LETTERA A TANIA Antonio Gramsci
Carissima Tania,
io non sono mai stato un giornalista che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella sua qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo, sempre di una sola opinione, e non ho mai dovuto nascondere le mie convinzioni per fare piacere a dei padroni.
È strano che tu vorresti da me una spiegazione del fatto che alcuni gruppi cosacchi credevano che gli ebrei avessero la coda. Si tratta di una barzelletta, raccontatami da un ebreo, commissario politico di una divisione d’assalto di cosacchi di Orenburg durante la guerra russo-polacca del 1920.
Questi cosacchi non avevano ebrei nel loro territorio e li concepivano secondo la propaganda clericale come esseri mostruosi che avevano ammazzato Dio. Essi non volevano credere che il commissario politico fosse ebreo: “Tu sei dei nostri”, gli dicevano, “non sei un ebreo; sei pieno di cicatrici delle ferite toccate dalle lance polacche, combatti insieme con noi; gli ebrei sono un’altra cosa”.
La questione delle razze non mi interessa. Così è senza valore il tuo accenno all’importanza dei sepolcri per ciò che riguarda la civiltà; ciò è vero solo per i tempi antichi, per i quali i sepolcri sono i soli monumenti non distrutti dal tempo e perché dentro i sepolcri, accanto al defunto, venivano messi gli oggetti della sua vita quotidiana. In ogni caso questi sepolcri ci danno un aspetto molto limitato dei tempi in cui furono costruiti.
Io non ho nessuna razza; mio padre è di origine albanese, mia madre è sarda per il padre e per la madre, e la Sardegna fu unita al Piemonte solo nel 1847, dopo essere stata un feudo personale e un patrimonio dei principi piemontesi che la ebbero in cambio della Sicilia che era troppo lontana e meno difendibile. Tuttavia la mia cultura è italiana fondamentalmente, e questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi.
D’altronde nessuno in Liguria si spaventa se un marinaio si porta al paese una moglie negra.
Non vanno a toccarla col dito insalivato per vedere se il nero va via né credono che le lenzuola rimarranno tinte di nero.
Ti abbraccio teneramente.
Antonio
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Brano tratto da L’albero del Riccio – Antonio Gramsci – Edizioni Memori Soc. Coop. A.r.l. – Prima edizione dicembre 2011.
(Se i Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci sono tra le opere più lette e tradotte nel mondo, L’albero del riccio è ormai tra i classici della letteratura per l’infanzia.
Arrestato al suo rientro in Italia da Mosca, dove si era sposato e aveva avuto due figli, Delio e Giuliano, il grande intellettuale comunista mantenne un legame sempre vivo con la famiglia.
Questo libro, scritto da Gramsci nel carcere di Turi tra il 1929 e il 1935, raccoglie le lettere ai due figli – che non rivedrà più – nelle quali racconta “favole vere”, storie di briganti e di animali, della sua infanzia e della sua isola, la Sardegna. Un testo nel quale la dimensione intima del pensatore sardo, il suo voler essere padre nonostante la lontananza forzata, non è mai disgiunta dall’impegno civile e da quella militanza politica alla quale sacrificò la propria esistenza.) Antonio Gramsci è tra i fondatori del settimanale socialista l’Ordine Nuovo e, nel 1921, tra i promotori della nascita del Partito Comunista d’Italia. Come delegato del partito, frequenti sono i suoi viaggi a Mosca, dove si sposa e nascono i suoi due figli. Rientrato in Italia, nel 1926 viene arrestato e nel 1928 è condannato a 20 anni di carcere. Muore il 27 aprile 1937. Le sue ceneri sono conservate al Cimitero acattolico di Roma.
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