Torna alla homepage

Sagarana ABBASSO LA POLITICA, VIVA L’ECONOMIA


Brano tratto dal saggio L’esperimento profano - Dal capitalismo al socialismo e viceversa


Rita di Leo


ABBASSO LA POLITICA, VIVA L’ECONOMIA



 

Il progetto originario aveva riservato all’economia un ruolo al servizio della politica. Secondo il linguaggio sociologico l’economia era un sottosistema della politica. Ai primordi la politica era la lotta di classe per la nuova società, era il potere del partito sul territorio e sui suoi abitanti. Politica e
potere avevano come fine il far stare insieme ceti sociali tradizionalmente contrapposti in modo differente dal passato; le trasformazioni necessarie spettavano ai rivoluzionari e ai politici di professione. Uno dei loro compiti fu porre sotto controllo la creazione e la distribuzione della ricchezza del paese. I pianificatori furono incaricati della transizione dal capitalismo all’economia pianificata. Dal 1929, anno di avvio del primo piano quinquennale e per il successivo mezzo secolo,
pochi misero ufficialmente in dubbio il successo di quella transizione. Alla fine degli anni settanta la situazione era cambiata oltre i sogni del più perspicace avversario dell’Urss: si erano invertite le priorità e la politica-progetto era ridotta allo stato di ideologia mentre il mondo dell’economia si era conquistato spazio e potere.
Un destino imprevisto era toccato all’élite sovietica: intanto si era divisa in «politica» ed «economica», e nessuna delle due era disposta a riconoscere di essere al secondo posto nella scala del potere. Secondo la teoria, l’egemonia spettava alla politica ma i suoi rappresentanti nelle sedi ufficiali, dal Cremlino al comitato di partito di fabbrica, ormai difendevano a stento le posizioni. L’élite economica, erede degli ex operai ed ex contadini divenuti dirigenti di fabbrica, responsabili di settori industriali, estensori dei piani, aveva conquistato il controllo della ricchezza del paese e guardava all’ambiente del lavoro manuale con tutte le sue guarentigie come a un terreno ostile da bonificare. Considerava l’élite politica come un incomodo rappresentante del lavoro manuale in favore del quale emanava irrealistiche leggi sui collettivi sindacali e sul controllo popolare.
In Dal potere all’ostracismo descrivo come il Pcus perse il suo primato. A vincere sul campo fu l’élite economica i cui uomini sconfissero il partito, la sua organizzazione, i suoi 19 milioni di membri e allo stesso tempo misero fine all’influenza dell’operaismo sul paese. Le due vittorie sono una legata all’altra. L’operaismo e la sua proiezione politica, la gestione popolare, erano la conseguenza del patto originario tra il partito e la classe operaia. Sconfiggere il partito divenne preliminare al redde rationem con l’ambiente del lavoro manuale. I due eventi topici furono: il 27 aprile 1989, quando Gorbachev espulse i comitati del partito dalle fabbriche, e il 19 agosto 1990, quando un piccolo gruppo di alti funzionari del partito andò a trovare in vacanza l’ultimo segretario
generale del Pcus, sempre lo stesso Gorbachev, nell’intento di fargli cambiare la sua strategia di logoramento del potere sovietico. Non vi riuscirono e furono additati al paese e al mondo come responsabili di un colpo di Stato, colpevoli di bloccare il cambiamento in corso nell’Urss. E così effettivamente era, solo che dal loro punto di vista si trattava di difendere la sopravvivenza dell’Urss. L’anno dopo l’Urss sparì dalle carte geografiche. Nella nuova Russia insieme
al successore di Gorbachev, il presidente Boris Yeltsin, andarono finalmente e ufficialmente al potere gli alti quadri dei ministeri ex sovietici e dei grandi conglomerati di esportazione dei settori strategici (energia, militare, metallurgia, legname): grazie ai proventi delle privatizzazioni, e ai giochi sui differenziali tra prezzi domestici e internazionali, essi divennero i proprietari dei maggiori gruppi finanziarioindustriali. Essi avevano per la produzione manifatturiera, così peculiare alla vicenda sovietica, la medesima ripulsa che avevano per il partito comunista. Nei primissimi anni della Russia post-sovietica essi agirono con qualche cautela non tanto verso il lavoro manuale quanto verso la gestione popolare, verso quel particolare clima sociale di aggiustamenti reciproci che aveva caratterizzato l’ultimo quarto di secolo del paese. Si deve alle cautele verso la gestione popolare l’iniziativa di privatizzare le fabbriche distribuendo le azioni tra i dipendenti nell’ipotesi che la transizione dall’economia pianificata dovesse avere una prima fase di capitalismo popolare. L’iniziativa ebbe un esito chiarificatore della situazione di debolezza in cui erano i «bastioni» del passato. Gli operai vendettero subito le azioni della propria fabbrica a chi offriva loro quattro soldi. E in brevissimo tempo le fabbriche divennero proprietà di società finanziarie. I membri di queste società, verificato il disinteresse popolare per le attività imprenditoriali, trasformarono l’ipotesi del capitalismo popolare nella realtà del capitalismo selvaggio che nei quasi venti anni successivi
avrebbe segnato le sorti del paese.
Il carattere selvaggio del capitalismo post-sovietico riguardò innanzitutto le attività finanziarie, e poi l’acquisizione alegale degli impianti di produzione, delle strutture dei servizi, degli immobili urbani. Se l’epoca sovietica si era caratterizzata per l’industrializzazione diffusa, per il numero di operai urbani che ancora nel 1986 erano in crescita, l’epoca postsovietica rigettò l’esperienza passata e imboccò la via del capitalismo finanziario-speculativo come la più conveniente.
La convenienza del capitalismo finanziario russo stava nel gioco speculativo che creava ricchezze mai sognate prima. La conseguenza dell’investire in borsa piuttosto che nell’ammodernamento
dell’apparato produttivo fu la deoperaizzazione e deindustrializzazione della seconda potenza strategico- militare del mondo. In Il capitalismo di tipo russo descrivo il declino dell’economia manifatturiera, travolta dalla finanza speculativa. Nei primi dieci anni della Russia post-sovietica, esponenti vecchi e nuovi dell’élite economica presero possesso delle fabbriche obsolete e a lungo le lasciarono così come erano. Quasi come fossero castelli e fortezze da conquistare, da svuotare dei nemici e da lasciare alle intemperie della sconfitta.
Nel paese le fabbriche erano in crisi, gli operai senza lavoro, senza assistenza sociale, senza diritto alle abitazioni, tradizionalmente assegnate loro dalla fabbrica. La produzione industriale cadde del 50 per cento, nelle campagne i contadini, da sempre considerati ostili alle cooperative agricole,
avendo infine la possibilità di diventare produttori autonomi, si rifiutarono di rischiare e rimasero dove erano da più di mezzo secolo. Nel paese tornò la contrapposizione di classe ma con le parti sociali rovesciate. Questa volta non erano gli operai a espropriare fabbriche ma era l’élite economica a farle fallire e a cacciare gli operai. Fuori dai luoghi di lavoro essi persero l’influenza sociale che avevano così a lungo mantenuto, e che tradizionalmente era stata vista dai dirigenti delle fabbriche come l’ostacolo alle proprie funzioni di dirigenti.
Sull’epilogo dell’esperimento tanti sono gli interrogativi. Innanzitutto c’è da capire perché i vincitori, sconfitti gli uomini del partito e della politica dell’Urss, non diedero un governo al paese ma rimasero miseramente invischiati nella rete dei propri interessi particolari. C’è da capire perché i vincitori si comportarono con gli operai come se fossero i diretti responsabili della servitù politica subita dal lavoro intellettuale durante l’esperimento. Totale fu la ripulsa sia nei confronti dell’ideologia originaria che dichiarava il popolo al potere e gli operai eroi del socialismo con le loro medaglie al valore del lavoro, sia nei confronti della gestione popolare che sul lavoro e nella vita quotidiana era stato la reazione dal basso alle promesse irrealizzate dell’ideologia.
I vincitori ripristinarono l’ordine sociale rovesciato ai primordi dai rivoluzionari di professione: il lavoro manuale tornò al fondo e il lavoro intellettuale riebbe lo status sociale perso. Tornarono socialmente al loro posto gli intellettuali umanisti della tradizione russa, rimasta sempre viva sotto il
tappeto del realismo socialista. I vincitori sono intellettuali, matematici con il genio della finanza, economisti con l’opportunità di proporre affari, ingegneri con la capacità di fare i manager, tecnici e scienziati con progetti da realizzare per il miglior committente. Come gli ex ministri e gli alti funzionari dei grandi conglomerati produttivi essi appartengono al mondo dell’economia e da
decenni stavano osteggiando il primato della politica. I vincitori agirono come venissero direttamente dall’altro mondo, per 74 anni considerato concorrente, e non fossero gli eredi dell’élite di estrazione popolare allo stesso modo degli sconfitti, gli uomini del partito comunista dell’Urss. Essi agirono come dovessero far scomparire nel più breve tempo possibile le tracce dell’esperimento. Fecero santo lo zar, ucciso dai loro antenati perché aveva sparato sul popolo. E con ciò stesso intesero spezzare il legame con la propria origine, con la rivolta popolare che Lenin aveva trasformato nella rivoluzione, aprendo a essi la strada dell’ascesa sociale. Essi erano saliti ormai in cima alla scala sociale ma ciascuno agiva per sé e per il proprio gruppo di interesse. Essi giocarono al massacro culturale di quella società sovietica in cui avevano subito i dogmi dell’interesse collettivo, del bene comune, del sacrificio individuale. Nelle piazze furono tirate
giù dai piedestalli le statue dei responsabili dell’esperimento, furono tolte dalle biblioteche e buttate in strada le opere di Marx, l’ostracismo politico e l’emarginazione sociale colpì la sparuta minoranza degli intellettuali ideologi, rimasti chiusi nel passato.
Fu il popolo minuto però il principale bersaglio: privato dei diritti «sovietici», dal lavoro garantito alla sanità gratuita, ai prezzi politici del pane e dei beni primari. Nel giro di pochissimi anni la condizione sociale del lavoro manuale tornò simile a quella precedente il 1917. Umanisti e tecnici erano tutti uniti dalla volontà di vendicarsi dello stato di cattività, patita ai tempi dell’esperimento. Come se i lavoratori manuali senza lavoro e senza casa degli anni novanta fossero gli stessi operai bolscevichi che negli anni venti si erano installati con la forza negli appartamenti degli aristocratici, dei borghesi, degli intellettuali. Come se l’affronto allora subito dovesse essere lavato spogliando dei diritti acquisiti il mondo del lavoro, ricacciandolo nella situazione in cui era nelle altre società. E come altrove vi erano le eccezioni: la forza lavoro degli impianti petroliferi e delle industrie militari mantenne i privilegi materiali dell’era sovietica, ed è l’aristocrazia operaia della nuova Russia.
Il resto della manodopera è sottoccupata, retribuita saltuariamente, socialmente passiva, politicamente inesistente, senza alcun sostegno da parte delle autorità locali e nazionali, e raffigura plasticamente la sconfitta della classe operaia. Una sconfitta subita senza un moto di rivolta. Come se l’operaismo ideologico e l’autonomia operaia sul lavoro non avessero inciso su 74 anni di storia del paese. Come se dalla «leva operaia» del 1924 ai «Comitati di controllo popolare» del 1983 la classe operaia non fosse stato altro che un mito di cartapesta. Infine ridotto in cenere. Ancora più ai margini della società post-sovietica sono i lavoratori pensionati cui nessuno più garantisce il pagamento della pensione, a cui spesso gli speculatori hanno sottratto la casa: essi, e le donne sono ancor più numerose degli uomini, si mettono nei punti di maggior traffico delle città con in mano qualche suppellettile domestica da vendere. Li scorgi al mattino prendendo la metropolitana e li ritrovi alla sera, piccoli mercanti senza successo nella fase di maggior successo del mercato.
Essi rappresentano la pena di contrappasso di un girone dantesco: il castigo da subire per il rovesciamento dell’ordine sociale, tentato dall’esperimento. I vincitori hanno vissuto la fine dell’Urss come l’occasione per affermare il diritto alla diseguaglianza, all’individualismo, al soddisfacimento degli interessi di parte. La transizione così selvaggia al capitalismo ha avuto un carattere di rivalsa verso il progetto politico e verso la figura sociale considerata protagonista, verso il lavoratore manuale così a lungo contrapposto all’intellettuale. La rivalsa è tale che quando è arrivato «il politico di professione» Vladimir Putin, nessuno si è chiesto se nella sua strategia di riscatto per lo Stato-nazione Russia e per la sua economia vi fosse anche una questione operaia. E Putin è il figlio di un operaio eroe del lavoro socialista.






Brano tratto da L’esperimento profano – dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse editrice, Roma, 2012.




Rita di Leo
Rita di Leo è Professore emerito di Relazioni internazionali nella «Sapienza» Università di Roma. Tra i suoi libri, le analisi chiave per comprendere miti e realtà del comunismo sovietico: Operai e sistema sovietico (Laterza), Il modello di Stalin (Feltrinelli), Vecchi quadri e nuovi politici (Il Mulino).




    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo Nuovi Libri