo con ancora il fiatone per la corsa gli si avvicinò per chiedergli una sigaretta “Accattatele!”, gli rispose, lanciandogli il pacchetto sulla puzzolana e si allontanò con le mani in tasca senza nemmeno musarlo. Poi tutti e tre erano entrati in campo senza che nessuno glielo avesse chiesto e correndo e babbiando ci avevano rubato il pallone e rovinato del tutto la partita.
Ogni giorno Tore e gli altri avvicinavano i ragazzi più piccoli, se li lisciavano distribuendo dolcetti e sigarette, li riunivano in capannelli con Tore che girava intorno. I preti da lontano lo guardavano e non dicevano niente.
Quando nessuno mi vedeva nel boschetto fuori dal campo sportivo ogni tanto appoggiavo la mano al tronco di un albero e rimanevo per lunghi minuti a guardarla. Fissavo la mia mano e poi la corteccia, aspettavo che le dita divenissero legno, perché volevo diventare anch’io un albero e vivere per sempre. Alessandro Angeli nato a Roma nel 1972 č giornalista, consulente e redattore editoriale. Ha pubblicato i romanzi: fuori stazione (2006), Maginot fotogenesi di un romanzo, (2008). La lingua dei fossi, miserie e orgoglio di un fuorilegge, č di prossima pubblicazione.
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